«Ogni narrazione non si esaurisce in sé stessa, ma assume sempre altri significati, è sempre una metafora, un’immagine di altro, talora sopravvenuta a lavori in corso». Con questa limpida espressione Erich Auerbach, filologo e critico di prima fila dello scorso secolo, raccontava la mimesi nelle arti. Tema vecchio quasi come il mondo e, come tutti gli irrisolti, a maggior ragione affascinante perché sottoposto alle nuove sfide della attualità. Come quella che lancia Branford Marsalis col suo quartetto e che coglie l’opportunità di entrare in casa Blue Note a trazione Don Was rileggendo integralmente un album epico come «Belonging» di un altro quartetto leggendario: quello di Keith Jarrett, Jan Garbarek, Palle Danielsson, Jon Christensen del 1974 per ECM di Manfred Eicher. Il fatto che in copertina del lavoro di Marsalis non vi sia cenno al nome di Jarrett è parte, dunque, di un’idea nuova di affrontare repertori jazzistici noti e che si colloca in una sorta di ibrido tra interpretazione classica, nel senso proprio, e creazione improvvisativa; da un lato ossequioso di un linguaggio oramai storicizzato, dall’altro espressione di un sentire contemporaneo che esaurisce nel riferimento del titolo il proprio referente semantico. D’altronde, sempre con Auerbach, «La fantasia figurale è quella che ordina le immagini secondo un disegno che le trascende»; ecco perché il «Belonging» di Marsalis trascende la creazione di Jarrett e intende raccontare il presente con un quartetto – oramai rodatissimo – pronto a superare un altro vecchio busillis della critica: quello che si interroga sulla distinzione tra imitazione e mimesi, che i lettori più incuriositi potranno divertirsi a sbrogliare attraverso una storia tanto antica quanto avvincente.
Branford Marsalis è un artista piuttosto complesso, con una quota di severità che si può riverbera in una certa asperità d’indole (ma pronta ad addolcirsi qualora ci si sintonizzi su frequenze condivise), lontanissimo dall’immagine stereotipa del giovane leone cresciuto on the sunny side of the street di New Orleans in un ambiente familiare, che non avrebbe potuto dare altro futuro professionale che non fosse la musica. Se da un lato, come in «Belonging», continua ad esplorare le possibilità di una interplay solidissima con i suoi Joey Calderazzo, Eric Revis e Justin Faulkner, dall’altro non rinuncia a lanciarsi in progetti apparentemente distanti come la composizione classica per la Kalamazoo Symphony Orchestra, un ensemble con musicisti ungheresi per l’esecuzione della suite Ősz fele van az idő (Autumn Is Coming), le musiche per film e documentari (Tulsa Burning o Ma Rainey’s Black Bottom). Nel frattempo, se le collaborazioni con Sting o i Grateful Dead non controbilanciassero abbastanza la poliedricità dell’uomo, lo si trova spesso come ambitissima guest star nell’interpretazione dei repertori classici contemporanei: da Copeland a Debussy, da Mahler a Villa-Lobos. Amato e temuto, in pari misura, dai suoi studenti della North Carolina Central University dove ha insegnato per diciott’anni, non sembra esattamente sulla scia della dolcezza affabulatrice di Barry Harris o Jaki Byard; granitico, piuttosto, nel tirare fuori veri talenti nella cruna della sua selezione affilata.
Anche i pochi spunti biografici di un artista tanto vario e curioso come Marsalis obbligano l’ascoltatore a comprendere le ragioni di rileggere integralmente un capolavoro come quello di Jarrett, operazione non nuova a Branford che portò in tour l’integrale di «A Love Supreme» di Coltrane (nonostante lui preferisca Sonny Rollins); il punto è che, se uno standard è una rilettura parziale e tutto sommato auto-conclusa di un momento musicale, nella storia del jazz non si fatica a riconoscere momenti di svolta organica, faconda e che solo nell’integrale riproposizione con la grammatica della sensibilità (musicale e umana) contemporanea ri-vivono il loro stesso destino, quello di perpetrarsi nel tempo.
Bentrovato, Branford, per parlare anche di «Belonging», che va in un solco ancora poco esplorato del jazz perché rilegge tutto un album e quindi richiede sia le capacità dell’interprete classico sia dell’improvvisatore jazz.
