Brda Contemporary Music Festival

Un avamposto di libertà e creatività

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Medana, Slovenia

12-14 settembre

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La XIV edizione del Brda Contemporary Music Festival, sotto la direzione del vulcanico Zlatko Kaučič, ha confermato la propria vocazione al confronto tra culture diverse e musicisti di varia estrazione, ma sempre e comunque sotto il comun denominatore dell’improvvisazione non idiomatica. Nelle tre giornate del festival l’ex cinema-teatro del paesino di Medana, situato sul Collio sloveno, ha ospitato dunque numerosi esempi di approccio all’improvvisazione applicato con criteri disparati. La rassegna è stata inaugurata con la mostra Brötzmann in my focus, curata dal valoroso fotografo sloveno Žiga Koritnik. Scomparso l’anno scorso, il sassofonista tedesco Peter Brötzmann – storico alfiere dell’improvvisazione radicale europea – aveva avuto frequenti contatti con la scena slovena e in particolare con lo stesso Kaučič, che all’amico ha dedicato un intenso e concentratissimo assolo di batteria in sostituzione dell’annunciata chitarrista Heather Leigh, bloccata da problemi di salute. Con Brötzmann la specialista americana di pedal steel aveva stretto un’efficace collaborazione. A Brötzmann, a Mauro Bardusco (storico direttore artistico di Jazz & Wine of Peace morto lo scorso giugno) e a Boštjan Cvek, fondatore di Jazz Cerkno scomparso nel 2015, Kaučič ha voluto idealmente dedicare questa edizione sottolineando la loro capacità di innovazione.

Quanto agli eventi della prima serata, il duo Czajka & Puchacz, composto dalla pianista slovena Kaja Draksler e dal batterista polacco Szymon Gąsiorek, fa un uso piuttosto singolare (ma anche abbastanza discutibile) dell’elettronica, costruendo lunghe sequenze ripetitive punteggiate da frammenti di piano preparato, blocchi di accordi, un uso destrutturato e decisamente eterodosso della batteria, surreali inserti vocali deformati dall’elettronica. Un tentativo deliberato di snaturare i rispettivi strumenti? Si avvertono tracce di minimalismo alla Terry Riley e una certa qual impronta dadaista, che però non caratterizzano un’identità ben precisa. Specialmente Draksler avrebbe le carte in regola per offrire ben altro.

Contenuti ben diversi sono stati offerti dal trio composto dallo sloveno Boštjan Simon (sax tenore ed elettronica), dallo spagnolo Alfonso Muñoz (sax alto) e dal nostro Luigi Vitale al vibrafono. Qui l’impiego misurato dell’elettronica arricchisce una gamma timbrica e dinamica fatta di efficaci impasti e stimolanti contrasti. Muñoz svolge un ruolo di eversore, creando bande sonore stridenti e bordoni gorgoglianti con la respirazione circolare, anche tappando la campana dello strumento con dei barattoli. Molto più variegato il contributo di Simon, che usa la tecnica dello slap tongue (lo schiocco della lingua sull’ancia) o la pressione sulle chiavi per elaborare tracce ritmiche, ma inserisce anche brevi frasi melodiche nella trama. Vitale predispone ampi tappeti per gli intrecci tra le due ance, utilizzando anche la kalimba e producendo timbriche di xylofono e marimba.

Simon, Munoz e Vitale

Il duo formato dall’altosassofonista franco-libanese Christine Abdelnour e dal chitarrista inglese Andy Moor non fa sconti. Abdelnour impiega lo strumento come fonte di timbri estremi, spezzoni acuminati e singulti strazianti, ma anche come veicolo per la costruzione – attraverso la respirazione circolare – di bordoni veri e propri. Moor maltratta la chitarra elettrica, percuotendone il corpo e le corde, sfregate energicamente anche con una spazzola e allentate per variare l’accordatura. Nessun compromesso, solo scariche elettriche e spezzoni taglienti come lame affilate.

La seconda serata si è aperta con il singolare set del percussionista francese Toma Gouband, alle prese con un set formato da grancassa, due piatti e sounding stones, pietre di risonanza, con le quali conduce uno strano gioco (né casuale, né aleatorio) di stratificazioni e variazioni timbriche a seconda delle dimensioni. Il grosso limite dell’operazione risiede in una ripetitività monolitica (è proprio il caso di dirlo!) dovuta alla limitatezza delle risorse. Né giova a risollevare le sorti della performance l’impiego di campanellini e sonagli, o l’aggiunta di frasche (!) utilizzate a mo’ di bacchette per costruire un crescendo ritmico che non porta da nessuna parte.

