Aaron Parks: Little Big III

Il popolare pianista, che da poco ha lasciato gli USA per trasferirsi in Portogallo, torna alla Blue Note e pubblica un nuovo album con una band parzialmente rinnovata

- Advertisement -

Dall’inizio degli anni Novanta in poi gran parte delle cronache ha associato la scena musicale di Seattle, nello Stato di Washington, al grunge e a gruppi come Alice In Chains, Nirvana – in realtà la città di origine di questi ultimi è la vicina Aberdeen, che dista da Seattle poco meno di 200 chilometri – Soundgarden, Pearl Jam o Foo Fighters. Molto spesso si ricorda che Seattle è stata la città che ha dato i natali a Jimi Hendrix ma si dimentica la sua scena jazz che ha avuto nel Penthouse, un jazz club attivo negli anni sessanta (è stato aperto dal 1962 al 1968), un punto di riferimento importante ospitando alcuni dei giganti dell’idioma afro-americano come Miles Davis, Bill Evans, Stan Getz e John Coltrane che nel 1965 vi suonò in sestetto: il suo celebre quartetto, quello con McCoy Tyner, Jimmy Garrison ed Elvin Jones arricchito dalla presenza di Pharoah Sanders al sax tenore e Donald Garrett al clarinetto. Oggi la scena ruota attorno al Jazz Alley e al Tula’s, entrambi collocati nella parte sud della città. E non va dimenticato che Quincy Jones e Ray Charles, pur non essendo nati a Seattle, hanno in quella città iniziato le loro carriere contribuendo a dar lustro alla sua scena jazz che oggi è rappresentata da musicisti che mischiano le carte e contribuiscono a mantenere viva la combinazione tra tradizione e innovazione che caratterizza buona parte del fascino del jazz moderno. Due sono i nomi che bisogna citare a tal proposito: Kassa Overall, batterista e rapper, da noi intervistato su queste pagine qualche tempo fa e Aaron Parks, uno dei pianisti più innovativi del panorama contemporaneo. Aaron, che però ha maturato buona parte della sua professionalità a New York, ha quarantun anni, nel suo passato di studente c’è la computer music, ed è stato un ragazzo prodigio. A sedici anni ha registrato tre dischi con Terence Blanchard, è stato per molto tempo il pianista di riferimento di Kurt Rosenwinkel e suona con Joshua Redman nel quartetto James Farm, completato da Matt Penman al contrabbasso e Eric Harland alla batteria. Ha partecipato alla realizzazione di colonne sonore di alcuni film di Spike Lee e ha finora inciso dieci dischi, l’ultimo dei quali «Little Big III» in quartetto con Greg Tuohey alla chitarra, David Ginyard Jr .al basso elettrico e Jongkuk Kim alla batteria è uscito di recente per la Blue Note ed è il motivo per cui lo intervistiamo. In questo momento Aaron Parks vive in Portogallo.

«Little Big III» è il tuo secondo lavoro inciso per la Blue Note. Parlami della sua genesi: tu ha già registrato due dischi con questo titolo, entrambi incisi per la Ropeadope. Probabilmente c’è una visione, un progetto…

Di recente con questa band ho cercato di realizzare un collegamento tra i diversi generi musicali che amiamo e che ci hanno influenzato, cercando di fonderli assieme. E con questo termine non intendo guardare al passato, a un genere musicale che non esiste più, con questa definizione voglio riferirmi a qualcosa che si fonde intimamente con un’altra, qualcosa di integrato e non di posticcio come se fosse un minestrone che utilizza vari ingredienti più o meno alla rinfusa. Il mio è un tentativo proiettato verso la crescita. Qualcosa che prendendo spunto dall’immaginario personale di ognuno di noi riesca a creare un progetto compatto. Ci sono delle cose che puoi concepire come rock oppure provenienti dalla musica elettronica – che poi fanno parte dei nostri riferimenti musicali – sulle quali ci permettiamo di sovrapporre le nostre improvvisazioni. Speriamo di aver dato un senso a tutto questo.

Parlami dei musicisti che suonano con te in questo progetto. Sono gli stessi di «Little Big» e «Little Big II» con l’eccezione del batterista. C’è Jongkuk Kim al posto di Tommy Crane. 

