Tra i centri nevralgici del jazz negli Stati Uniti, Washington D.C. non è certo il primo nome a venire in mente, eppure la capitale federale ha offerto nel corso degli anni una notevole fornitura di musicisti di rilievo (e in alcuni casi anche qualcosa di più), sia per nascita sia per importazione diretta, spesso dalla vicina Baltimora o dagli Stati del Sud. È infatti la sua posizione strategica – la città è toccata da un’arteria fondamentale come la Route 1, che collega la Florida al Maine attraversando nell’ordine centri come Miami, Jacksonville, Raleigh, Richmond, Baltimora, Filadelfia, New York e Boston – ad averla resa la prima tappa importante, e spesso definitiva, per le migrazioni afro-americane da Georgia, South e North Carolina e Virginia. Questa collocazione geografica ha avuto ovvie conseguenze anche sulla vita musicale, come racconta uno dei maggiori batteristi dei nostri tempi, Billy Hart, nativo (1940) proprio di Washington: «Crescere in città ti dava una visione più ampia. Eravamo proprio a metà tra il Sud e New York: da nord scendevano i grandi musicisti di jazz a suonare allo Howard Theatre, dal Sud salivano i grandi del R&B come Otis Redding e James Brown. A fine anni Cinquanta ho visto di tutto, e spesso mi è capitato di suonare con grandi nomi che, per motivi economici, ingaggiavano ritmiche locali. Ne ho tratto grande beneficio, potendo apprezzare e imparare una gran quantità di stili diversi».
Tra i nomi di peso della scena locale il primo può essere soltanto Duke Ellington, washingtoniano di ferro che, dopo qualche anno di carriera in cui aveva spremuto fino all’ultima goccia le possibilità cittadine e quelle dell’area circostante (la Virginia era ed è a due passi), nel 1922 si trasferisce definitivamente a New York (ricordiamo en passant che nel 1935 si stabilirà a Washington un musicista che il Duca apprezzava ben poco, vale a dire Jelly Roll Morton, e vi resterà tre anni buoni – come testimoniano le famose incisioni per la Library of Congress – oltretutto rischiando seriamente di lasciarci la pelle per una brutta storia di soldi). Ma oltre a Ellington è giusto citare altri personaggi di spicco come Charlie Rouse (nato nel 1924 e che tornerà nel nostro discorso), Frank Wess (nato a Kansas City nel 1922 ma residente a Washington fin da piccolo), Jimmy Cobb (1929), il chitarrista Charlie Byrd (nato in Virginia nel 1925, e dal 1950 fisso nella capitale), Shirley Horn (1934) e due singolari sassofonisti, ciascuno a suo modo, come Roger «Buck» Hill (1927) e il ben più giovane Andrew White (1942).
Non esattamente piccoli calibri, quindi. Non lo è stato neanche Buck Hill, sassofonista oggi pressoché dimenticato ma di notevolissimo livello, e che avrebbe potuto avere ben diversa carriera e tutt’altra notorietà se fosse stato disposto a trasferirsi a New York e intraprendere la vita del jazzista a tempo pieno. Così non è andata, perché la sua vera professione non era quella di musicista bensì di postino, tanto che per ben quarant’anni Hill ha consegnato lettere di giorno e suonato la notte, spesso alzandosi alle quattro di mattina (o non tornando neanche a casa) per andare a esercitarsi al sassofono nel centro di smistamento della corrispondenza, ancora deserto in attesa dell’inizio del turno quotidiano.

C’è quindi da chiedersi perché uno strumentista che già a fine anni Cinquanta era considerato il più forte sassofonista di Washington, un autentico animale da palcoscenico capace di dare filo da torcere in jam session ad autentici cacciatori di scalpi come Sonny Stitt e Gene Ammons, invano sollecitato più volte da Count Basie, Dizzy Gillespie e Miles Davis a entrare nei loro gruppi, insomma perché un musicista che aveva tutte le qualità per imporsi a livello non soltanto nazionale abbia preferito restare tra le sue quattro mura e dedicarsi completamente al jazz soltanto a pensione raggiunta, vale a dire nei primissimi anni Novanta. Si tratta di uno dei tanti misteri del jazz, un enigma che forse non può essere completamente spiegato né con l’ostinata riluttanza di Hill a viaggiare né con il suo fastidio per la vita on the road (in pratica il sassofonista è uscito dagli USA pochissime volte: nel 1981 per suonare al North Sea Jazz Festival e in Danimarca, nel 1982 ancora in Olanda e, nel 1991, in occasione del piccolo tour europeo di un «Tenor Conclave» con Teddy Edwards e Von Freeman). E sì che era un musicista preparatissimo, molto più di tanti jazzisti a tempo pieno, in possesso di una tecnica impeccabile e di una concezione armonica ben radicata nel bop e nell’hard bop storici ma pronta ad accogliere e rielaborare anche i suggerimenti del modale a lui più contemporaneo; non un revivalista della domenica, quindi, ma un uomo sempre aggiornato e al passo coi tempi. Cerchiamo allora di capirne di più.
