Beatrice, come ti racconteresti ai lettori?
Credo, innanzitutto, di potermi presentare come una persona desiderosa e bisognosa di esprimersi creativamente nella vita, che ha trovato il proprio mezzo privilegiato di comunicazione nella musica e nel canto, dal momento che usare la voce è stato per me il modo più immediato e naturale, fin da bambina, di manifestarmi, emotivamente ed espressivamente. Potrei poi raccontare di come sia passata attraverso molteplici fasi ed esperienze musicali prima di individuare il mio suono e di trovare un’identità precisa; prima di riconoscere e accettare la mia voce, di percorrere una direzione artistica personale rispetto alla quale potessi sentirmi davvero centrata e «organica» a me stessa. In questo senso, il mio percorso si delinea come un graduale processo di spoliazione, finalizzato ad abbandonare ciò che non mi corrisponde davvero (sovrastrutture, legate all’aspetto idiomatico, tecnico, espressivo) e a ricondurmi in maniera sempre più profonda a me stessa e alla mia natura, ad un’espressività priva di formalismi superflui. Credo che la ricerca artistica, quando condotta con un certo grado di profondità e di onestà verso se stessi, inneschi spontaneamente un processo fisiologico di scoperta del sé di questo tipo. Così, nel corso del tempo ho assunto maggior consapevolezza della mia storia personale e delle mie origini musicali e culturali: passando attraverso la black music, il soul, il rhythm and blues, il jazz (che ho approfondito a lungo), ho percepito gradualmente la specificità delle mie origini e l’irrimediabile distanza anche culturale da alcuni linguaggi, essendo italiana ed europea ed essendo cresciuta tra gli anni Novanta e i Duemila in una famiglia appassionata di musica classica. Proprio la frequentazione della musica classica – determinante fin da quando ho iniziato a studiare pianoforte a 8 anni – ha influenzato fortemente il mio senso musicale, plasmando il mio orecchio anche in maniera inconscia, ma inequivocabile, e introiettando in me una serie di stilemi riconducibili alla musica euro-colta.
Come si è sviluppata la tua formazione?
Le musiche a cui mi sono dedicata nel tempo, soprattutto il jazz, mi hanno influenzato e appassionato moltissimo, soprattutto in merito ad alcune questioni legate alla libera interpretazione. Una volta superata la fase di studio accademico mi sono resa conto che l’unico modo per sentirmi realmente espressa era scrivere la mia musica, comporre in maniera aperta a varie influenze, dedicarmi alla libera improvvisazione, sperimentare col mio strumento in tutte le direzioni superando idiomi e stereotipi di genere, dialogare con aspetti musicali pregressi della mia storia personale nell’ottica di un’integrazione e di un trasversalismo. Nel tempo mi sono scoperta improvvisatrice, autrice, compositrice, e affinando le mie diverse inclinazioni artistiche ho trovato uno spazio nel vasto ambito della musica creativa e sperimentale. Sono venuta maturando un’idea del far musica come ricerca espressiva: musica e canto non sono unicamente gioia e «divertimento» (anzi, spesso c’è molta sofferenza), ma sono anche e soprattutto un processo conoscitivo, dal momento che mi consentono di scoprire cose inedite, mi forniscono stimoli di riflessione, mi spingono ad indagare su aspetti specifici. Nel lungo percorso compiuto negli anni sono state ovviamente importanti e imprescindibili tutte le esperienze che ho vissuto, da quando ho iniziato a cantare Erykah Badu, da adolescente, a quando ho iniziato a compiere i primi passi nel jazz. Ho frequentato i Civici Corsi di Jazz di Milano, ho completato il percorso accademico in Canto Jazz al Conservatorio di Milano (portando mie composizioni per settetto su poesie di Emily Dickinson e Wallace Stevens), ho partecipato a numerosi workshop internazionali di jazz, finché non ho iniziato a praticare la libera improvvisazione e a pubblicare miei progetti di musica originale. Se le esperienze accademiche legate al jazz mi hanno fornito degli strumenti di competenza importanti e mi hanno permesso di affinare in maniera singolare la mia sensibilità creativa, un momento sicuramente cruciale è coinciso con la frequentazione dei «Laboratori Permanenti di Ricerca Musicale», condotti da Stefano Battaglia nella sede di Siena Jazz. Il lavoro svolto insieme a lui sull’improvvisazione a-idiomatica si è irradiato in varie direzioni, e mi ha permesso innanzitutto di consolidare una prassi e di liberare il mio canto da alcuni automatismi idiomatici; ha innescato di conseguenza un processo di sperimentazione sia a livello di interazione con gli altri che di maturazione espressiva individuale, rispetto al quale è stato molto importante il lavoro su testi pre-esistenti di vario tipo (tra cui poesie in italiano). Nel 2022 è stato pubblicato un progetto che si chiama «Questo Tempo», che è l’esito di un laboratorio di due anni condotto da Stefano, dedicato a poesie italiane di donne della contemporaneità; questo progetto, che oltre a me e a Stefano ha visto la presenza fondamentale di Nazareno Caputo (vibrafono e marimba) e di Luca di Battista (batteria), ha un po’ catalizzato il punto di arrivo di una ricerca importante, su poesia e improvvisazione, che mi ha ispirato per altri lavori in italiano come lo stesso «Terrestre». Nel tempo ci sono state altre esperienze ed incontri significativi, sia con didatti che con musicisti; numerosi sono i dialoghi affettivi e sinergici, gli scambi di idee e di visioni, le connessioni umane speciali. Tra le ultime esperienze di formazione importanti cito la partecipazione al programma di workshop del 2023 organizzato dall’IRCAM di Parigi Manifeste Academie, dove ho avuto modo di sperimentarmi come improvvisatrice e performer, indagando le possibilità di interazione attiva tra corpo e suono. Per concludere, penso che potrei descrivermi come un’artista che musicalmente ed espressivamente si sente parte di un percorso incessante di ricerca su di sé, sul proprio strumento, sul linguaggio, sul suono e sul corpo, sulla performance, in un’ottica di maturazione artistica e di pensiero, di acquisizione di conoscenze e consapevolezze, di sviluppo di un’espressività autentica e di uno sguardo ampio rivolto al mondo nel suo complesso e nella sua complessità.