Sì, anche se poi il jazz non è affatto qualcosa che si limita all’improvvisazione, anzi! È una musica che gira allo stesso tempo sulla capacità interpretativa; il jazz ha un suo linguaggio e l’armonia non ne fa necessariamente parte, è molto più come riesci a veicolare il suono: l’intensità, il timbro, il fraseggio, il ritmo… Solo il risultato finale nella sua interezza costruisce l’idioma. Allo stesso tempo, credo che la conoscenza della musica classica sia molto importante per entrare nel mondo di Keith Jarrett.
Con lui condividete anche un parallelo percorso piuttosto intenso dentro le sonorità classiche. Cosa ti piace di più di Jarrett come musicista?
Facile, la straordinaria capacità di scrivere bei temi. Vedi, parlavo di questo album con Don Was dopo averlo registrato, e lui si diceva contento perché aveva proprio il suono riconoscibile di un classico disco Blue Note, visto che ai vecchi tempi in quegli album trovavi quel tipo di approccio funky o bluesy. Nell’album puoi ascoltarlo bene in un brano come ‘Long as You Know You’re Living Yours, perché abbiamo deciso insieme di girarlo in modo più funk e suonarlo in un modo molto, molto diverso da come uno scandinavo non avrebbe fatto. Allo stesso tempo, la bellezza è nella sua melodia originaria, che è quello che le persone vogliono riportarsi a casa da un ascolto. Non è come quando ascolti alcune cose e non riesci a cantarne neanche un frammento, qui tutti i brani sono molto cantabili e questa credo sia la forza maggiore della sua musica.
L’ultima volta che ci siamo incontrati a Perugia, mi dicevi, a proposito di Ma Rainey e della musica degli anni Trenta, quanto importante sia rispettare il linguaggio di riferimento della musica che si suona. «Belonging» compie adesso cinquant’anni, un’età ragguardevole. Ma qual è il modo giusto di suonare quell’album?
Vedi, la cosa stupefacente della grande musica è che ha una qualità inesauribile, sottratta al tempo. È come se ascolti un disco dei Beatles degli anni Sessanta: non diresti mai che è musica di sessant’anni fa, potrebbe tranquillamente essere stata fatta in questi giorni. E «Belonging» è uno di quei dischi che sembrano usciti adesso. Per far riferimento alla nostra vecchia conversazione a Umbria Jazz, è molto diverso da quello che facevano i musicisti negli anni Trenta, perché la destinazione principale era il ballo e quindi il linguaggio era completamente differente. Nel caso di questo album ho ascoltato molti dischi di quegli anni. In effetti, a pensarci, è una faccenda interessante: trovo che la musica di Keith abbia una forte influenza proveniente da Ornette Coleman, e aver trascorso tanto tempo ad ascoltare Ornette mi ha consentito di introiettare quella certa sensibilità. Penso in particolare a un brano dell’album, Solstice, che sembrerebbe essere stato scritto nel momento in cui Jarrett suonava negli Stati Uniti con Dewey Redman, Charlie Haden e Paul Motian. Così abbiamo affrontato stilisticamente il brano in quel modo. Abbiamo utilizzato tutti gli strumenti disponibili del tempo, senza neanche rifletterci, roba swing mescolata a roba funk; quello che è stupefacente è l’attualità dell’armonia, la cui modernità ti costringe a non suonare certo old school, nonostante che quel tipo di suoni – una volta praticati – siano qualcosa che resta per sempre. Detto questo, figurati, non è che si possa suonare la musica di «Belonging» utilizzando lo stile di Lester Young: non funziona e non potrebbe mai funzionare. Ma è un lavoro che ho condiviso con gli altri musicisti: ci è stato da subito chiaro quale fosse l’approccio adatto per ognuno di quei brani, senza necessariamente incatenarci ad un riferimento specifico.
È curiosa una certa circolarità: il tuo ultimo album col quartetto, «The Secret Between the Shadow and the Soul» (2019), si conclude con Windup che viene proprio da «Belonging» di Jarrett. L’attacco del brano è davvero da New Orleans Parade, con il groove di piano e batteria.
È vero. Non so, mi piace moltissimo quel pezzo, perché per me là dentro, come ti dicevo, c’è tanto Ornette Coleman ,e lo stile che hai notato è il risultato finale di quello che ogni membro della band ha voluto metterci dentro con la sua interpretazione. E così Justin voleva incorporare alcune sonorità di New Orleans, perché pur essendo nato a Filadelfia ha passato due mesi lì a studiare quello stile con quei musicisti e poi, insieme con Eric, hanno deciso di andare ancora oltre e mettere ancora altre «spezie».