Roger Wendell Hill nasce il 13 febbraio 1927 da un padre che lavora come rilegatore in una tipografia governativa. È il fratello maggiore a regalargli il primo sassofono, un soprano da sei dollari che il ragazzino tredicenne – già soprannominato «Buck» per assonanza col popolarissimo personaggio dei fumetti, Buck Rogers – studierà per qualche anno passando poi al contralto e infine, nella tarda adolescenza, al tenore sotto l’esempio del già citato compagno di scuola Charlie Rouse, più grande di qualche anno e già una stella della big band del liceo, lo stesso frequentato da Jimmy Cobb – col quale il quindicenne Hill avrà le prime esperienze musicali in pubblico – e, a suo tempo, da Ellington. Rouse, del resto, prometteva così bene da poter entrare nel 1944, a soli vent’anni, nella big band di Billy Eckstine, una delle culle del nascente bop, e subito dopo in quella di Dizzy Gillespie. Fatto sta che, a quanto raccontano le cronache e i testimoni oculari, nello stesso 1944 Buck, diciassette anni, è già in grado di tener testa a gran parte dei professionisti cittadini, segno evidente di un notevole talento ma anche di un’indefessa applicazione allo studio, tratto che non lo abbandonerà mai. I diciott’anni lo vedono sotto le armi: per sua fortuna, la guerra è appena finita e Hill può passare il periodo del servizio militare suonando il clarinetto nella 173rd Army Ground Force Band, in Alabama. Tornato a Washington, nel 1948 si sposa e, ben presto, iniziano ad arrivare i figli (due, più uno adottivo). Per natura, Hill è evidentemente un family man, anche a soli ventun anni; l’idea di intraprendere la professione del musicista lo lascia titubante e lo spinge a cercare impiego in un ente pubblico, che troverà nel 1950 dopo aver fatto il suo esordio, come spesso è capitato nella storia del jazz, non sul palcoscenico di un club come sideman ma al volante di un taxi. Entrare allo U.S. Postal Service, anche se all’inizio solo a mezza giornata, gli garantisce una moderata sicurezza economica di fondo che può facilmente arrotondare, date le sue capacità di strumentista, tenendo banco negli allora numerosi club della capitale. Ed è così che riuscirà a cavarsela per decenni. La fama di Hill si diffonde ben presto in città e, per quel poco possibile, anche fuori: la voce inizia a spargersi nel piccolo ambiente del jazz, grossi calibri in perenne tour come i già citati Stitt e Ammons lo vanno a cercare after hours, incuriositi da quella gloria locale che può giocarsela con chiunque, ma lui da Washington non intende spostarsi neanche morto e, purtroppo, la città non ospita etichette discografiche di rilevanza nazionale in grado di imporlo sul mercato.
