Bang On A Can colpiscono ancora con il loro festival irriverente

Seguiamo il Long Play Festival fin dagli inizi, quando si svolgeva in una maratona di appena ventiquattr’ore, e nell’edizione 2025 siamo arrivati a ben cinquanta concerti in tre giorni!

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Il festival prodotto dall’irriverente, fantasioso e quanto mai eccentrico gruppo di straordinari compositori racchiuso dal nome di Bang on a Can, è ormai una realtà fra le più esaltanti della scena contemporanea. Seguiamo il Long Play fin dagli inizi, quando si svolgeva in una maratona di circa ventiquattro ore al World Trade Center, con la pazienza indotta dalla curiosità di scoprire qualcosa di nuovo e di eccitante nel sempre movimentato panorama musicale americano. Curiosità senz’altro soddisfatta anno dopo anno, anche negli ultimi post-cCvid dove la rassegna ha avuto una bella espansione nella zona culturalmente più stimolante di downtown Brooklyn, quella che si è formata attorno alla BAM, la Brooklyn Academy of Music, centro sempre più vitale per le performing arts, tanto da rivaleggiare e a volte superare certe istituzioni blasonate della sfavillante Manhattan. Non si tratta di «decentramento», sia chiaro, perché Brooklyn ha sempre avuto un orgoglio inattaccabile, anche di fronte a quella che un tempo era la «twin city» al di là dell’East River, il braccio di fiume cavalcato dal famoso ponte e da quelli che lo hanno susseguito. I tre fondatori di Bang on a Can, Julia Wolfe, Michael Gordon e David Lang, perfettamente a conoscenza di questa condizione esistenziale di Brooklyn, forti della loro notorietà, sono dunque riusciti a raccogliere fondi e energie utili per riunire quanto di meglio circola negli ambiti legati all’avanguardia, e quindi dispiegarlo in vari appuntamenti e concerti fra locali e teatri più o meno grandi. Hanno di fatto creato una specie di Big Ears in minore (e chi ci segue in questa rivista sa bene che facciamo riferimento al fantasmagorico festival di Knoxville), solo perché la loro attenzione si è focalizzata fra la musica contemporanea e il jazz, evitando digressioni verso il pop, il rock e il folk, che invece fanno parte dell’altra rassegna del Tennessee. Quest’anno, durante i tre giorni all’inizio di maggio, ci sono stati più di cinquanta concerti in una decina di locations: quindi un balzo in avanti rispetto alle edizioni passate. L’attenzione, com’è forse naturale per un gruppo di compositori nati e cresciuti sotto quell’egida, è sempre incentrata al minimalismo, nelle sue forme più disparate e con le dovute eccezioni. Difatti, proprio le deroghe a quel nucleo stilistico di riferimento hanno costituito i diversi moduli propulsivi per caratterizzare i concerti più belli e culturalmente evoluti di tutto il festival. Le punte di diamante, nella loro eterogeneità, sono state rappresentate dai jazzisti, come Henry Threadgill, Bill Frisell, Mary Halvorson, Thomas Fujiwara, Tomeka Reid, i quali hanno saputo dimostrare ancora una volta che il divario creativo e formale fra le musiche cosiddette di natura classica contemporanea e quelle di matrice jazzistica, si è assottigliato fino al punto da essere del tutto vanificato. Questo, alla fin fine, è stato il punto focale di tutto il Long Play. Lo era, è il caso di riaffermarlo, fin dalle sue origini, ma oggi è diventato ancora più evidente. In quest’ultima edizione, inoltre, uno strumento in particolare ha avuto grande predominanza: la chitarra elettrica, palesando così una sua seconda giovinezza in una dimensione che ne ha arricchito ancora di più le possibilità espressive per via di questi intrecci stilistici. Può sembrare paradossale, ma proprio due compositori del tutto diversi fra loro hanno dato alla chitarra uno spazio di enorme rilevanza nei loro nuovi lavori: parliamo di Henry Threadgill e di Michael Gordon. Threadgill si conferma ancora una volta come un musicista del tutto privo di preconcetti, sempre alla ricerca del rinnovamento e della sperimentazione: il suo nuovo progetto, intitolato Listen Ship, è totalmente inclassificabile dal punto di vista stilistico, e anzi si può dire che con il jazz abbia poco o punto a che fare. Che ciò sia un bene è decretato dal valore della musica proposta: complessa, con intrecci tra gli strumenti al limite esasperato della difficoltà tecnica, ma ricca di una tensione quasi spasmodica, da non lasciare fiato per circa un’ora. I chitarristi erano scelti fra la crème di quelli attivi oggi: Bill Frisell, Miles Okazaki, Brandon Ross e Gregg Belisle-Chi. Con loro sul palco due bassi elettrici, Jerome Harris e Stomu Takeishi, e due pianisti, Maya Keren e Rahul Carlberg. Niente batteria, e Threadgill a dirigere. Listen Ship è stato poi registrato in studio il giorno seguente alla prima del teatro Roulette. Siamo sicuri che ne verrà fuori un’altra pietra miliare nella produzione artistica di Threadgill: probabilmente creerà anche delle divisioni, delle fazioni. Ma non è forse questo il destino di tutti i capolavori? Lo stordimento, la tensione indotta da quest’opera tra chi l’ha potuta ascoltare non han permesso di valutare appieno il concerto seguente, quello della band del trombettista Peter Evans, forte di eccellenti musicisti quali il vibrafonista Joel Ross, il contrabbassista Nick Joz e il batterista Tyshawn Sorey. La musica però è apparsa fin troppo old fashioned, tanto era legata alle modalità del free da sembrare un concerto in club del Village nel 1965. Con Threadgill, solo qualche minuto prima eravamo proiettati nel futuro: non c’era spazio per un ritorno al passato. Ma veniamo all’altro lavoro per chitarre elettriche, l’Amplified di Michael Gordon, presentato al Bric Theater dal quartetto di chitarristi Dither. 