La formazione in quartetto è un oggetto che ti porti dietro da quasi quarant’anni, una specie di organismo che si evolve: cosa ti piace di questo tipo di line-up?
È un organismo, in primo luogo, perché in parte i musicisti sono cambiati e quindi si è rigenerato. Robert Hurst, per esempio, sta insegnando all’Università del Michigan e suona con un sacco di gente diversa; Jeff «Tain» Watts sta suonando molto con la sua band ed è concentrato sui suoi progetti. Eric Revis, il nostro bassista, si è unito alla band nel 1996, Joey Calderazzo direi nel 1999 e Justin Faulkner nel 2009. Cambiare musicisti fa ovviamente cambiare il suono, ma è soprattutto suonare per tanto tempo insieme che consente di sviluppare una propria identità, mutare l’approccio nel verso di un linguaggio comune e più intuitivo. Cambiando individualmente come musicisti, come è inevitabile, cambia anche il suono della band; non è che si possa utilizzare una equazione matematica per descriverlo, ma è qualcosa che ha più a che fare con la capacità di ascoltare sé stessi e gli altri. Se sei in un quartetto, la capacità d’ascoltare ciò che ciascun altro sta facendo simultaneamente è fondamentale; il tuo solo non può prescindere da quello che capita intorno, non comandano gli accordi come ti dicevo, comanda il fenomeno estemporaneo musicale. Bisogna saper cogliere ciò che si può sviluppare in quel momento comune, per dirlo con una formula: più tempo passi insieme, meglio funziona.
Mi chiedevo, un po’ giocosamente, come ha reagito Joey Calderazzo quando ha scoperto che avrebbe dovuto prendere i «panni» di Keith Jarrett per un album intero.
Mi sa che all’inizio è andato in panico. Ma credo solo all’inizio: vedi, lui è molto più fanatico del jazz di quanto io non lo sia. Da ragazzino lui ascoltava jazz, io r&b. Ora, non essendo strettamente un pianista, posso solo immaginare che se cerchi di suonare come Keith Jarrett il suo materiale possa davvero spaventarti e bloccarti. Alla fine, abbiamo deciso di passarci attraverso, per così dire; ci siamo seduti, ne abbiamo parlato e abbiamo tirato fuori alcuni aspetti. È stato divertente, era tutta un’obiezione: «Ma qui Keith suona così o cosà» e io ogni volta: «Ho bisogno che tu suoni la nostra musica come sai fare», «Sì, ma Keith…», «Smettila! Andiamo a suonare» e così abbiamo fatto. Al di là di tutto, secondo me tutti i ragazzi sono davvero quelli giusti per questo progetto; non abbiamo perso molto tempo ad ascoltarci dopo la registrazione, a capire se avessimo lavorato bene come singoli. Ci siamo insieme sintonizzati sul suono di gruppo e su ciò che poteva migliorare da quel punto di vista.
L’aspetto che trovo particolarmente bello di questo «Belonging» è quello che in musica si chiama il «rhythmic placement», la capacità di suonare le note spostate di un incalcolabile minimo spazio prima o dopo il beat, che costruisce la magia del jazz.
È vero, hai colto un aspetto importante, è qualcosa che aiuta a costruire meglio il groove ed è semplicemente il modo in cui siamo abituati a suonare il jazz. Non è che sia uno studio specifico quello del placement, ma a forza di ascoltare quei dischi, ti viene inevitabile imitare quello che stanno facendo. Non accade mai che ne parliamo prima, tanto per esser chiari, Eric e Justin sanno benissimo dov’è il beat e Joey, nel frattempo, conosce come me la sonorità migliore per quella sezione ritmica, è un fatto naturale. Se volessimo fare un po’ di storia, potrei dirti che Ben Webster o Lester Young suonano dietro il beat, Coltrane esattamente sopra… Con il tempo devi imparare a fare entrambe le cose e saperle adattare alla musica che stai facendo; mi diverte ogni tanto utilizzare una tecnica che tende a straniare l’ascoltatore e mettere l’accento dove non te l’aspetteresti. Più studi, più ti crei opzioni disponibili per modellare la tua capacità di entrare dentro il suono giusto.
Sono usciti, chiacchierando, i nomi di alcuni grandi maestri. Questo «Belonging» lo hai dedicato, tra gli altri, alla memoria di Benny Golson, Lou Donaldson, Roy Haynes e Russell Malone. Perché?