Nel 1955, comunque, Hill ci prova: si licenzia inaspettatamente dalle Poste per tentare di vivere soltanto di musica, ma capisce quasi subito che il solo lavoro nei club non può consentirgli di mantenere la famiglia. Torna quindi a guidare part-time il suo taxi ed è in questa faticosa alternanza di impieghi che trascorre tutti gli anni Cinquanta, riuscendo a fare il suo esordio discografico soltanto a trentun anni, nel 1958, in quattro brani di un disco a nome dell’allora semisconosciuto chitarrista Charlie Byrd – nel cui gruppo suonava regolarmente fin dal 1956 presso la Showboat Lounge – per la piccolissima etichetta locale Offbeat («Jazz at the Showboat», il cui titolo sembra suggerire un live ma che in realtà è registrato in studio). Come facilmente prevedibile, il disco passa sotto silenzio o quasi (ne seguirà comunque un secondo volume), seppure venga ristampato nel 1962 con altro titolo, «Byrd’s Word», dalla Riverside di Orrin Keepnews, che pur di mettere sotto contratto il chitarrista dopo il successo planetario di «Jazz Samba» con Stan Getz – inciso anch’esso a Washington ma per la ben più potente Verve di Creed Taylor – aveva direttamente acquistato l’intero catalogo della Offbeat. Anche la sua ripubblicazione, tuttavia, non contribuisce di una virgola alla notorietà extra-cittadina del sassofonista ed è un peccato, perché i brani in cui compare Hill, sebbene zavorrati dalle furibonde legnate (chissà perché) del pur bravo batterista Bertell Knox, presentano un solista di classe superiore, di chiara discendenza da Gene Ammons via Lester Young ma assolutamente non rétro, anzi del tutto contemporaneo. Non c’è da stupirsi che Miles Davis avesse drizzato le orecchie: per il trombettista – che la frequentava da lungo tempo – Washington iniziava a diventare un posto interessante. Oltre a Hill, difatti, aveva ascoltato e apprezzato un’ancor più giovane musicista di nome Shirley Horn, originalissima cantante nonché pianista e armonizzatrice di alto livello, e grazie ai due washingtoniani (che si conoscevano pressoché da sempre) era entrato in contatto anche con l’ottimo contrabbassista Marshall Hawkins (1939), che convocherà più volte in anni successivi per sopperire alle sempre più frequenti indisponibilità di Ron Carter, richiestissimo come musicista di studio.
Quindi, al momento non succede un bel nulla: gli anni Cinquanta di Hill sfumano nell’anonimato e i Sessanta iniziano pure peggio. Il tentativo di mantenersi con la musica si rivela un fiasco, e il disilluso sassofonista – braccato dalle prime avvisaglie della depressione, che già gli sta facendo passare la voglia di esercitarsi – si risolve a tornare al lavoro di portalettere, ma questa volta a tempo pieno. Così della sua attività musicale, fatti salvi i concittadini che riescono a beccarlo nelle sempre meno frequenti esibizioni in qualche club, si perdono le tracce fino al 1973, quando Hill riappare su disco come membro del sestetto dell’interessante trombettista Allen Houser (1941-2014), altro jazzista a mezzo servizio – lavorava come cassiere di banca – che aveva aggirato, per così dire, il problema fondando un’etichetta chiamata Straight Ahead e producendosi da solo. L’album in questione (il raro «No Samba», poi ristampato su cd in Giappone qualche anno fa) vede Hill agire in un ambito assai moderno, che tiene ben presenti le esperienze modali di Coltrane e Tyner gettando anche uno sguardo su ciò che nello stesso periodo facevamo personaggi come Charles Tolliver, e il sassofonista si disimpegna come se non avesse mai fatto altro in vita sua. Anche di questo album, di inesistente distribuzione, non si accorge nessuno beyond city limits; eppure la collaborazione di Hill con Houser continuerà a lungo, quasi sempre sui palchi dei club ma anche su qualche altro lavoro autoprodotto dal trombettista come l’eccellente «Washington Jazz Ensemble» del 1978.

Ed è proprio il 1978 a rivelarsi l’anno decisivo, il primo spartiacque nella carriera di Hill. Entra in gioco Billy Hart, che abbiamo già citato in apertura e al quale, per una circostanza fortuita – la nonna di Hart abitava nello stesso condominio del sassofonista e lo incrociava ogni giorno per le scale – era stato proprio Hill, negli anni Cinquanta, a far scoprire il jazz («Fu lui, la prima volta che ci vedemmo, a regalarmi due 78 giri di Charlie Parker, che io non conoscevo affatto» racconta ancora oggi il batterista). Hart faceva parte da qualche anno del quartetto di Stan Getz, e il gruppo (con Joanne Brackeen al pianoforte) si era esibito nel 1977 al Montmartre di Copenaghen, con Niels Pedersen in sostituzione di Clint Houston, in occasione del cinquantesimo compleanno del sassofonista. Conversando con Nils Winther, il produttore dell’etichetta SteepleChase che di lì a poco pubblicherà un doppio album tratto da quelle serate, Hart si lascia scappare non tanto casualmente il nome di Hill e suggerisce al produttore danese di organizzargli una seduta d’incisione. L’ascolto di qualche nastro è sufficiente a convincere Winther, che del sassofonista non aveva mai sentito parlare, e il 20 marzo 1978, a cinquantun anni da poco compiuti, Buck Hill prende il pullman e sbarca a New York, dove lo aspetta una sezione ritmica da favola: oltre a Hart ci sono Kenny Barron al pianoforte e il contrabbassista Buster Williams, quest’ultimo già conosciuto nel 1960 quando era venuto a Washington come membro del gruppo di Sonny Stitt.