I tuoi dischi prima di «Terrestre» riferiscono, mi sembra di poter dire, di un’inclinazione più spinta verso una ricerca musicale. È così?
Direi di sì, anche se, curiosamente, l’anno in cui ho pubblicato i miei primi dischi (il 2018) sono usciti due progetti piuttosto diversi tra loro: da un lato «My River Runs To Thee» – un lavoro acustico di improvvisazione incentrato sulla poesia di Emily Dickinson – e dall’altro il lavoro in quartetto «Innerscape», che include un insieme di brani in inglese affini al jazz contemporaneo e assimilabili in un certo senso a delle «canzoni» (un prodotto decisamente meno sperimentale del primo). Credo che questa coincidenza cronologica non sia del tutto casuale, nel senso che esemplifica il doppio binario lungo il quale il mio lavoro si è profilato finora: da un lato il «mondo canzone» – ancorato maggiormente al linguaggio del jazz, anche se contaminato – dall’altro la sperimentazione e l’improvvisazione – svincolate da generi precisi e indubbiamente legate a musiche che vanno al di là del jazz. Il denominatore comune di questi due filoni è la presenza di musica originale, improvvisata oppure scritta appositamente (o entrambe le cose, combinate tra loro). Sento che cantare musica originale è diventata una prerogativa fondamentale per me, perché mi consente di trovare più facilmente una dimensione di libertà e autenticità. Ma un aspetto importante dei progetti dedicati all’improvvisazione è indubbiamente il lavoro su testi pre-esistenti e il rapporto con la poesia. «Nel Canto Presente», uscito nel 2021 per Honolulu Records, è un progetto sulla poesia italiana a cui tengo molto, perché è il frutto di un lavoro accurato sulla parola che ho condotto insieme al batterista e improvvisatore Fabrizio Carriero; per questo progetto mi sono indirizzata verso poeti contemporanei quasi tutti viventi, alcuni dei quali conosco personalmente e sento essere legati alla mia storia personale. Altri progetti, di cui sono co-leader o side woman, sono allo stesso modo dedicati alla poesia, e combinano più spesso scrittura e improvvisazione: «Songs and Poems» di Andrea Grossi Blend 3 (2022) affronta ad esempio testi di Emily Dickinson e di E.E. Cummings, il già citato «Questo Tempo» (2022) include poesie di donne come Chandra Livia Candiani e Amelia Rosselli, «A Brief History Of Time» del trio Entanglement (2021) è ispirato a Thomas S. Eliot; altri lavori sono in procinto di essere pubblicati e sono sempre incentrati su testi poetici, alcuni in inglese e altri in italiano. Certamente mi piace anche improvvisare senza testi; ne è testimonianza il progetto «Solstitium» di cui faccio parte insieme ai toscani Tobia Bondesan, Tommaso Iacoviello e Nazareno Caputo, che è stato pubblicato nel 2022 dall’etichetta Bluering: il disco include improvvisazioni estemporanee registrate all’interno di una chiesa situata nei pressi di Firenze, caratterizzata da un’acustica particolarmente suggestiva, che ci ha ispirato molto nel lavoro sul suono.

Foto di Massimiliano Milesi
E invece «Terrestre» arriva ad un approdo che è quasi di cantautorato colto, se così possiamo dire. Ti ritrovi in questo?
