«I Was Born Irregular». Intervista a Marta Sollima

Album d’esordio per la cantante, compositrice e autrice palermitana. Una prova d’autore di pregio con illustri ospiti.

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Marta, partirei dalle basi: com’è nato il tuo rapporto con la musica e quale ruolo ha avuto Palermo nella costruzione della tua identità artistica?
Ho iniziato a scrivere testi e musiche in età pre-adolescenziale, tra gli undici e i dodici anni; il mio rapporto con la musica è stato di tipo istintuale, potrei dire «salvifico», legato certamente alle difficoltà che può vivere una persona nel periodo di transizione – spesso caotico – tra l’infanzia e l’adolescenza.
Palermo è stata per me una fonte di stimolo per le sue anomalie, le sue «storture»; per il profondo fascino delle sue strade, dei suoi colori, delle sue disparate architetture, del suo spirito informale, della sua decadenza che, se da un lato mi affascinava, dall’altro provocava in me un senso di disagio. Tuttavia non mi riferisco mai a Palermo e alle sue problematiche nei miei testi: credo mi abbia influenzato velatamente e di averla rielaborata a mio modo.

Ad un certo punto, però, ti sei trasferita a Milano e qui hai studiato privatamente armonia con il compositore Marco Tutino. Da ciò, deduco che il jazz non è entrato subito a pieno titolo nelle tue abitudini musicali. Mi sbaglio?
È così. In realtà non ho mai prediletto nessun genere musicale specifico: gli ascolti che mi hanno stimolato e che mi hanno formato sono del tutto eterogenei e spaziano dal jazz alla classica, passando per la musica contemporanea, il cantautorato e la poesia legati alla Beat Generation e per il pop sperimentale di Bjork.
È stato soprattutto a Palermo che ho potuto conoscere più da vicino il jazz, studiando tecnica vocale, repertorio jazz e armonia al Brass Group con Lucy Garsia, Gaetano Riccobono e Giuseppe Vasapolli.

La tua formazione classica – che avevi già forgiato a Palermo studiando anche con Marco Betta – e, in particolare, contemporanea, si ascolta nella tua musica: una musica ricca di inflessioni diverse. Quando componi quali sono i tuoi punti di partenza e di riferimento?
Quando compongo è l’istinto a guidarmi: nell’atto della scrittura – sia dei testi sia delle musiche – mi è necessario «liberarmi» di qualsiasi tipo di consapevolezza o di informazione.
Ho necessità di sentirmi a contatto con il lato più selvaggio,  ancestrale e catartico di me; nel mentre mi illudo di liberarmi temporaneamente di ogni riferimento culturale.
In realtà gli ascolti musicali – ma anche gli stimoli visivi – che coltivo mi fanno certamente da guida e sono un’indiretta fonte di ispirazione per me.
Un riferimento è la stagione del progressive rock degli anni Settanta (ma non escludo anche i musicisti odierni di tale ispirazione), che per via del suo stile eterogeneo mi trasmette un senso di libertà espressiva potentissima.

Il titolo dell’album, «I Was Born Irregular», è molto forte. Cosa significa per te «irregolare»?
Questa frase è tratta dal refrain di un mio brano che tuttavia ho scelto di non includere in quest’album. Il concetto dell’irregolarità lo sento, però, talmente rappresentativo ed emblematico della mia personalità e della storia di questo lavoro che ho scelto di utilizzarlo come titolo del mio primo biglietto da visita, per così dire, musicale.
Quest’album attraversa il tempo: quando ho iniziato a scrivere i brani sentivo addosso il peso dell’ «irregolarità» e della stranezza, un peso che forse proveniva da una dimensione temporale più lontana, forse da sempre. Infatti non era comune tra i miei coetanei, a scuola, che si individuasse nella creazione musicale uno strumento prezioso, segreto e non giudicante con cui sublimare la crisi adolescenziale. La musica ha rivestito in me un ruolo profondamente curativo.

L’album sembra raccontare un dialogo costante tra luce e ombra. Ho letto che sono brani che hai scritto alcuni anni orsono, quando eri un’adolescente e poco oltre. Li hai lasciati intatti come allora, oppure hai apportato delle modifiche?
Ho scelto di lasciare i brani per come la Marta di allora li aveva concepiti, anche nel segno di una re-interpretazione di me stessa.
Cantando quei miei lavori ho dovuto apportare qualche modifica: ad esempio in As a Midnight Bird (in a Nightmare) ho dovuto trasporre il «refrain A» all’ottava bassa, perché negli ultimi anni la mia voce ha fisiologicamente subito delle modifiche rispetto all’adolescenza. Altri piccoli interventi, ma del tutto rispettosi dell’impianto originario dei brani, provengono dagli arrangiamenti realizzati da mio padre, Giovanni.