Tutto fila liscio e rapido: in una giornata di studio il disco è pronto. Uno standard (Yesterdays), un brano di repertorio (Oleo), un già allora popolare blues di Williams (Tokudo) e tre originals (I’m Aquarius, S.M.Y e Two-Chord Molly) che il leader, meticoloso com’è, ha preparato a puntino: composizioni per niente banali, che la ritmica all-stars affronta con inaspettato entusiasmo, quasi sorpresa dalla totale mancanza di routine di quella che avrebbe tranquillamente potuto rivelarsi una seduta d’incisione come mille altre. L’album, «This Is Buck Hill», riceve cinque stelle su DownBeat e ha un certo successo (anche chi scrive lo acquistò proprio allora, fino a quel momento ignaro dell’esistenza del sassofonista ma incuriosito dalla presenza di quella ritmica di lusso). Così bene che di lì a poco, nel luglio 1979, Hill può concedere il bis, sempre con la stessa ritmica, sempre per la SteepleChase e sempre a New York, e «Scope», il prodotto di questa seduta – anch’essa sbrigata in un solo giorno di incisione – è ancora più riuscito del precedente. Anzi, col senno di poi possiamo tranquillamente definirlo il suo capolavoro. Stavolta i sei brani sono tutti di Hill (un settimo, Snaps di Buster Williams, apparirà solo molti anni dopo sulla ristampa in cd): non una blowing session con qualche standard e originals poco originali bensì composizioni sottili e ben articolate, perfette anche per mettere in luce le qualità di una sezione ritmica la cui intesa è semplicemente telepatica.

Nell’estate 1981 Hill viene ingaggiato per esibirsi nell’immane kermesse del North Sea Jazz Festival e si porta dietro la sua vecchia conoscenza cittadina Reuben Brown (1939-2018), compagno di scuola di Billy Hart ma soprattutto pianista di vero talento, la cui carriera sarà però stroncata nel 1995 da un micidiale ictus destinato a renderlo invalido per oltre vent’anni, fino alla morte.
Come gran parte dei washingtoniani, anche Brown non era un musicista a tempo pieno (faceva il ricercatore biomedico ai National Institutes of Health) e, anche per questo, smuoverlo dalla capitale era pressoché impossibile. Ma, racconta Hart, era il pianista di riferimento per tutti i grandi nomi di passaggio in città, da Milt Jackson a Stanley Turrentine. E i due album («Easy to Love» e «Impressions», sempre SteepleChase, in quartetto con Hart alla batteria e Wilbur Little al contrabbasso) che propongono estratti dai tre giorni di esibizioni olandesi di Hill – ma una gran quantità di materiale è, chissà perché, rimasta inedita – ne danno ampia prova, oltre a confermare il sassofonista come uno dei nomi da tenere accuratamente d’occhio in quei primi anni Ottanta. Per inciso, e lo diciamo perché chissà quando ricapiterà l’occasione di parlarne, Reuben Brown è pochissimo rappresentato su disco: a suo nome esistono solo uno scintillante lp Adelphi del 1976, «Starburst» – per lo più in trio ma con Richie Cole ospite in due brani – e due cd anch’essi per la SteepleChase, entrambi del 1994 ma usciti solo nel 1998, ovvero «Blue & Brown» in piano solo e «Ice Scape» in trio con Hart e Rufus Reid. Meritano, tutti, il recupero e l’ascolto.

Nel luglio del 1982 Hill torna in Europa per suonare al festival di Loodsrecht e, poche ore dopo essere sceso dall’aereo, è già in studio per incidere tre brani destinati a un disco della cantante Soesja Citroen («Key Largo») per l’etichetta Turning Point, alla quale affiderà anche il nastro di un live registrato a Washington un paio di mesi prima («Buck Hill Plays Europe») con l’accompagnamento di un trio in cui figura il pianista ed ex altosassofonista Marc Copland, che all’epoca si faceva ancora chiamare Marc Cohen e viveva tra Washington e Filadelfia. Un 33 giri abbastanza raro, ristampato in cd soltanto in Giappone (e dove, se no?) ma oggi fuori catalogo pure lì. E, da questo momento, di Hill si perdono le tracce per ben sei anni.
