Firenze, PARC
5 ottobre
Amiri Baraka, al secolo LeRoi Jones (Newark, 1934-2014), ha svolto un ruolo fondamentale nell’ambito della cultura afroamericana. Pienamente impegnato già negli anni Sessanta nella lotta per i diritti civili, nelle sue poesie – e in performance di poetry reading e spoken word ricche di musicalità – ha riversato con acume sferzante innumerevoli riferimenti a scottanti tematiche di natura sociopolitica. Fondamentale risulta poi anche il suo contributo di saggista, grazie a pietre miliari quali Blues People e Black Music.
Ad Amiri Baraka la XXXI edizione di Fabbrica Europa ha opportunamente dedicato un progetto realizzato da alcuni componenti del gruppo Dinamitri Jazz Folklore, con cui tra il 2007 e il 2013 il poeta aveva instaurato una proficua collaborazione documentata da «Akendengue Suite» (RaiTrade) e «Live in Sant’Anna Arresi 2013» (Rudi).
Al PARC (Performing Arts Research Center) di Firenze si sono dunque presentati Dimitri Grechi Espinoza (sax tenore), Beppe Scardino (sax baritono, flauto ed elettronica), Emanuele Parrini (violino e viola), Simone Padovani (percussioni). L’impostazione originale, e vincente, dell’operazione prevedeva una sequenza di interventi in solo in cui ogni singolo musicista doveva interagire con la recitazione registrata di Baraka, processata, spezzettata in frammenti e loop, e immersa in efficaci inserti elettronici da tre bravissimi giovani allievi della Scuola di Musica Elettronica del Conservatorio «Luigi Cherubini» di Firenze: Irene Fortunato, Edoardo Martini e Lorenzo Milani. Non a caso, il loro maestro è Damiano Meacci, membro del centro Tempo Reale.
Apertura affidata a Parrini, che opera lievi sfregamenti – a tratti anche in simultanea – sulle corde della viola e del violino coricati su un banco, ricavandone così un effetto ipnotico e straniante. Alla viola la materia prende gradualmente forma anche attraverso una partitura che alterna riferimenti ad Archie Shepp, un estratto da The Blessed Prince dello stesso Parrini, allusioni al Novecento e porzioni di improvvisazione. Il solo di violino si sublima in un crescendo impetuoso, stridente e tagliente. La voce di Baraka emerge, svanisce e riaffiora con il ricorrente interrogativo «Why don’t you fight?».ù
Segue Padovani con il suo nutrito set percussivo, composto da conga, djembé, tamburo a cornice, wood block, caxixi e sonagli vari, che contrasta il monito ossessivo di Baraka: «Slaves, we were slaves!». Un caleidoscopio ricco, ma anche troppo generoso, di colori timbrici, dinamiche e giochi poliritmici che gettano un ponte tra retaggio africano e patrimonio afrocubano.
A Grechi Espinoza tocca il compito di riportare la narrazione su un terreno squisitamente jazzistico. Prima, con volute ampie e dense di sfumature melodiche; poi, con un fraseggio sempre più serrato, concitato, che salendo sui sovracuti si trasforma in un urlo di ribellione. A fargli da contraltare, un estratto da Speech # 38 di Baraka, un musicalissimo mosaico di citazioni di titoli storici, tra i quali Bloomdido e Perdido di Charlie Parker, Oolyakoo e Salt Peanuts di Dizzy Gillespie. Grechi Espinoza porta a termine l’intervento con una sequenza ritmica prodotta con la pressione sulle chiavi e sulla campana del tenore, che introduce l’ingresso di Scardino.
Pennellate asciutte, ma incisive, di flauto preludono a potenti progressioni di baritono (suo strumento principe) che evocano Pepper Adams, Hamiet Bluiett e, per certi versi, anche Roscoe Mitchell. In questa sezione Scardino interagisce con dei campionamenti che sostengono ritmicamente il suo contributo. Con il campionatore e un sintetizzatore dà luogo a una successione – per la verità un po’ ridondante – di episodi in cui confluiscono anche richiami allo hip hop e alla techno.
In chiusura, tutti i musicisti (inclusi i tre giovani colleghi incaricati della parte elettronica) si riuniscono impugnando e percuotendo dei campanacci in giro per la sala. Una sorta di breve rito che da un lato evoca antiche pratiche africane; dall’altro, ricorda in qualche misura il modo in cui a volte l’Art Ensemble of Chicago introduceva i propri concerti. Certamente, un netto richiamo allo spirito e al messaggio di Amiri Baraka.
Enzo Boddi
Foto di Monia Pavoni