Art Kane: A Great Day In Harlem

di Nicola Gaeta

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Art Kane - Harlem 1958
Art Kane - Harlem 1958

«Art Kane – Harlem 1958»: pubblicato dalla Wall of Sound Editions di Guido Harari, il volume celebrativo dei sessant’anni della più famosa foto del jazz è uscito in due versioni, tra cui una deluxe in sole 200 copie autografate da Benny Golson, Quincy Jones e Jonathan Kane

Il 1958 fu un anno singolare per la musica negli Stati Uniti. Già da qualche anno (almeno un paio) il dj Alan Freed conduceva per la CBS una trasmissione intitolata Rock ’n’ Roll Dance Party in cui il confine tra il jazz e la sua costola di allora – appunto il rock ’n’ roll – era molto sottile. Alan trasmetteva in continuazione un album, «Count Basie Swings, Joe Williams Sings», in cui il rhythm’n’blues degli afroamericani cedeva il passo al rock ’n’ roll. L’orchestra di Count Basie fu spesso protagonista di incisioni archetipe del rock ’n’ roll come la celebre, per quei tempi, Yakety Yak, un grande successo dei Coasters, gruppo vocale molto in voga ai tempi. Già in quei giorni c’era chi parlava di «morte del jazz», una litania che ancora oggi ci viene propinata su più fronti. Non è corretto affermare, come qualche volta si legge sui libri di storia, che in quel periodo il jazz avesse perso la sua battaglia con il rock. Musicisti come Gerry Mulligan, Dave Brubeck, Shorty Rogers, Erroll Garner, Miles Davis, il Modern Jazz Quartet erano all’apice della popolarità. Soltanto un anno dopo, Miles Davis incise «Kind Of Blue», vero e proprio spartiacque di un certo modo di intendere la musica e il jazz. Harlem pulsava di creatività. A ogni angolo di strada si ascoltava una musica che, avendo metabolizzato le conquiste armoniche del bebop, provava a introdurre un’enfasi ritmica più diretta e consistente. Si chiamava hard bop e stava contribuendo ad aumentare la pressione e la temperatura di quelle strade. Fu per questo che Robert Benton, allora editor della rivista Esquire, in seguito noto regista e sceneggiatore, pensò di affidare al giovane art director Art Kane, appassionato di jazz, il compito di documentare con una foto quel fervore. Kane, che coltivava allo stesso modo la passione per il jazz e per la fotografia, maturò un’idea bizzarra: bisognava radunare quanti più jazzisti possibili e immortalarli in uno scatto. A Benton l’idea sembrò folle: i jazzisti erano tipi strani, suonavano di notte e dormivano di giorno, e Kane voleva scattare quella foto alle dieci del mattino. Non si capiva come avrebbe fatto quel giovane art director a concretizzare qualcosa che anche il più scafato dei professionisti avrebbe fatto fatica a realizzare.

Kane convinse Benton a dargli una possibilità e, pur non pensando ancora di fare della fotografia la sua professione, decise di convocare tutti i jazzisti che conosceva all’angolo tra la 17th e la 126th davanti a una «brownstone», una casa in pietra marrone tipica di Harlem. Nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla riuscita di quella idea così bislacca. Certo è che il 12 agosto del 1958, sessant’anni fa, in piena estate iniziarono ad arrivare Coleman Hawkins, Count Basie, Lester Young, Art Blakey, Sonny Rollins, Monk, Dizzy Gillespie, Gerry Mulligan, Johnny Griffin, Gene Krupa. Si presentarono in cinquantotto, anche se nella foto ne sono stati immortalati cinquantasette perché al momento dello scatto Willie «The Lion» Smith si era allontanato per pochi minuti. Art Kane non credeva ai suoi occhi e pensava di sognare, ma quella seduta fotografica si trasformò in una delle feste più bizzarre di Harlem. Non più davanti a un locale notturno, ma in una stradina alle dieci del mattino. Quella foto, A Great Day In Harlem, oltre ad aver dato il via ad Art Kane per diventare uno dei più accreditati fotografi del mondo, è considerata la più celebre foto del jazz e l’anno scorso, nel suo sessantesimo anniversario, è stata celebrata da un libro fotografico pubblicato dalla casa editrice italiana Wall Of Sound Editions di Guido Harari col titolo Art Kane. Harlem 1958. Il libro, che contiene ogni singolo fotogramma di quel servizio (ed è corredato da una serie di altre foto) è curato dal figlio di Art Kane, Jonathan, fotografo e musicista, con le prefazioni di Quincy Jones e Benny Golson. Parliamo di tutto questo con Jonathan Kane.