Sì, si può dire che «Terrestre» rientri in una forma di cantautorato colto. Sento tuttavia che questo disco è legato ai lavori precedenti e che è riconducibile a sua volta ad una qualche forma di ricerca musicale: gli esiti sono certamente meno sperimentali rispetto a quelli di altri progetti, ma è presente una dimensione di ricerca nei termini di riflessione sul linguaggio, sulle forme e sull’espressività, dettata in particolare dall’uso della lingua italiana. «Terrestre» è il frutto di un lavorìo compositivo piuttosto lungo, e risponde ad un obiettivo che mi sono posta in maniera chiara e programmatica: essendomi sperimentata a lungo con l’italiano sul piano dell’improvvisazione a-idiomatica, ad un certo punto ho sentito la necessità di mettermi alla prova con esso sia dal punto di vista della scrittura di testi originali che della composizione vera e propria; l’idea di partenza era quella di scrivere «canzoni» in italiano tentando di sintetizzare musicalmente i diversi linguaggi legati alla mia esperienza e alla mia estetica. Volevo cioè riuscire a trovare compositivamente una strada personale e al tempo stesso comunicativa, ricercata, che non portasse automaticamente la musica in italiano sui binari del cantautorato tradizionale, della musica italiana «jazzata», oppure del pop o dell’indie. Volevo tentare una sintesi organica di diversi elementi stilistici dando un certo spessore di complessità sia ai contenuti compositivi che a quelli testuali. Credo che vi si possa percepire la presenza di suggestioni musicali riconducibili anche al pop, ad esempio, così come è evidente che il riferimento idiomatico al jazz contemporaneo è preponderante; tuttavia ho voluto provare ad andare più in là, mescolando elementi stilistici diversi che fanno riferimento ad esempio alla musica popolare, alla musica classica, alla musica contemporanea, alla musica improvvisata, ovvero alle tante musiche che abitano il mio immaginario sonoro. Sulla scia di questo tentativo di sintesi organica, è stata inevitabile una riflessione sull’uso della lingua italiana e sul suo rapporto con la musica, nonché sulle forme, sul linguaggio, sul dialogo tra scrittura cantautorale e dimensione improvvisativa (una riflessione che sentivo necessaria e che auspicavo). Per trarre spunti sull’italiano ho fatto degli ascolti specifici, riferendomi ad esempio ad autrici come Patrizia Laquidara, Ginevra di Marco e Cristina Donà; anche se l’universo sonoro di «Terrestre» prende le mosse da premesse estetiche varie, assumendo infine un carattere molto eterogeneo.
La tua personale ricerca, quindi, non si è mai fermata. Vuoi spiegarci meglio il lavoro svolto sulla lingua?
In quanto cantante, ho il privilegio di dire parole e di veicolare significati attraverso il linguaggio verbale. La mia ricerca in quanto cantante implica in maniera intrinseca un lavoro sulla lingua, innanzitutto nei termini di «idioma»; da questo punto di vista credo sia importante essere consapevoli di quanto un idioma sia diverso dall’altro dal punto di vista degli aspetti fonetici/fonematici, prosodici, morfologici, sintattici, etc. Io, ad esempio, ho cantato per la maggior parte della mia vita in inglese in maniera piuttosto inconsapevole, perché quando ho iniziato a canticchiare ero molto piccola e non potevo che cantare in inglese in maniera un po’ passiva, non conoscendo bene la lingua. Certamente la mia attenzione era già allora incentrata sul suono più che sul significato, e per molto tempo non ho dato peso alla lingua che stavo utilizzando; percepivo che l’inglese mi (si) «incagliava», che non mi dava piena soddisfazione, ma non avevo ancora gli strumenti per comprendere che cantare in inglese poteva non essere l’unica strada possibile. Quando ho iniziato a sperimentare veramente con l’italiano – di fatto, durante i laboratori condotti da Stefano Battaglia – mi sono resa conto che l’inglese non era la scelta migliore perché non era la mia lingua d’origine, e che per quanto gran parte della musica ascoltata nella mia vita fosse in inglese, non potevo sentire quella lingua come veramente mia. Tanto più che nel mio percorso formativo ho studiato Lettere Moderne all’Università, e che ho sempre avuto una grande passione per la lingua e per la letteratura italiana. Cantare in italiano è stata un’esperienza incredibilmente significativa, perché mi ha permesso di trovare un dimensione più genuina ed autentica nel mio modo di esprimermi; soprattutto se si considera che ho iniziato ad usare davvero l’italiano in un contesto – quello improvvisativo – in cui le caratteristiche intrinseche dell’italiano dal punto di vista semantico e fonetico si sono svelate in tutta la loro complessità. Ecco, «Terrestre» è nato anche perché desideravo dare al mio canto in italiano la possibilità di dispiegarsi in maniera più fluida, lineare e melodica, nell’ambito di una dimensione piuttosto strutturata a livello compositivo, in cui non dovessi pormi la questione di «rielaborare il suono delle parole» in senso astratto e concettuale (anche se non mancano momenti di libera improvvisazione su testi). La mia ricerca come cantante implica poi, oltre alla riflessione sulla lingua come idioma, anche un lavoro sulla lingua come suono e come successione di fonemi, in un senso meta-linguistico, rispetto al quale il significante assume un centralità importante rispetto al significato. Da questo punto di vista è stato fondamentale praticare l’improvvisazione a-idiomatica per sperimentare sul testo a vari livelli, soprattutto nei termini di destrutturazione e frammentazione della parola (agendo cioè su intelligibilità e semantica, pur nel rispetto della natura fonetica del testo); nell’ambito di questo tipo di prassi mi sono sperimentata con la la libera rielaborazione dei suoni della parola, laddove il significato del testo viene veicolato non a livello letterale o attraverso l’esplicitazione lineare della parola ma attraverso altri elementi musicali ugualmente comunicativi. Di per sé, l’uso «timbrico» della parola è capace di veicolare a sua volta dei significati oltre quelli espressi dalla parola in maniera letterale, e questo moltiplica le potenzialità espressive del testo generando anche una ricerca inesauribile. Ecco, «giocare» coi fonemi ha permesso di liberare fortemente la mia creatività e di lavorare sulla parola in maniera espressiva; ha affinato anche la mia capacità di utilizzare la tecnica al servizio dell’espressività.
Ci sono altri aspetti?