Sì, abbiamo un nuovo batterista, un musicista brillante, creativo, molto energico, uno di quelli che riesce a rappresentare alla perfezione il groove che poi è lo scheletro dei brani che compongono il disco. Il suo modo di suonare mi fa sentire vivo, fa esplodere la mia creatività. David Ginyard Jr. è un bassista molto speciale, può suonare tutto ciò che vuole, ha molta dimestichezza con il suo strumento ma mette tutto al servizio della musica che, grazie a lui, diventa più interessante. Questa è una band alla quale tengo molto soprattutto perché il suo focus è orientato fortemente verso l’emotività e anche verso una fisicità e una visceralità molto presente, tutti aspetti che David riesce sempre a rappresentare. Il suo è un suono estremamente ballabile. E poi c’è Greg: negli anni Novanta suonava con Mark Turner, totalmente immerso nella scena musicale di New York dell’epoca, è il punto di congiunzione tra tutti noi. Era un jazzista che a un certo punto ha avuto un burnout per il jazz e si è messo a suonare rock nei bar per cercare altre fonti di ispirazione. Per me è unico, il suo modo di far sentire la melodia è straordinario, è come se ti facesse vedere il brano che sta suonando. 

Aaron Parks Little Big

Vivi ancora a New York? 

No adesso vivo a Lisbona, mi ci sono trasferito dall’inizio di quest’anno, anche se continuo a mantenere rapporti musicali con New York.

Tu forse non lo ricorderai, ma noi ci siamo già incontrati a Brooklyn nel Cobble Hill Park, più di dieci anni fa. Che succede a New York in questo momento dal punto di vista musicale? La pandemia ha avuto un’influenza negativa sulla musica oppure no?

Ah, non ricordavo proprio di averti incontrato! Certo, la pandemia ha avuto effetti negativi un po’ dappertutto, quindi anche a New York. Molti come me se ne sono andati. È stata proprio la pandemia a farmi decidere con la mia famiglia di spostarmi, prima fuori New York e poi dall’inizio di quest’anno qui in Portogallo. Devo molto a New York, ha significato molto per me, ma sento che continuare a viverci può ledere in qualche modo la mia salute mentale, specialmente adesso che ho due figli piccoli. Dal punto di vista economico poi non ne parliamo, i costi sono aumentati in maniera vertiginosa. Devi solo lavorare per sopravvivere e non hai neanche più il tempo di incontrare altri musicisti per creare qualcosa. Ovviamente il suo fascino rimane inalterato ma è un fascino più mentale che fisico, perché quando sei a New York il livello di immersione nella routine lavorativa è così forte che non riesci a godere niente di quella città. Meglio andarci ogni tanto per le vacanze.

E invece come trovi la scena musicale di Lisbona?

Molto interessante. Ho conosciuto degli ottimi musicisti e mi entusiasma molto l’idea di integrarmi sempre di più con loro. E poi l’Europa per noi americani ha un fascino particolare. Io spero di collaborare sempre più spesso con musicisti europei. Del resto adesso ci sono tantissimi musicisti americani che si sono trasferiti qui in Europa, in particolare bassisti, Michael Formanek, Brad Jones, Drew Gress e molti altri.

Che cosa significa «successo» per un musicista jazz? 

Questa è una domanda molto interessante. Io penso che se trovi un modo per sostenere te stesso e la tua famiglia hai raggiunto il tuo obiettivo, soprattutto se in tutto questo riesci a mantenere inalterato il tuo amore per la musica.

I soldi sono importanti?

Nessuno di noi ha iniziato questa carriera per soldi e se qualcuno l’ha fatto è rimasto molto deluso. Se riesci a raggiungere una certa stabilità economica sei a posto. Io non ho ancora ben capito che cos’è il successo, anche perché quello che appare all’esterno non sempre, anzi quasi mai, corrisponde a quello che accade davvero. E poi, come ci ha mostrato la pandemia, tutto quello che hai costruito può franare immediatamente, senza che neanche tu te ne renda conto. Per me il successo come musicista è riuscire a sopravvivere, a pagare le bollette, forse anche a risparmiare qualcosa. Non so quanti di noi abbiano l’obiettivo di andare in pensione, non credo sia qualcosa che ci possiamo davvero permettere. Ma, per quel che mi riguarda questo è anche una parte del fascino del fare il musicista e uno dei motivi per cui continuo a farlo. La mia idea è quella di fare musica per tutta la vita. Il successo è quindi per me un punto di equilibrio, in cui l’amore per la musica riesce a convivere con le esigenze di sopravvivenza di un uomo qualsiasi che fa il musicista.