In primo luogo, perché erano tutti miei cari amici. Roy Haynes è stato uno dei più grandi batteristi di sempre; con Russell avevamo un rapporto davvero molto stretto; Lou Donaldson era una persona simpaticissima, solare e un gran musicista: non so dirti quanto ci siamo divertiti con lui. Aveva questo modo, che tutti nella band adoravamo, di arrivare e insultarci, ma trovava delle variazioni infinite a quegli insulti che ci facevano sbellicare, non vedevamo l’ora che arrivasse. E di Benny Golson, che dire? È stata la mia vera porta d’accesso per entrare a sviluppare le mie capacità di musicista jazz; è lui che mi ha detto che, se avessi voluto capire John Coltrane, avrei prima dovuto ascoltare Johnny Hodges. All’inizio mi sembrava una roba strana, una perdita di tempo e invece aveva ragione Benny, è cambiato completamente il mio modo di ascoltare la musica di Trane, perché la sua prima influenza era proprio Hodges, tanto che in alcuni momenti suona esattamente come lui. E così noi restiamo convinti di questo luogo comune secondo il quale Coltrane è moderno! Moderno! Ma la sua modernità viene integralmente dai suoni della tradizione, e così ho capito da quelle chiacchierate con Golson che, se vuoi davvero suonare in modo moderno, devi capire da dove provengono le informazioni dei musicisti che consideri d’avanguardia. Così come un’altra influenza evidente in Coltrane è il modo di suonare di Dexter Gordon… Diceva bene Benny, anche perché lui, Trane e Jimmy Heath erano amici, erano un gruppetto di ragazzi cresciuti insieme a Filadelfia.
Sentendoti parlare di questi giganti mi fa venire in mente che la tua formazione è stata in buona parte merito di aver potuto frequentarli e suonarci insieme. Ti piace l’idea di avere per i tuoi musicisti lo stesso ruolo proiettato nel tempo?
Ti dico la verità. Ci sono un mucchio di persone che hanno sempre suonato jazz e alle quali, secondo me, il jazz non piace per niente; amano esclusivamente i loro assolo. Del jazz gli piace soltanto l’opportunità di inseguire le loro idee e magari prendono, che so, un brano di George Gershwin, gli iniziano a cambiare gli accordi, ci costruiscono sopra nuove linee melodiche e gli sembra di aver fatto un bel lavoro: invece è uno schifo. Quando conosco giovani musicisti, sono interessato solo a quelli che dimostrano di avere la voglia di abbracciare tutta la storia di questa musica e solo allora mi viene voglia di aiutarli, ma in realtà sono davvero pochi. Arrivano da me e il loro unico obiettivo è farmi sentire quanto veloce suonano su Giant Steps o Countdown…
Personalmente, vedo che anche sui social media molti musicisti tendono a pubblicare video da camerette buie in cui esplodono in un assolo, senza contesto, senza che ci sia musica vera intorno. Lo trovo un po’ esibizionistico e forse lontano dall’idea di musica old school.
È esattamente così, e questa moda sta diventando sempre più diffusa. Non so se la colpa sia anche del modo in cui si insegna il jazz, sempre più focalizzato nell’analizzare la parte solistica e improvvisativa, quello che si perde sempre di più è il suono di gruppo. Quando hai davanti una parte da studiare, devi capire che il piano suona una certa cosa, perché il basso ne suona un’altra e il batterista fa qualcos’altro e tutto insieme costruisce la tua capacità di esprimerti liberamente. Oggi è tutto costruito come fosse una competizione per imparare a suonare assoli scollegati dal contesto.
Ti racconto un aneddoto. Stavo facendo una clinic con altri tre sassofonisti e dicevo loro che dovevano ascoltare un mucchio di dischi per sviluppare il loro suono e che tutta quella roba sull’armonia non è poi così importante come vogliono far credere nelle scuole. E loro mi dicono di non essere d’accordo. Allora dico: «Bene, prendiamo un accordo» ed era, sai, uno di quelli con la settima maggiore, la nona bemolle, la tredicesima e così via, gli domando: «Che cosa suoni su questo accordo?». Uno mi risponde che suonerebbe una certa scala o un’altra scala, un altro si arrampica sulla sostituzione di tritono, un altro si lancia in ipotesi «in-out». Ma le risposte erano tutte sbagliate: si suona in base a quello che sta facendo la sezione ritmica, quello che costruisco dipende da quello che stanno costruendo gli altri. I solisti si concentrano sul suonare questo o quell’effetto e se ne fregano di quello che stanno facendo gli altri, ma così facendo perdi la magia – per esempio – di costruire un bel tappeto dietro il solista di turno e alcune volte, addirittura, puoi suonare più forte del solista perché la circostanza è propizia e ci sta bene. Tante volte ti trovi davanti a brani con due linee melodiche, e allora come si fa a scegliere? Puoi suonare allo stesso volume, puoi lasciare che una scorra sottotraccia o viceversa, bisogna scegliere. Oggi ci si preoccupa di cose del genere, suonano e basta, mi piacerebbe che si incuriosissero di più di queste altre dimensioni. Alla fine, se un giovane musicista mi pone qualche domanda, rispondo nel modo secondo me corretto: ad alcuni piace, ad altri no, pazienza.