Un aspetto del lavoro sul suono della parola si declina anche nei termini di invenzione di lingue «altre», attraverso l’uso di suoni casuali, prevalentemente nei casi in cui non si parte da testi pre-esistenti ma quando si crea qualcosa sul momento: come insegna Barbara Togander – improvvisatrice e ricercatrice vocale di originale svedese che ha vissuto in Argentina e che collabora con molti improvvisatori della scena europea – il processo di invenzione di una lingua attraverso l’utilizzo di fonemi che non hanno di per sé un significato preciso, o attraverso il mescolamento di suoni caratteristici di lingue diverse, appartiene ad una dimensione naturale della sperimentazione e del gioco ed è al servizio totale di una creatività che sgorga libera e spontanea. È un procedimento che si può far rientrare in una prassi piuttosto definita del fare improvvisazione, come una sorta di elemento procedurale e strutturale che insieme ad altre categorie (come ad esempio silenzio/rumore/melodia/ripetizione/pulsazione) può aiutare a sviluppare e ad articolare il discorso improvvisativo su vari livelli, nell’ottica del metalinguaggio.

E il gruppo? Come funziona con loro?
Il gruppo con cui ho registrato «Terrestre» è per certi versi erede dell’idea di quartetto con pianoforte con cui avevo lavorato nel precedente progetto «Innerscape» (uscito nel 2018). Nel corso degli anni ho maturato la necessità di cambiare l’assetto del gruppo, di pari passo con la trasformazione del mio linguaggio e della mia estetica. Ho impiegato del tempo prima di capire quali fossero le persone più adatte per il progetto che avevo in mente, e infine ho deciso di chiamare il pianista Danilo Tarso e il batterista Mattia Galeotti, dopo una serie di riflessioni e tentativi. Il carattere eclettico dei tre musicisti che fanno parte del gruppo (Andrea Grossi al contrabbasso ne è parte già da prima) è un tratto fondamentale della loro personalità musicale e artistica: dal momento che la musica di «Terrestre» è piuttosto eterogenea, avevo bisogno di musicisti capaci di muoversi su vari fronti, che fossero al tempo stesso dotati di un certo tipo di suono e di una certa sensibilità timbrica: Danilo, Andrea e Mattia sono fondamentalmente dei musicisti di jazz, ma provengono da esperienze differenti e praticano musiche di vario genere, riconducibili alla musica classica, alla musica contemporanea, alla musica etnica e soprattutto al mondo dell’improvvisazione estemporanea. La loro presenza mi ha permesso di concretizzare ciò che avevo in mente a livello di sintesi di linguaggi, e ha reso possibile ad esempio mettere in dialogo la dimensione della libera improvvisazione con quella della scrittura appunto «cantautorale». Con loro, il lavoro si è sempre svolto nell’ottica di una ricerca collettiva sul suono e sulla fluidità delle strutture; le partiture che ho portato erano piuttosto articolate, ben definite e strutturate, ma era necessario lavorare sui nessi all’interno delle forme, sull’efficacia di alcuni passaggi, sulla coesione complessiva, sull’affinamento dei ruoli, sulla definizione di certi timbri e registri, sulla dimensione espressiva, sul carattere di alcuni momenti improvvisativi. Quello che abbiamo fatto è stato per certi versi un lavoro corale, che ha dato graduale concretezza alle idee che avevo in mente e che mi ha permesso di definire meglio alcune idee che erano solo abbozzate nella mia testa. Il lavoro insieme a loro mi ha dato, in generale, spunti e consapevolezze importanti dal punto di vista musicale, compositivo e strumentale. Mi sento privilegiata con loro, perché oltre oltre ad essere dei musicisti eccelsi, sono persone di grande spessore musicale e umano, e senza di loro certamente «Terrestre» non esisterebbe o sarebbe diverso da quello che è.
Esiste una particolare suggestione dietro quest’opera, anche di natura extra-musicale?
«Terrestre» nasce con l’idea di esemplificare delle possibili forme di scrittura in italiano, caratterizzate da una certa immediatezza espressiva. I miei riferimenti sono prevalentemente musicali, ma esiste una dimensione da cui sono partita che potrei definire extra-musicale, in un senso non concettuale o astratto. I riferimenti tematici che avevo immaginato per questo progetto – esplicitati nei testi, ma anche attraverso la musica, nell’ottica di una fusione espressiva e narrativa delle due componenti, testuale e musicale – hanno a che vedere con la possibilità di raccontare la contemporaneità in alcuni suoi aspetti drammatici ed esistenziali. Nei testi prende forma la mia realtà interiore, dunque la mia percezione della contemporaneità, ma anche la contemporaneità stessa per come si presenta, per come viene recepita da una persona che la abita e che la osserva in un certo modo. Se alcuni di essi sono riconducibili a stati d’animo intimamente personali e a tematiche esistenziali, l’idea di base era quella di partire anche da vicende legate alla collettività, sebbene filtrate dai miei vissuti. Ho voluto cioè parlare di ciò che stava accadendo intorno a noi, seppur metaforicamente o, in alcuni casi, indirettamente: ad esempio, il lockdown legato all’epidemia da Covid-19 ha ispirato il testo di Risonanze e de L’Attesa, la guerra in Ucraina ha ispirato Quello che resta, mentre Voci dal fondo fa riferimento ai migranti che muoiono in mare durante le traversate del Mar Mediterraneo; Regina Antica è un inno ad una dimensione idealmente lontana dalla corruzione e dalla soffocante complessità del presente, mentre Terrestre ricorda che l’uomo è innanzitutto una creatura della Terra – con le sue fragilità e debolezze –, e che appartiene ad un pianeta che esso stesso sta distruggendo. Rispetto ad altri progetti a cui mi sono dedicata, forse «Terrestre» è maggiormente permeato da una certa tensione etica, e mi auguro che questo aspetto possa rendere la musica comunicativa e partecipata.