Parlami delle tue principali influenze musicali, come pianista e come compositore…

Come pianista ho studiato tutti i più grandi, anche se sono tentato di citare tra le mie influenze quelli meno conosciuti. Ma, se devo essere sincero, una delle più grandi influenze per me è stata quella di Keith Jarrett. È stato il primo che ho visto suonare dal vivo, avevo undici anni. Poi mi piace Shirley Horn, il suo modo di suonare, il suo tono, il suo senso del ritmo, McCoy Tyner, anche se magari da come suono io non sembra, e potrei fare una lista infinita… Danilo Pérez, c’è qualcosa nel suo modo di suonare, così profondo… «Sento» ogni nota che suona. E poi devo dirti che buona parte dei musicisti che mi hanno influenzato non sono pianisti…

Aaron Parks

Fammi dei nomi, allora.

Lester Young, amo il suo fraseggio. Yusef Lateef, Thom Yorke dei Radiohead, ovviamente Miles, Joao Gilberto, Charlie Parker… tutti poeti e killers allo stesso tempo.

Tra i compositori?

Difficile rispondere… 

Kurt Rosenwinkel? 

Sì, con lui, come sai, ho suonato per molti anni. È stato un mentore importante per me. C’è qualcosa nella sua musica, un senso di chiarezza, un mood che rappresenta molto per me. Come compositori – dimenticavo – devo citare Wayne Shorter e Kenny Wheeler. I compositori che hanno influenza su di me mettono insieme intuizione e razionalità.

La tua connessione con altri tipi di musica, per esempio l’hip-hop, la musica classica, il rock: tu vieni da Seattle, la patria del grunge… 

Sono cresciuto a nord di Seattle ma da bambino ascoltavo prevalentemente pianisti jazz. In realtà non sapevo granché di quello che accadeva musicalmente dalle mie parti, l’ho scoperto più tardi e comunque il rock non mi piaceva. Poi a diciotto anni o giù di lì, poiché molte delle ragazze che frequentavo ascoltavano rock, ho iniziato ad ascoltarlo anch’io… (sorride)

Quando ci siamo incontrati a New York mi parlavi dei Grizzly Bear…

Sì, dieci anni fa il bassista e uno dei produttori di quella band, Chris Taylor, mi aiutò a mixare il mio secondo album ed è stato un punto di riferimento in quel periodo. Grizzly Bear è stato un gruppo che ho amato.

Ti piace leggere?

Assolutamente sì. 

Quali sono gli scrittori che ti piacciono o ti sono piaciuti di più?

Il titolo del mio disco viene da uno dei miei autori preferiti, John Crowley, che ha scritto un libro che si intitola Little Big. Ho sempre amato quei libri la cui trama parla di un mondo interiore rappresentando anche un mondo immaginario. Amo Calvino, Borges per i suoi racconti, ho appena finito di leggere un libro di Ryuzo Saki, uno scrittore giapponese. È molto difficile dire quali siano i miei scrittori preferiti…

Una volta mi hai detto che ti piaceva Yasunari Kawabata… 

È vero… Hai fatto bene a ricordarmelo. In quest’ultimo periodo, poi, ho scoperto Richard Powell che ha scritto un libro intitolato The Overstory: lo trovo molto interessante.

- Advertisement -

Iscriviti alla nostra newsletter

Iscriviti subito alla nostra newsletter per ricevere le ultime notizie sul JAZZ internazionale

Autorizzo il trattamento dei miei dati personali (ai sensi dell'art. 7 del GDPR 2016/679 e della normativa nazionale vigente).

Articoli correlati

NELS CLINE «Consentrik Quartet»

AUTORE Nels Cline TITOLO DEL DISCO «Consentrik Quartet» ETICHETTA Blue Note Records ______________________________________________________________ Le molteplici e mature attitudini di Cline, musicista marchiato a fuoco da un eclettismo fuori dal comune, formano...

Joe Lovano: la direzione artistica di Bergamo Jazz e il nuovo «Hommage»

A distanza di un anno dall’ultima volta, torniamo a intervistare il sassofonista di Cleveland. Questa volta abbiamo parlato della sua esperienza come direttore artistico...

Musica Jazz di dicembre 2024 è in edicola

Musica Jazz di dicembre 2024 è in edicola: copertina su Quincy Jones e poi Aaron Parks , Anja Lechner, Chiara Bertelli, Evan Parker, Francesco Cigana, Julian Mazzariello, Lou Reed, Luca Perciballi, Mauro Malavasi, Samara Joy, Sean Bergin, Sérgio Mendes, Thelonious Monk... E molti altri ancora!