Mentre rispondevi, stavo pensando al fatto che negli anni Settanta a New York che era il centro del jazz, ma non solo, c’era un approccio alle arti più olistico, qualcosa che legava insieme le diverse espressioni, e ciascuna arte ascoltava le altre per trarne ispirazione.
Sono cambiate molte cose, oggi è tutto diverso. È come se tutti cercassero di vincere un MacArthur Genius! Tutti convinti di aver trovato qualcosa di strabiliante e incredibilmente nuovo. Io ho sempre amato suonare, ma non ho mai teso a quello che oggi si chiama «concept», che invece è il centro gravitazionale di interesse di tanti musicisti in giro. Sai cosa vorrebbero? Fare quello che Coltrane fece nel 1960 quando uscì fuori con Giant Steps e Countdown, ma ciò che ignorano è che dal vivo lui non stava già più suonando quella roba. Se l’unico interesse è trovare nuovi meccanismi musicali, avere buone recensioni, vincere un paio di premi non credo si vada da nessuna parte. A me interessa suonare la mia musica e tutte le volte che ho l’opportunità di farlo per bene ci sono, e se c’è qualcosa che devo imparare a far meglio la faccio. In tanti sono terrorizzati dall’idea di suonare male davanti al pubblico; a me non interessa se in un certo momento non riesco a raggiungere l’obiettivo che mi sono prefissato, perché è una maratona, una lunga corsa verso il perfezionamento. Negli anni Settanta, per dirti, le cose stavano cambiando e tutti i giovani che suonavano jazz si sono messi a fare funk, non c’era un gruppo che non avesse il suo Fender Rhodes o cambiasse l’abbigliamento. Era pure una cosa divertente, poi c’era gente come Keith Jarrett che è rimasta assolutamente integra, fedele alla musica e che non cercava in alcun modo di competere con ciò che aveva intorno.
Tempo fa hai ribadito in un’intervista che il cuore del jazz non è l’innovazione, ma il suono. Che intendevi dire?
E te lo confermo. Per spiegarlo meglio: tempo fa stavo leggendo un libro di Robert e Michele Bernstein, Sparks of genius [2001, Mariner Books, ndr]. Stavano discutendo su un’intervista che Einstein aveva rilasciato. In quell’occasione, gli era stato chiesto perché avesse bisogno accanto a sé di un matematico ed Einstein rispose che sì, lui era bravino in fisica ma non era altrettanto bravo nel calcolo, e quindi aveva assunto un matematico. Doveva tirar giù in modo affidabile tutta una serie di equazioni, perché a monte aveva la convinzione che la sua ipotesi fosse corretta ma non era certo di saper sviluppare correttamente le equazioni. Nel libro gli autori concludono che Einstein non ha tirato fuori le sue teorie dal nulla, non ha inventato nuovi dati: ha collegato cose che esistevano già. E questa credo sia la metafora migliore per spiegare cos’è la musica. Non dobbiamo inventare nulla, la vecchia musica è piena di informazioni, dati, modi diversi di ascolto e se trovi una risposta a quella complessità allora puoi arrivare ad una innovazione. Ma l’ossessione di voler «brevettare» qualcosa è davvero incredibile, perché alla fine non è quello a farti un buon musicista. Beethoven era un allievo di Haydn, non è che si sia svegliato la mattina e abbia fatto tutto da solo. Quello che ha deciso di fare è di ascoltare meglio e più dall’interno la musica del suo maestro. Haydn scriveva per sedici o venti elementi, Beethoven voleva farlo per quaranta o cinquanta e ha introdotto nell’orchestra l’ottavino e questa è un’innovazione completamente sua. Certo, quello che ha scritto è assolutamente innovativo e di questo parliamo, non solo la sua scrittura, ma anche l’idea di raddoppiare i componenti dell’orchestra, tanto che duecento anni dopo usiamo ancora quel tipo di configurazione. Questa è un’innovazione che resta, capisci? Siamo ossessionati dall’idea di informazioni, informazioni, sequenze, strutture complesse. Ma a me queste cose non interessano, se dentro non ci sono le emozioni. Certo, se chi ascolta la tua musica alla fine dice: «Oddio, non ho mai sentito niente del genere», mi fa un gran piacere, ma non mi frega niente di suonare per studenti e musicisti, io voglio suonare per la gente e cercare la magia di far sembrare semplici cose molto complicate; la tendenza attuale, invece, è opposta: suonare cose semplici e farle sembrare chissà quanto complesse in nome di una presunta novità.