Per te «musica» è (anche) raccontare storie? E queste storie dove (ti) portano?
Se parliamo di narrazione, mi viene in mente innanzitutto un aspetto particolare del mio personale approccio, ovvero un procedimento mentale, legato al processo compositivo, che entra in gioco anche quando sto improvvisando, e che è in un certo senso narrativo: sia quando scrivo che quando improvviso penso sempre alla costruzione di un discorso, e cerco di sviluppare i materiali che sto utilizzando in modo tale da dar loro una forma; per me, questo significa narrare qualcosa, anche se non sto usando delle parole. Al di là di questo processo, penso che la musica sia inevitabilmente narrazione, in un senso che supera i possibili significati espliciti della parola. La musica può di per sé non ambire a narrare nulla nello specifico (anzi, non deve per forza «raccontare»), ma credo sia essa stessa narrazione in quanto è inevitabilmente discorso, insieme di suoni che nel loro manifestarsi sull’asse del tempo e nel loro relazionarsi reciprocamente finiscono per essere organizzati in una forma (quand’anche non ci sia la volontà di organizzarli in una forma o consapevolezza della stessa). I significati che la musica veicola in assenza di un testo hanno chiaramente un valore maggiormente soggettivo, astratto, non essendo tangibili in maniera chiara e assoluta; d’altra parte, la musica può «raccontare» di per sé molto più di quello che le parole dicono. Credo in realtà che la musica non sia propriamente narrativa nel senso di «narrazione di storie», ma nel senso che è in grado di dire cose in quanto espressiva. Ciò che è interessante è come si può rendere narrativo un suono, quali sono le possibilità esplorate dall’artista rispetto alle sue potenzialità. Per quanto riguarda i miei lavori, in alcuni progetti ho dato ampio spazio al potere «connotativo» della musica, utilizzando testi poetici e sfruttando la parola nei suoi elementi evocativi ed astratti (ulteriormente potenziati attraverso la destrutturazione dei sintagmi e il lavoro sui fonemi). Per «Terrestre» volevo invece scrivere dei testi originali come fossero testi di canzoni, sfruttando cioè la componente più propriamente narrativa della parola: cercavo testi più descrittivi caratterizzati da una certa compiutezza, linearità e discorsività. Ne sono usciti brani di carattere differente, alcuni dal carattere metaforico-astratto e altri più concreti. Credo che la musica di «Terrestre» si possa definire narrativa anche perché è costruita e pensata in stretta connessione con i significati e il senso del testo, che essa stessa cerca di veicolare espressivamente, pur senza essere didascalica. Testo e musica sono stati costruiti di pari passo, proprio perché sentivo l’esigenza di creare una corrispondenza stretta tra i due elementi: per evitare di cadere in certi automatismi di linguaggio, non potevo né piegare totalmente la musica al servizio della lingua, né appiccicare le parole ad una musica scritta in precedenza indipendentemente dal testo. Ogni volta che volevo scrivere qualcosa o che mi ritrovavo in mano un abbozzo di suoni (parole o note), sono sempre partita da un’idea espressiva di riferimento e mi sono sempre posta questa domanda: «Che cosa vuoi dire in questo brano, che cosa vuoi dire con questi suoni?». Così, mi sono lasciata guidare dai suoni delle parole in italiano, e viceversa, ho plasmato le parole attraverso i suoni della musica.

Viviamo in un mondo nel quale il linguaggio crea nella stessa misura in cui descrive. Quanto è forte il potere della parola unito a quello della musica?
Credo che da sempre la musica si accompagni alla parola (e viceversa) proprio per la capacità della musica di amplificarne le possibilità espressive e comunicative. Probabilmente il canto, l’intonazione di suoni e parole attraverso l’uso di uno strumento che si trova per natura dentro al nostro corpo, è la modalità più immediata e spontanea dell’uomo per esprimersi musicalmente, e ne è in un certo senso l’espressione musicale primordiale. Sui molteplici esiti dati dalla combinazione di musica e parola e sulle riflessioni teoriche e musicologiche in merito potremmo disquisire all’infinito, apportando innumerevoli esempi tratti dalla storia della musica nella sua interezza (si pensi ai trovatori, al madrigale quattro-cinquecentesco, all’opera lirica, al cantautorato moderno, e alle mille altre strade percorse nel corso dei secoli). Per quanto mi sia sempre piaciuto cantare musiche senza testi – particolarmente sfidante a livello espressivo –, nel corso della mia esperienza ho affinato una certa consapevolezza rispetto all’importanza e alla pregnanza della parola, rendendomi conto di quanto il privilegio di dire cose rappresenti per il cantante anche un’investitura di responsabilità. Indubbiamente mi affascina l’idea di lavorare sul vasto mondo che dischiude la parola nella sua unicità e singolarità, così come mi piace andare in profondità di ciò che ogni singola parola racchiude, sia a livello di suono che di significato. Mentre in passato ero più concentrata su aspetti prettamente musicali, nel corso del tempo ho maturato una certa attenzione nei confronti della dimensione espressiva della parola (soprattutto nel caso dell’italiano), accorgendomi che la tecnica al servizio dell’espressività rende il canto comunicativo ed