Harlem 1958
Harlem 1958 (foto di Art Kane)

Com’è nata l’idea di questo libro?
Sono passati quasi sessant’anni dal giorno in cui mio padre Art Kane pubblicò Harlem 1958 o A Great Day In Harlem. Insieme a Guido Harari di Wall of Sound Editions abbiamo deciso che l’occasione era troppo ghiotta per lasciarci sfuggire una profonda immersione all’interno di quella foto che documentasse in maniera dettagliata e, permettetemi di dire, lussuosa tutti i fotogrammi che sono stati scattati quel giorno magico. Art Kane era un tipo schivo, la sua natura, il suo temperamento artistico lo portavano a minimizzare quello che faceva e probabilmente avrebbe considerato la nostra idea quasi un atto di megalomania. Ma le proporzioni mitiche e iconiche che quella fotografia ha assunto nel tempo ci hanno portato a considerare che queste ritrosie devono essere superate. Non si tratta semplicemente di onorare Art Kane. Si tratta di onorare i 58 giganti del jazz che si sono presentati quel giorno a quell’appuntamento e che, con la loro presenza, hanno contribuito a rendere magica quella foto. Questo libro è per tutti loro.

Raccontami la storia di quella foto. Come è riuscito tuo padre a convincere 58 musicisti a farsi fotografare tutti insieme nello stesso giorno?
La rivista Esquire, nelle persone di Harold Hayes e Robert Benton, aveva in mente di progettare qualcosa che testimoniasse l’importanza del jazz in quel periodo negli Stati Uniti. Si parlava di «Golden Age of Jazz». Art Kane, mio padre, lo venne a sapere e decise che per catturare l’attenzione di quella che, all’epoca, era una rivista prestigiosa avrebbe dovuto inventarsi qualcosa di inconsueto. E così gli venne l’idea di assemblare in un unico enorme ritratto fotografico un gruppo abbastanza folto di musicisti di jazz sui gradini di una casa di arenaria a Harlem. L’idea era bizzarra ma audace, al punto da catturare l’attenzione di Esquire. Hayes e Benton accettarono di rendere concreta quell’idea e così si mobilitò tutta la comunità del jazz attraverso un enorme passaparola che vide coinvolte etichette discografiche, agenti, sale sindacali, club. L’altro aspetto folle di quell’idea fu che la foto sarebbe stata scattata alle dieci del mattino. La maggior parte dei musicisti di jazz andava a letto alle prime luci dell’alba, quindi chi poteva sapere se qualcuno si sarebbe presentato? Be’, lo fecero davvero. Si presentarono 58 dei più grandi nomi del jazz.

Quella foto è rimasta storica per due motivi. Innanzitutto il senso della comunità: il jazz vissuto come una famiglia molto allargata. E poi c’è tutta la poesia e la passione di un fotografo per un mondo che oggi sembra stia scomparendo. Che cosa è cambiato da allora? Nel jazz, nella fotografia, nella relazione tra il jazz e la fotografia?
Sì. C’era il senso della comunità, ma non si deve pensare che quello fosse un mondo idilliaco. Tra quei musicisti esistevano comunque delle rivalità. Esistevano allora ed esistono ancora oggi. E voglio riferirmi ad un senso di competizione naturale che in questo mondo è essenziale per sviluppare creatività e arte. Quel giorno si respiravano gioia e cameratismo ma non dobbiamo dimenticare che in quel gruppo c’erano degli artisti cosiddetti «minori» pronti a scappare quando si resero conto che avrebbero dovuto essere fotografati al fianco di grandi star come Count Basie, Dizzy Gillespie, Coleman Hawkins, Lester Young, Thelonious Monk, Charles Mingus e così via. Art Kane era un fan del jazz, questo è certo, ma per quanto fosse eccitato dall’idea di vedere e fotografare tutti insieme i suoi eroi era ancora più entusiasta dell’idea di dare forma a una visione e di rappresentare una massa vivente di umanità, artistica e brillante. La sua idea era quella di rappresentare il fascino di un mondo complesso e comunque sotterraneo. Era questa la sua visione.

Art Kane
Il fotografo Art Kane

Anche il ruolo del fotografo nel mondo del jazz sembra essere cambiato. Una volta i musicisti consideravano il fotografo uno di loro, una figura consueta, familiare. Non credo che oggi sia ancora così. Tu cosa ne pensi?
Art Kane è stato uno di quelli che hanno contribuito a cambiare quel ruolo. E tutto è iniziato proprio con quella foto. Mio padre ha aperto la strada a un nuovo approccio al jazz e successivamente alla fotografia rock: quello del ritratto ambientale concettuale. Si prende un artista al di fuori del suo elemento naturale, un club, una sala da concerto o uno studio di registrazione e lo si inserisce in un’altra dimensione sempre basandosi su quello che quell’artista ha realizzato. Mise Louis Armstrong su una sedia a dondolo nella Death Valley, mise Duke Ellington sul treno A della metropolitana di New York, mise Lester Young in uno specchio distorto. Ha fotografato la valigia vuota del sassofono di Charlie Parker accanto alla sua lapide, le cui dimensioni e forme erano stranamente parallele. Si trattava di gesti interpretativi audaci e personali che, in effetti, tiravano fuori elementi invisibili del carattere dell’artista. Alla fine quello che veniva fuori era qualcosa in cui Art Kane metteva lo zampino. Una firma. Era il qualcosa di Art Kane, non il qualcosa cosa di quell’artista. E questo ha rappresentato un cambiamento epocale nella fotografia.