Pierre Borel e Antonio Borghini

Reduci da comuni esperienze in quel di Berlino, il contrabbassista Antonio Borghini e l’altosassofonista francese Pierre Borel hanno realizzato un set di puro godimento auditivo, in cui l’interazione prendeva gradualmente forma da brevi scambi di cellule in forma di botta e risposta. Un viatico per sviluppare cambi frequenti di contenuto e atmosfera anche grazie all’applicazione di un’ampia gamma dinamica e timbrica. Borghini alterna linee disegnate con un pizzicato ora agile e corposo, ora strappato, a densi passaggi tracciati con l’arco. Borel spazia da frammenti aguzzi, slap tongue ed incursioni sui sovracuti a fraseggi articolati contenenti brandelli di melodia. I due amano anche giocare e rapportarsi con lo spazio, spostandosi a più riprese sul palco, muovendosi all’interno della sala e perfino raggiungendo la balconata della galleria. Il loro excursus incrocia addirittura echi della tradizione jazzistica, tra cui una I’m Getting Sentimental Over You accennata, camuffata e nascosta con spirito realmente creativo e (auto)ironico.

Responsabile di un apprezzatissimo workshop mattutino, la vocalist e violinista ceca Iva Bittová ha incantato la platea con il suo carismatico ruolo di narratrice di storie mediante una vocalità multiforme, caratterizzata da un perfetto controllo delle risorse tecniche, delle dinamiche, delle altezze e dei timbri. Dalla sua voce, spesso abbinata al violino, emerge quel retaggio popolare – sia mitteleuropeo che balcanico – assimilato e interiorizzato fin dagli inizi anche grazie al ruolo del padre Koloman Bitto. In un crescendo di intensità, certi toni dolenti assumono sfumature drammatiche ed evocano lamenti atavici riflessi nella progressiva metamorfosi della voce, che si altera, si inasprisce fino a convertirsi in un grido di dolore. Tramite Iva Bittová la storia parla e racconta.

Iva Bittova

La terza e conclusiva giornata ha avuto un preludio pomeridiano con un duplice connubio tra poesia e musica, a testimonianza dei frequenti contatti tra Friuli e Slovenia. Da una parte, i versi dell’udinese Cristina Micelli hanno trovato un validissimo alter ego nel pianista Giorgio Pacorig, prodigo di invenzioni estemporanee di matrice jazzistica ma anche di sconfinamenti in ambito contemporaneo. Dall’altra, la declamazione stentorea dello sloveno Iztok Osojnik si è contrapposta al delicato pianismo classicheggiante di Ingrid Mačus.

Gli eventi serali sono stati introdotti dal duo tra il norvegese Frode Gjerstad (sax alto e clarinetto) e Zlatko Kaučič, autori di un flusso continuo di idee, spunti e rimandi reciproci. Gjerstad ama spingersi spesso sui sovracuti al culmine di elaborazioni molto spigolose ma articolate, con esiti particolarmente felici al clarinetto in Si bemolle. In ogni frangente Kaučič predispone un ampio alveo ritmico, sempre cangiante e frastagliato, al tempo stesso ricco di stimoli per il partner. I due danno luogo anche a un intermezzo più strettamente jazzistico, con un clarinetto sinuoso, dal soffiato sontuoso, che scivola sul registro grave e le spazzole che scandiscono un ritmo regolare. Come dire che avanguardia e tradizione non sono due entità scisse. Più tardi Gjerstad ha chiuso la manifestazione conducendo l’orchestra composta dai partecipanti al suo workshop di due giorni, in un caleidoscopio di situazioni concepite per voci e gruppi strumentali distinti.

Frode Gjerstad e Zlatko Kaucic

Prima della festosa conclusione, il festival ha proposto un altro duo, animato da Szilárd Mezei (serbo di etnia ungherese) alla viola e dallo sloveno Jošt Drašler al contrabbasso. Un dialogo serrato di corde ed archi condotto con notevole rigore espressivo, impeccabile controllo di un ampio spettro di dinamiche, livello tecnico e grado di empatia elevatissimi. Con arcate incalzanti Mezei riesce a passare con gradualità e facilità sorprendenti da pianissimo e piano a dei crescendo vertiginosi mantenendo un’incredibile pulizia sonora. Per parte sua, Drašler produce capienti bordoni con l’arco e strutture ben congegnate con un pizzicato fluido.

Il duo Mezei-Deasler

Ancora una volta Brda Contemporary Music Festival ha significato libertà in musica, creatività, confronto, accettazione consapevole del rischio e dell’alea pura. Caratteristiche sempre più rare sulla scena musicale attuale. Appuntamento al 2025 per una quindicesima edizione auspicabilmente ancor più ricca e stimolante.

Enzo Boddi

Tutte le foto per gentile concessione di Žiga Koritnik

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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