efficace. Anche in questo caso, la pratica dell’improvvisazione mi ha permesso di trovare una strada nel lavoro sul testo: mettendomi nelle condizioni di gestire le parole in maniera svincolata da una partitura pre-esistente, essa ha in un certo senso scardinato la mia abitudine di «dire il testo tanto per dire», e mi ha aiutato a comprendere che l’efficacia del dettato è determinata dalla mia capacità di dare espressività alle parole. Ad esempio, ho imparato a dare il giusto rilievo al testo, collocando le parole in un certo momento all’interno del flusso improvvisativo e dando loro un certo carattere; ho imparato a creare degli ampi spazi tra una parola e l’altra, sfruttando lunghe pause e lavorando sulla densità, affinché le singole parole si staglino nello spazio sonoro con tutta la loro potenza; oppure, ho imparato a sfruttare dei grammelot di suoni, impastando consonanti, vocali, e suoni casuali in maniera libera e incessante (anche l’uso della parola come suono puro, in un senso che ne disperde il significato, ha la sua efficacia, se connesso espressivamente alla musica). Sono riuscita in sostanza a sviluppare delle tecniche e delle strategie a cui non ero abituata in precedenza, quando il mio atteggiamento rispetto al testo era in un certo senso più passivo. Sicuramente ho potuto ispirarmi a numerosi cantanti e compositori che hanno tracciato una strada personale e che hanno rappresentato per me un riferimento fondamentale trasversalmente ai cosiddetti generi; tra i tanti, ricordo ad esempio Norma Winstone, Demetrio Stratos, Georges Aperghis, David Moss, Björk, Maria Pia De Vito, Luciano Berio, Meredith Monk, Savina Yannatou, David Lang, Theo Bleckmann, Cathy Berberian, Lucilla Galeazzi, Jen Shyu, Maria Joao, John Cage, Areni Agbabian, Giacinto Scelsi, Barbara Togander, Sajncho Namcylak, Jay Clayton, Maja Ratkje, e altri ancora.
E forse si può anche andare oltre questi aspetti…
Sì, allargando il discorso ad una prospettiva più ampia, mi viene da dire che la riflessione sul senso del linguaggio e della parola, oggi, sia più che mai importante, sia nella musica che in generale. Nella sovrabbondanza bulimica di informazioni e messaggi a cui siamo sottoposti, credo sia importante preservare (o acquisire) la capacità di comprendere precisamente il significato di ciò che viene detto, e di riconoscere il peso assunto da ogni singola parola detta o scritta. Per di più, in ambiti legati ad esempio alla musica commerciale, stiamo assistendo ad un graduale svuotamento dei significati della parola, e ad un trionfo di testi stereotipati e semplicistici, privi di contenuti reali, che magari «suonano bene» ma che non contengono dei significati di sostanza. Il mercato musicale ha ovviamente le sue regole e i suoi meccanismi di funzionamento, ma alla luce di certi fenomeni che coinvolgono i processi del vivere sento personalmente il bisogno sempre maggiore di proteggere il mio spazio operativo ed espressivo, di selezionare le parole e le informazioni che mi arrivano, e di scegliere musica che ha dei contenuti, praticando il silenzio e riservando l’ascolto a momenti di attenzione vigile, critica e analitica.
E, oltre musica e parola, come ti rapporti al suono?
Il suono è tutto: è innanzitutto materia, qualcosa che produco in maniera fisiologica con l’uso della voce e che pervade il mio corpo a livello di frequenze vibrazionali, ma è anche astrazione, nella sua capacità di combinarsi a se stesso in maniera continua e imprevedibile. Il suono rappresenta l’elemento primario di identità su cui costruire e sviluppare la mia espressività e su cui ricercare incessantemente (penso di aver già evidenziato, parlando della parola e della lingua, quanto il suono sia importante per me). Il mio rapporto col suono è maturato gradualmente: mentre in una prima fase della mia esperienza ero concentrata più sullo sviluppo e sull’acquisizione di abilità prettamente musicali, nel corso del tempo ho assunto maggior consapevolezza della natura del «mio» suono, avviando una ricerca tecnica, timbrica ed espressiva sulla voce che ha favorito l’esplorazione di territori altri rispetto a quelli del jazz. Credo che in fondo la ricerca sul suono diventi imprescindibile per qualsiasi musicista che stia cercando una strada personale, e che il lavoro stesso sul suono alimenti a sua volta un processo di ricerca potenzialmente infinito. I miei riferimenti espressivi sono ovviamente cambiati moltissimo nel corso del tempo, di pari passo con la trasformazione dei miei gusti, del mio linguaggio e della mia estetica. Se all’inizio amavo moltissimo gli artisti della black music, successivamente ho attraversato una lunga fase di devozione nei confronti del jazz che mi ha portato a cercare un suono fortemente idiomatico. Da molti anni a questa parte invece la mia prospettiva sul suono si è aperta ad altri parametri ed estetiche, e il mio ascolto si è spalancato a musiche di vario genere che vanno oltre il jazz contemporaneo, a musiche sia di ambito colto (soprattutto musica rinascimentale e musica contemporanea), che popolare (musica di vari luoghi del mondo, cantautorato di ricerca). Riflettendo, più in generale, credo che il suono in sé sia inscindibile dalla musica e dalla parola proprio perché, in quanto elemento fisico, permea inevitabilmente il loro manifestarsi. Nel corso del Novecento, il