A proposito di pubblico, credi che gli ascoltatori abbiano una responsabilità nei confronti dei musicisti per rendere il confronto più tridimensionale?
No. Mi danno i loro soldi, la loro responsabilità finisce lì. Quello che il pubblico vuole è ascoltare brani con una gran melodia e un gran beat. Prendi un pezzo qualunque, che so, una sinfonia di Beethoven: il pubblico applaude. Ma se subito dopo gli suoni il Bolero di Ravel avrai una standing ovation, perché è costruito su cicli di ripetizioni. Questo non significa che, come jazzisti dobbiamo ripeterci tutte le volte, il punto è che il pubblico ha bisogno di emozionarsi, riconoscersi nella musica. Se prendi cinque versioni dello stesso brano, alla fine suonano tutte allo stesso modo. Allora prendi cinque pezzi di epoche diverse e cerchi di suonarle stilisticamente nel modo più corretto possibile: alle orecchie del pubblico arriveranno emozioni completamente differenti e risponderanno in modo diverso a ciò che accade sul palco. Più di vent’anni fa stavo confrontandomi col mio bassista, c’era un brano sul quale gli chiedevo di fare un walking bass e lui: «Posso fare qualcosa di diverso? ». Gli ho chiesto: «Se non lo fai tu, il walking, quale altro strumento può farlo?», «Nessuno», ha risposto. «Be’, se ti metti a suonare un mucchio di note veloci, quanti altri strumenti possono farlo? Almeno due di noi; che senso ha?». Quel che intendo è che, se la musica è presentata in un certo modo, il pubblico gradisce ricevere quelle emozioni. Non devono sedersi e iniziare a pensare al come, al cosa o al perché, devono solo reagire al suono.
Per concludere, mi incuriosiva chiederti del tuo ingresso dentro la storia dell’etichetta Blue Note (certo, da una porta un po’ inattesa, perché rileggi un album ECM). Ti ha fatto emozionare?
È strano, sai, non so risponderti di preciso. Ho con me un grande gruppo di lavoro, Il mio manager mi fa: «Credo che possiamo firmare con Blue Note» e io ho pensato che fosse magnifico, ma non è stato come l’avverarsi di un sogno, perché il mio sogno come musicista è stato sempre quello di suonare, non tanto quello di registrare. Intendiamoci, è un grande onore fare parte di un’etichetta dove ci sono alcuni dei miei musicisti preferiti di sempre e dischi che sono parte di me; però, se ascolto Wayne Shorter, non penso al fatto che sia Blue Note o no, sto solo ascoltando la sua musica. Non voglio utilizzare questo tipo di fortunate coincidenze per sentirmi migliore, capisci? Mi piace restare centrato e focalizzato su quel che faccio. Con Blue Note, però, ho conosciuto un altro gruppo di lavoro fantastico: Don Was è davvero un passo avanti e poi, ovviamente, il marketing è più efficace, capillare.
Questo disco lo hai registrato al Marsalis Center, del quale sei direttore artistico dall’anno scorso. Come vanno le cose lì?
Dobbiamo costruire un percorso, serve un cambio di passo per cambiare l’approccio alla cultura. La cosa che mi piace di più del Center è che non cerchiamo di creare musicisti, cerchiamo di utilizzare la musica per qualcosa di importante. Ci sono un sacco di ragazzini che altrimenti passerebbero un mucchio di tempo da soli, a casa o per strada, perché magari i loro genitori lavorano tutto il giorno. Questo può portare a situazioni problematiche e allora diamo loro un posto dove andare, un luogo tranquillo dove fare i compiti, mangiare cose sane e, se gli va, suonare i loro strumenti, senza che necessariamente imponiamo loro la disciplina che è servita a noi per diventare musicisti: non è quel che cerchiamo di fare. L’idea è di introdurre il tentativo di un cambiamento. Sarà lento ma non abbiamo fretta, e ci faremo trovare pronti quando avverrà.