Intervista a Jany McPherson

di Amalia Mancini

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Dalla matrice ritmica di Cuba alla sintassi del jazz contemporaneo. La pianista e cantante di Guantánamo racconta il suo percorso artistico, la collaborazione con John McLaughlin e la ricerca timbrica alla base di «A Long Way», in un’intervista esclusiva realizzata nella quiete della Sala Petrassi presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma.

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Dopo il sold out del concerto del 22 novembre al Ladbroke di Londra, nell’ambito dell’EFG London Jazz Festival, come ha vissuto quella serata?
È stata una serata sorprendente. Anche se non parlo perfettamente inglese, quando canto entro in un’altra dimensione; la voce trova spontaneamente il proprio placement e il pubblico lo percepisce immediatamente. Avevo preparato alcuni appunti per raccontare la genesi dei brani, una sorta di guida all’ascolto, e questo ha creato un contatto diretto e autentico con la sala. Ho avuto una grande accoglienza e il lungo applauso finale ha rappresentato un momento di vera interazione emotiva tra me e il pubblico.

Durante i concerti racconta la storia dei brani. Perché sente il bisogno di farlo?
Per me la narrazione è parte integrante della musica. Raccontare le storie significa aprire un varco, invitare il pubblico dentro il mio processo creativo. Quando condivido un contesto cambia anche il modo in cui le persone percepiscono i voicings, le dinamiche, la costruzione della melodia. L’ascolto diventa più profondo. E io, sul palco, mi sento meno sola perché l’improvvisazione nasce in dialogo con il pubblico.

Qual è l’anima della sua musica? E quanto della sua Cuba vive nel suo modo di esprimersi musicalmente?
Porto soprattutto il ritmo, quella matrice percussiva che è parte della mia identità. È un ritmo che ritorna negli schemi che utilizzo come base dell’improvvisazione, in alcune sovrapposizioni ritmiche che emergono spontaneamente quando suono. La melodia, invece, arriva da un luogo misterioso. Io mi sento un ricettore, ricevo idee armoniche e linee melodiche e cerco di dar loro una forma coerente. Nel mondo reale il diritto d’autore è fondamentale, certo. Ma interiormente so che esiste una sorgente più grande, uno spazio in cui le idee musicali fluttuano liberamente. Io le accolgo, le organizzo, le trasformo in narrazione sonora.

Le sue influenze spaziano dal jazz classico ai ritmi caraibici, dal Songo alla musica cubana anni Quaranta, fino ad arrivare alla canzone italiana. Come convivono nel suo linguaggio?
Sono cresciuta immersa nella musica cubana, perché era quella che si ascoltava di più intorno a me. Ma allo stesso tempo ho avuto una forte educazione emotiva attraverso le telenovelas brasiliane, con le loro colonne sonore, da Chico Buarque, Caetano Veloso, a Ivan Lins. Quella scrittura melodica, così naturale e cantabile, è entrata molto presto dentro di me. La mia formazione classica mi ha dato una struttura, ma il ritmo caraibico resta centrale, in me convivono le suggestioni del songo innestate su forme cantabili vicine al bolero e alla tradizione della musica cubana degli anni Quaranta. Poi ci sono stati i grandi del jazz vocale americano, Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Billie Holiday, che mi hanno insegnato cose fondamentali come la libertà del fraseggio e il modo di vivere una melodia. Quando sono arrivata in Europa ho scoperto Pino Daniele, che per me è stato enorme, e Mina, che adoro profondamente. Hanno influenzato il mio rapporto con la parola e con il canto. Sono cresciuta con influenze molto diverse, provenienti da orizzonti lontani, e oggi tutto questo convive naturalmente nella mia musica.

La sua lunga collaborazione con John McLaughlin ha segnato una fase importante del suo percorso. Qual è l’insegnamento più grande che le ha lasciato?
Con John ogni giorno è un laboratorio. Il suo modo di pensare la musica, la libertà con cui affronta il ritmo, il rigore con cui costruisce il discorso musicale; stare accanto a lui significa imparare continuamente. Ma l’insegnamento più prezioso riguarda l’essenza. Mi ha detto: «Devi suonare la tua anima, non la copia di qualcun altro». Mi ha insegnato il valore della semplicità. È un principio che vale nella musica come nella vita. Non servono virtuosismi gratuiti, serve autenticità. Suonare per ciò che si è, con il proprio suono. È qualcosa che porto con me ogni volta che salgo su un palco.
Amelia Mancini

Fotografie di Fabrizio Sodani

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