suono è diventato in maniera evidente un elemento strutturale della scrittura e della composizione, se si pensa ad esempio agli sviluppi della musica contemporanea, alla musica spettrale, alla musica acusmatica ed elettronica. Credo che oggi non si possa in alcun modo prescindere dal confronto con certa musica che colloca il suono al centro del proprio nascere e divenire, e che ragionare sulla musica in termini di suono – entità fisica precedente al linguaggio – sia premessa necessaria per un percorso di ricerca realmente creativo, libero e sperimentale. Lavorare sul suono in senso compositivo e narrativo significa per me ragionare sul linguaggio scardinando automatismi e cliché espressivi, assumere un punto di vista che prescinde da idiomi specifici e che agisce sulla sostanza del far musica, sulla sua materia viva e primaria. Se nel mondo attuale è facile cadere in soluzioni stereotipate – avendo la possibilità di attingere a qualsiasi tipo di musica ed essendo bombardati di continuo dal suono –, allora può essere complesso avviare una riflessione consapevole per trovare un punto di vista personale. Di contro, la possibilità di attingere ad una molteplicità di musiche diverse e l’opportunità di confrontarsi con prospettive sperimentali e di ricerca apporta agli artisti d’oggi degli stimoli incredibili, tali da incentivare e accelerare la maturazione creativa, la ricerca sul linguaggio, la ricerca artistica anche di carattere scientifico. Viviamo in una fase storica cruciale, fatta di opportunità ma anche di drastiche contraddizioni. In un mondo così articolato e complesso, forse quello che conta è l’approccio del singolo artista al proprio lavoro, il suo rapporto col mondo esterno e col proprio mondo interiore, il grado di apertura verso una prospettiva di ricerca o meno; non esiste un unico modo di fare ricerca, ovviamente, ma credo che a far la differenza sia il grado di consapevolezza dell’artista rispetto ai propri mezzi, rispetto al proprio linguaggio e al proprio suono.

Foto di Massimiliano Milesi
Stiamo assistendo a una straordinaria fioritura di giovani talenti, in Italia: cosa possiamo fare per evitare che rimanga effimera?
Sì, mi sembra che in questo momento ci sia una generazione di giovani creativi di grande spessore e intraprendenza, con idee molto forti. Mi sento parte di questa generazione, sia anagraficamente che dal punto di vista di alcuni spunti di ricerca, ma certamente i rischi sono innanzitutto la dispersione e l’autoreferenzialità: siamo dislocati in luoghi diversi, non sempre interconnessi tra loro, per cui ciascuno vive nel proprio universo, e finisce per essere ancorato al proprio «giro», più o meno ristretto. Questa dinamica è certamente dettata dai tempi, ed è determinata e alimentata da un sistema clientelare che domina la realtà italiana un po’ da sempre. Ecco, in Italia non esiste un luogo preciso che consente di concentrare tutte le forze e di sviluppare una rete ampia e solida. Da un altro punto di vista, proprio questo aspetto di dislocazione rappresenta un elemento peculiare della nostra realtà e un tratto di grande ricchezza: in Italia ci sono tanti musicisti creativi un po’ ovunque, ciascuno dei quali sviluppa la propria ricerca personale radicandosi sul proprio territorio. Di contro alla dispersione, ultimamente emerge anche un certo spirito di coesione, come si vede dalla nascita di nuovi circuiti e di nuove realtà di carattere comunitario. Negli ultimi anni sono nati diversi collettivi legati alla pratica e alla divulgazione della libera improvvisazione: si tratta di gruppi che vogliono aggregare musicisti desiderosi di sperimentare, accomunati da una certa visione della musica e dall’idea di creare rete e quando possibile di fare formazione; basti pensare al collettivo Conserere a Milano e ai Bluering a Bologna, oppure a veri e propri progetti orchestrali come la DOOOM Orchestra in Veneto. Di recente sono nate associazioni volte alla promozione della musica creativa e della multidisciplinarità come il MAC-Modern Art Collective, che opera in Toscana e che riunisce improvvisatori e musicisti di diverse estrazioni (non necessariamente provenienti dal jazz). Esistono poi piccole e preziose rassegne di musica improvvisata come Àltera a Roma, il Now Music Festival organizzato dai Bluering in Toscana, il festival A Love Supreme, le iniziative della veneta Bacàn. E altro ancora. Sono tutte realtà, in parte ancora indipendenti, che nascono dal basso e che sono rappresentative del tessuto creativo del territorio nel quale nascono e operano (per quanto assumano una prospettiva trans-regionale); a mio parere esemplificano una spiccata vivacità artistica e culturale e testimoniano il bisogno comune di creare opportunità, di fare rete, di connettere artisti di varie estrazioni unendo intenti e visioni, in un momento storico di sempre maggiore precarietà. É un fervore che andrebbe protetto, sostenuto, incentivato. Quello che manca è effettivamente un sistema che ci supporti, come del resto è sempre mancato; oggi però siamo sempre di più, e mancano gli spazi per veicolare la nostra musica e realizzare i nostri progetti, perché mancano gli investimenti materiali per sostenerla. Non credo manchino le risorse o le strategie, semplicemente si sceglie di utilizzarle per altro. Mancano più in generale la visione