Cos’era successo? Ben poco, o quantomeno niente di ciò che Hill, nella sua beata ingenuità, a quel punto si sarebbe aspettato. «Credevo che qualche casa discografica importante mi sarebbe venuta a cercare, mi avrebbe fatto una proposta», racconterà parecchio tempo dopo in una delle sue rare interviste (era ostinatamente refrattario a parlare di sé). «Già mi era andata male con la Blue Note, che nei primi anni Sessanta aveva mandato qualcuno ad ascoltarmi in un club di Washington; ma quella sera fui tradito dall’emozione, finii per suonare davvero male e non se ne fece di nulla».
La delusione, quindi, è forte e ben presto lascia il posto a malinconia e disincanto: il sassofonista si adatta a rientrare nella sua routine quotidiana, fatta di levatacce prima dell’alba per andare a esercitarsi all’ufficio postale, di mattinate passate a consegnare corrispondenza e di nottate sui palchi degli ormai pochi locali cittadini. L’unico riconoscimento ufficiale di quegli anni oscuri è un «Buck Hill Day» proclamato nel 1982 dall’allora sindaco di Washington, il famigerato e controverso Marion Barry, ma l’obiettivo del sassofonista è oramai soltanto quello di arrivare alla pensione.

Finalmente, nel 1988 arriva una nuova svolta grazie alla concittadina Shirley Horn che, in occasione del suo secondo disco per la Verve, «Close Enough for Love», aggiunge Hill alla fedele e sperimentata ritmica Charles Ables-Steve Williams. Shirley lascia al vecchio amico uno spazio considerevole, ospitandolo in cinque brani su dodici, e forse non è un caso che il disco si apra con una vecchia canzone come A Beautiful Friendship, il cui titolo suona quanto mai significativo. La macchina promozionale della Verve è ovviamente ben oliata, l’album ha un bel riscontro e il nome di Hill torna a ronzare nella testa di molti addetti ai lavori, tra cui il collega Houston Person, altro veterano del sax tenore ma a tempo (non tanto) perso anche produttore per l’etichetta Muse.
Così nell’agosto 1989 Hill si reca negli studi Van Gelder, dove Person gli ha messo a disposizione una nuova ritmica di qualità – Barry Harris, Ray Drummond, Freddie Waits – e con la quale incide sette brani pubblicati l’anno dopo sull’lp «Capital Hill» (un ottavo, Vierd Blues di Miles Davis, viene aggiunto alla versione cd). Il disco – tutto di standard e con un solo original – è eccellente, anche se chi scrive non è mai stato convinto che Harris fosse il pianista ideale per Hill, ma è probabile che le intenzioni di Person mirassero a installare saldamente il sassofonista in un ambito ben più mainstream e meno modale (pratica, com’è noto, assai poco gradita a Harris). La strategia sembra comunque funzionare: l’album riceve le attenzioni delle riviste specializzate e vende bene, tanto che nell’aprile 1990 Person riporta Hill da Van Gelder: Harris e Drummond sono di nuovo della partita, il batterista è un giovane Kenny Washington e a completare il gruppo si aggiunge alla tromba l’ottimo davisiano Johnny Coles. Il disco, intitolato «The Buck Stops Here», ovvero la famosa frase della targa che il presidente Truman teneva sulla scrivania per indicare che l’ultima parola era pur sempre la sua, uscirà però soltanto tre anni dopo (non proprio a stretto giro di posta…), ma stavolta, tra gli standard, Hill riesce a inserire tre suoi brani. Intanto la Muse – che nel 1991 lo convoca come ospite su «Great Scott!» dell’organista Shirley Scott – pubblica «I’m Beginning to See the Light» (1991) e nel 1995 metterà in commercio «Impulse» (inciso nel 1992), per i quali Hill si avvale del suo quartetto stabile di Washington, con i bravi Jon Ozment al piano, Carroll Dashiell al contrabbasso e Warren Shadd alla batteria. «Impulse» vede Hill ripescare anche il suo amato clarinetto, strumento cui da lì in avanti si dedicherà con sempre maggiore frequenza.
Shirley Horn richiama poi Hill in altre tre occasioni discografiche: il celebrato «You Won’t Forget Me» (1991), «The Main Ingredient» (1995) e «I Remember Miles» (1998). Nel frattempo il sassofonista aveva raggiunto l’agognata pensione che però, come ultima beffa del destino, reca con sé l’inizio di seri problemi di salute che renderanno a Hill sempre più gravoso esibirsi nei suoi club preferiti. Anche l’attività discografica ne risente: tra il 1996 e il 2006 appariranno soltanto tre album per etichette locali, due dei quali dal vivo.
Roger «Buck» Hill muore nel sonno il 20 marzo 2017, giusto un mese dopo il suo novantesimo compleanno.