Qui ha dominato, come c’era da aspettarsi, la modalità reiterativa, marchio di fabbrica del minimalismo, quindi niente di più distante da Threadgill, ma l’andamento rigorosamente strutturato dei fraseggi, quindi la loro tessitura perfettamente organizzata si è risolta in un clima allucinatorio, mai stridente e di certo non ipnotico. Un superamento di certe modalità compositive per chitarra che forse potremmo far risalire, come progenitore, al nuovo rock tedesco degli anni sessanta/settanta, però con una maggiore consapevolezza compositiva e privo di tendenze incantatorie, che erano invece tipiche di quegli anni. In fondo, pur nella sua semplicità, ci è apparso come un lavoro di alto ingegno musicale, affascinante e in linea con gli orientamenti attuali legati al chitarrismo elettrico. Più rilassante e piacevolmente rétro è apparso il duo Frisell/Halvorson, con un concerto dedicato a quello che per loro è stato un grande maestro, il chitarrista Johnny Smith, figura leggendaria del jazz mainstream, attivo fin dagli anni Quaranta e morto in tarda età nel 2013. Di Smith i due grandi di oggi, Bill Frisell e Mary Halvorson, sono epigoni per l’eleganza del fraseggio e la deliziosa attenzione alle più recondite sfumature di ogni accordo, con una particolare sensibilità verso l’eco di ogni nota, oltre all’evidente bravura tecnica. Un’esibizione che ci ha riportato a certi valori intrinseci al jazz, giusto per non dimenticarne l’importanza. Invece dai due concerti «monstre»del minimalismo, centrali in tutto il festival sono arrivate delle note dolenti. Da una di queste ci si poteva aspettare l’effetto: si trattava del concertone di Max Richter al teatro del BAM tutto esaurito. Richter ha presentato e condotto due suoi lavori, The Blue Notebooks e In a Landscape: il primo è molto noto, un «classico» della sua produzione, che risale a più di venti anni fa; il secondo è invece recentissimo, del 2024. Richter è universalmente noto e osannato da più parti: erede del minimalismo più ovvio, a noi pare fin troppo sopravvalutato. Il pubblico in visibilio, un sold-out annunciato da vario tempo al BAM, ne ha decretato con entusiasmo il successo, ma chi scrive ritiene che la sua musica, pur nel rigore formale, rimanga vuota, priva di vera profondità, evanescente come bollicine di acqua minerale, non di champagne d’annata. Niente da dire dell’orchestra da lui diretta, l’American Contemporary Music Ensemble, perfetta nell’esecuzione. Ma le due opere sono andate via senza lasciare il segno tra chi le ha ascoltate con la dovuta attenzione. Richter, nella sua austerità tutta teutonica (anche se vive in UK da sempre), che ha voluto stemperare con presentazioni ironiche all’audience americana, è un autore da cartoline musicali leggiadre, ma in fondo soporifere. Un po’ meglio, anche se ci si aspettava qualcosa di più, il concerto dedicato ai 90 anni di Terry Riley (li compirà il 24 giugno). Le aspettative erano certamente molto alte: si presentavano due nuovi arrangiamenti di A Rainbow In a Curved Air e la suite In C, opere capitali per la storia del minimalismo e forse anche per tutta la musica del tardo novecento. Inevitabile, quindi, il tutto esaurito al teatro Pioneer. La band era formata dai Bang on a Can All-Star, più numerosi ospiti, fra cui anche Nicole Mitchell, leggenda vivente del flauto jazz, con la direzione del figlio di Riley, il chitarrista Gyan. Ne sono venuti fuori due lavori diseguali, malamente arrangiati, che hanno privato la musica del suo originale fascino. A Rainbow in Curved Air non meritava un miscuglio di suoni da rock band e il maltrattamento di In C, che a dire il vero sembrava una jam session di ex hippies riuniti dopo decenni, è stato così tedioso da far rimpiangere altre riletture recenti. La musica del Riley di quegli anni, i Sessanta, è un esempio di grande rigore formale, che attraverso il puntuale intreccio di note ripetute si evolve in maniera magistrale, dando profondità al susseguirsi di incastri meticolosi. Se si scardina questa modalità nell’esecuzione non si fa altro che devastarne la trama e rendere l’ordito in un tessuto fiacco, sfilacciato. 