Tra i musicisti fotografati in Harlem 1958 solo due sono ancora in vita: Benny Golson e Sonny Rollins. Hai mai parlato con loro? Se sì, che ricordo hanno di tuo padre, di quella foto e di quel periodo?
Ho trascorso un periodo meraviglioso con Benny Golson, che parla di quel giorno come qualcosa di molto significativo per lui. Era un momento storico per il jazz e lui fu orgoglioso di farne parte. Disse di aver subito notato questo giovane «schizzato» con una macchina fotografica al collo, che saltava di qua e di là cercando di essere dappertutto nello stesso momento. Il suo atteggiamento gli fece pensare che doveva essere il responsabile di tutta quell’iniziativa. Mio padre gestiva tutto in maniera meticolosa, con un giornale arrotolato a mò di megafono. Un mezzo di fortuna che gli serviva per attirare l’attenzione di tutta quella gente su quelle scale quel giorno.

Nel libro è anche contenuta una tua dedica a tuo padre: una fotografia di gruppo molto recente, realizzata nel Queens. Quali sono i musicisti più importanti che hai avuto modo di fotografare in quello scatto?
Quella foto si intitola A Great Day in Queens e in effetti è un omaggio ad Harlem 1958 di mio padre, ma non ha a che fare con musicisti. Quella foto ha a che fare con il potere e la bellezza della diversità, dell’immigrazione e del multiculturalismo in America com’è appunto rappresentato nel Queens, il posto più etnicamente e culturalmente diverso di tutto il pianeta Terra.
La foto è stata scattata di fronte all’Unisphere di Flushing Park, l’iconico globo gigante della World’s Fair del 1964. Vi sono 137 persone provenienti da 66 paesi, in quella fotografia, orgogliose della loro etnia e nello stesso tempo della loro dimensione di nuovi americani. Ho voluto realizzare un atto d’amore che si contrappone all’odio dell’amministrazione Trump. La testimonianza di qualcosa di visivo che ci ricorda che siamo più forti tutti insieme all’interno di una ricca diaspora culturale che poi è quello che ha sempre fatto sì che l’America diventasse ciò che è oggi. Bella, potente e forte. E la parola d’ordine è diversità.

Tu sei insieme un musicista e un fotografo. Quali sono i musicisti e i fotografi che ti hanno maggiormente influenzato?
Tra i musicisti Muddy Waters, John Coltrane, Steve Reich, Howlin’ Wolf, Glenn Branca, Fela Kuti, Mahmoud Ahmed, Jimi Hendrix, Diamanda Galas, Larry Graham, LaMonte Young, Tony Conrad, Elvin Jones, Keith Moon, Duke Ellington, Chick Webb, Aretha Franklin, Prince… Potrei andare avanti all’infinito. Tra i fotografi Richard Avedon, Irving Penn, Diane Arbus, Duane Michals, Pete Turner, Robert Frank, Henri Cartier-Bresson e ovviamente Art Kane.

Tuo padre nella sua vita non ha fotografato soltanto jazzisti. Ha fotografato icone del rock e lavorato professionalmente nel mondo della moda. Immagino sia stato lui a trasmetterti la passione per la fotografia. Qual è il ricordo più bello che hai di lui?
La ricerca appassionata che ha messo in pratica in tutte le cose che gli sono state commissionate. Studiava e imparava tutto quello che c’era da sapere su un argomento. Era meticolosissimo, passava ore a disegnare prototipi e immaginava, molto prima delle riprese, esattamente tutto quello che aveva da dire con la sua macchina fotografica su quell’argomento. Pianificava in continuazione: location, oggetti di scena, concetti, sempre però lasciando un pò di spazio per l’inaspettato. Ha riso e scherzato per tutta la sua vita, ma quando lavorava era serissimo. Guai in quel momento contraddirlo o intralciarlo. Quando finiva di lavorare tornava a ridere e a scherzare. Era un uomo straordinario.

Qualche anno fa sono stato a Harlem e l’ho trovata completamente cambiata. Meno pericolosa ma anche meno affascinante. Il jazz a New York ormai si è spostato downtown. Qualcuno dice che il jazz stia perdendo il suo appeal. Sta accadendo lo stesso a Harlem?
Il jazz – come il rock, come il blues, il country, la musica classica e persino l’avanguardia – ha un disperato bisogno di rinfrescarsi. Tutta la musica è rimasta bloccata. Ci sono cose interessanti che accadono nell’hip hop, ma in quel mondo il ruolo del computer è esagerato. I veri musicisti devono riprendere il controllo di quello che fanno e trovare un nuova forma di dialogo. Succederà, prima o poi, ma nessuno può dire quando, dove o in quale forma. Nel frattempo Harlem sta cambiando, come tutto il resto di New York. È triste ma è così. Devi solo andare da qualche altra parte. A New York i giovani artisti, i giovani musicisti che cercano di non essere omologati si trovano nel Queens, a Brooklyn, nel Bronx. Le cose nuove stanno ancora accadendo, devi solo sapere dove cercarle.

Nicola Gaeta

[da Musica Jazz, agosto 2019]