e la mentalità, a differenza di ciò che succede negli altri Paesi europei. Tuttavia, a fronte di una drastica diminuzione dei luoghi fisici dove proporre arte e musica creativa, servirebbe un’inversione di rotta radicale: non perché abbiamo bisogno di un piedistallo, ma perché il fenomeno della musica dal vivo è ormai legata al circuito dei grandi concerti, dei grandi numeri, alle leggi del grande mercato musicale. Ritengo invece che sia importante preservare la ricchezza creativa che la generazione di musicisti di cui faccio parte (insieme ad artisti di altre generazioni) incarna, nella sua prospettiva di ricerca indipendente dall’idea di omologazione e di fidelizzazione ad un establishment preciso. Ovviamente si tratta di un discorso complicato, perché ha a che fare con le politiche culturali attuate nel nostro Paese da tanto tempo, e con un radicato modus operandi. Sicuramente noi artisti, dal canto nostro, possiamo lavorare ulteriormente sullo spirito di coesione. Per quanto possibile, perché in questo momento storico gli spazi operativi sono talmente risicati che si sgomita a vicenda per ritagliarsi una piccola fetta di visibilità o una piccola data in un festival. Però non credo che ci siano altre possibilità: siamo tutti consci che il sistema è limitante, e siamo tutti critici verso quello che succede. Credo che sia comunque fondamentale essere onesti intellettualmente ed artisticamente con noi stessi e continuare a perseguire gli obiettivi della nostra ricerca senza remore. Certamente avere spazio in questa rivista insieme ad altri musicisti della mia generazione è un segno significativo del valore che viene dato al contributo artistico e creativo di tanti giovani musicisti che attualmente operano in Italia. Questa cosa di sicuro rincuora e incoraggia a proseguire, al di là di tutto, oltre le difficoltà.
Vecchi e nuovi progetti?
Tra i progetti registrati in attesa di pubblicazione ci sono due lavori a cui tengo molto, e che non vedo l’ora di ascoltare nella loro forma compiuta: uno è «On the Move», un progetto di improvvisazione che condivido con Michele Bonifati (qui all’elettronica e alla slide guitar) e che è incentrato sulle bellissime poesie dell’autore inglese Michael Rosen, dedicate al tema della migrazione; l’altro si chiama «Monologo Addosso», e mi vede coinvolta insieme alla cantante Maddalena Ghezzi e alla chitarrista Francesca Naibo in un lavoro corale di composizione e improvvisazione su testi poetici dell’autrice Elena Cornaggia; in quest’ultimo progetto abbiamo costruito la musica con il contributo del musicista e produttore Luca Martegani, che ci ha seguito appassionatamente tra le mura del suo studio di registrazione Niton. A febbraio 2025 ci sarà poi l’anteprima di «Raminghe», spettacolo teatrale a cui sto lavorando da diversi mesi e che mi vedrà in scena insieme all’autrice e attrice bergamasca Chiara Donizelli: è uno spettacolo che parla di femminismo e che propone una riflessione sulla diversità e sulle contraddizioni dei nostri tempi, facendo riferimento ai millenials, ai lavoratori del mondo dello spettacolo, agli artisti in generale. È la mia prima esperienza col teatro, dunque sono contenta ed emozionata. Per quanto riguarda la musica, si prospetta la nascita di un progetto italo-berlinese con un paio di musicisti residenti a Berlino, mentre da tempo sto meditando su un progetto per ensemble al confine tra scrittura e improvvisazione dedicato al play poem di Virginia Wolf The Waves: sarebbe la mia prima esperienza con la prosa, ma l’intento è di riprendere un’idea di scrittura per ensemble che avevo elaborato anni fa per la tesi di biennio in Canto Jazz (rispetto alla quale vorrei tuttavia ripensare l’organico e sviluppare maggiormente il tipo di linguaggio).
Che musica ascolti, di solito?
Confesso che negli ultimi anni ascolto quantitativamente un po’ meno musica, rispetto al passato; sento che ogni tanto ho anche bisogno di silenzio, dopo tanto lavoro sul suono: forse perché in questi anni ho coltivato un così grande numero di ascolti che nella fase attuale sento la necessità di rielaborare ciò che ho ascoltato e interiorizzato. Forse anche perché sono in una fase di ridefinizione del mio linguaggio e di riflessione autocosciente sul mio approccio, sul mio intento. Certamente, continuo ad ascoltare tante cose, anche molto diverse tra loro, e gli artisti di riferimento sarebbero davvero molti, da elencare, col rischio immanente di dimenticarne qualcuno. Oltre al jazz contemporaneo, in generale, ascolto musica improvvisata, musica elettro-acustica e musica contemporanea, musicisti sia italiani che stranieri. Tra gli ascolti fatti di recente ci sono ad esempio Sofja Jernberg, Signe Emmeluth, Maja Ratkje, Barbara Togander, l’Electroacustic ensemble di Evan Parker, Elio Martusciello, David Moss + SDENG, John Zorn. Periodicamente riascolto Meredith Monk – fonte inesauribile di ispirazione – mentre nella contemporanea capitano incursioni varie, ad esempio su György Ligeti, Luciano Berio, Steve Reich, Fausto Romitelli, Beat Furrer, Salvatore Sciarrino, così come su musica classica a cavallo tra Ottocento e Novecento e autori di musica antica e rinascimentale. Ogni tanto riascolto gli ultimi dischi che ho registrato, non per vanità, ma per interrogarmi e ragionare su quello che ho fatto finora.
Sandro Cerini