è probabile che il responsabile principale di questa revisione sia stato Gyan Riley, non nuovo a questo tipo di riletture dello stile paterno, poiché tutta la band era formata da musicisti di un livello certamente ineccepibile. A questo punto c’è da dire che ci si è divertiti di più con il redivivo gruppo dei Pyramids e il loro jazz sgangherato e funky, in larga parte mutuato dall’Arkestra di Sun Ra, con la quale condivide anche l’aspetto folkloristico e vagamente psichedelico nei costumi di scena. Certo, in questo caso siamo di fronte a un gruppo di anziani in cerca di esaltazioni giovanili. Ma con che verve! Long Play ha comunque presentato altri notevoli concerti di musica moderna e contemporanea, come una bella rivisitazione delle sonate e degli interludi di John Cage, a opera del pianista Adam Tendler, o di una serie di brani di Iannis Xenakis dell’Ensemble Offspring. E poi le 100 tube della Composition No. 19 di Anthony Braxton riunite all’aperto in clima da pic-nic estivo al Fort Greene Park! Una performance irripetibile nella sua folle dispersività: i cento suonatori di tuba si sono sparsi a gruppi per tutto il parco, creando così un disorientamento visivo e sonoro, che probabilmente ha nuociuto alla musica – certo non semplice per sua natura – ma che ha invece favorito la curiosità e la dimensione festaiola in un festival a volte fin troppo serioso. Infine, le perle della musica odierna, oltre a quelle già citate, sono state quelle degli altri due compositori dei Bang on a Can, Julia Wolfe e David Lang, oltre a Michael Gordon. Della Wolfe una stupenda esecuzione per soli archi di uno dei suoi lavori più celebrati, Cruel Sister, mentre di Lang il suo Darker, per archi e voci, che ha raggiunto livelli sublimi. Da segnalare infine il gruppo Lorelei di sole voci femminili, perfetto come un coro di musica gregoriana, e l’ormai grande violoncellista Tomeka Reid, in particolare con il suo quartetto assieme a Mary Halvorson: probabilmente la performance di puro jazz contemporaneo più affascinante di tutto il festival. Long Play dunque può entusiasmare, tediare o creare interrogativi di difficile risoluzione per le musiche di oggi, ma è certamente una rassegna del tutto indispensabile. Chi viene qui a maggio e non vuole passare le giornate solo al Greenwich Village o a visitare l’Empire State Building è avvisato. 

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