Se hai inteso proporre dei brani del tuo passato, significa che li hai trovato attuali anche per il tuo presente di musicista. C’è qualcosa che è cambiato nella tua visione della musica?
Tutti i brani che ho raccolto finora (anche altri non inclusi nell’album) provengono dalla fase adolescenziale che ho vissuto.  Ancora oggi, a trent’anni, mi riconosco in quei pezzi e sento di non essere cambiata artisticamente. Semmai sono aperta a nuovi influssi e a nuove direzioni, ma in modo coerente rispetto a ciò che ho scritto.

Come si legge nella presentazione stampa del tuo disco, ci sono influenze che vanno da Björk ai Gentle Giant, passando per i Genesis e Patti Smith. Mi sembra che non siano proprio degli ascolti da adolescenti del terzo millennio. Chi ti ha suggerito l’ascolto di questa musica?
Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente stimolante: molti di questi nomi li ho conosciuti ascoltando musica con mio padre o comunque in casa. Una delle attività che ho sempre amato è ascoltare la musica con lui perché sa raccontarmela, sa contestualizzarla. Poi, quando ripartiva e stava lunghi periodi in tour, facevo ricerche e approfondimenti da sola. E scrivevo i miei pezzi.

Qual è il plot del video del singolo Remembering Sadness e perché hai scelto proprio questo brano?
Il video di Remembering Sadness lo definisco «astratto», sebbene compaiano due donne e i luoghi abbiano un’identità piuttosto forte. Poiché il testo della canzone, scritto quando avevo dodici anni, è altrettanto astratto e non-sense, mi era difficile pensare ad una trama specifica o ad uno script per il video. Se penso ad evocazioni e a  suggestioni, mi vengono in mente la solitudine e l’incontro tra due superstiti in luoghi desertici, struggenti e distrutti dal terremoto. Ricordare la tristezza… La scelta del singolo è stata complessa: siccome i brani sono nati in un arco temporale esteso e hanno pertanto caratteristiche diverse, ammetto di non essere riuscita ad individuare il pezzo più rappresentativo tra tutti. Per la sua struttura direi spartana e martellante ho riconosciuto in Remembering Sadness, il brano più antico, un possibile gancio. In più aveva due elementi abbastanza ricorrenti nell’album: la malinconia eterea e un po’ di aggressività.

Con te in questo disco d’esordio troviamo un nutrito gruppo di musicisti, che penso sarà difficile cooptare anche per i live. Hai già in mente un piano sostitutivo?
Ci sto ragionando: questi brani in studio hanno previsto sia la partecipazione di tanti musicisti sia voci in overdubbing. Ma si può certamente trovare una strada – magari con un organico ristretto e l’ausilio di campionamenti – che non snaturi gli arrangiamenti e le atmosfere.

Il suono dell’album è intimo ma anche molto curato, con sfumature elettroniche e cinematiche. Come hai trovato questo equilibrio?
È stato possibile grazie all’affinità e al rapporto profondamente rispettoso instauratosi tra me, il batterista Giovanni Giorgi, che ha contribuito anche con alcuni interventi di elettronica, e mio padre come arrangiatore. Trattandosi di pezzi fortemente autobiografici, caratterizzati da testi astratti, fondati su immagini piuttosto che su storie, era molto importante che Giovanni Giorgi e mio padre entrassero nell’intimità del progetto creando atmosfere un po’ cinematografiche e che seguissero quasi come un film la storia di una giovane donna. Sono veramente felice della loro interpretazione.

E’ questa la musica che meglio ti rappresenta ora?
Sì, questi brani sono la mia carta d’identità.

Quale canzone ti ha messo più alla prova emotivamente? E tecnicamente?
La traccia d’apertura, As a Midnight Bird (in a Nightmare): qui sono presenti varie tracce in overdubbing, vi sono cambi di tempo, e soprattutto ha una malinconia che, un po’ come l’ultima traccia del disco, caratterizza la mia persona, ma che al contempo non volevo affrontare.

Marta Sollima

Quanto conta per te la dimensione visiva — video, estetica, immaginario — nel racconto delle tue canzoni?
Moltissimo, infatti ho fatto studi d’arte, diplomandomi all’Accademia di Brera e alla NABA per coltivare e approfondire la cultura visuale.
Nel corso degli anni mi ha stimolato tanto anche il cinema: in questi brani sento di aver messo di tutto, dal mio vissuto ai miei ascolti, passando per i film che ho visto e che ho amato (di Kubrick, Antonioni, etc). Forse è per questo che i testi che scrivo evocano immagini piuttosto che narrazioni…

C’è un luogo di Palermo che è particolarmente legato alla nascita di «I Was Born Irregular»?
Ce ne sono diversi – della Sicilia – e sono i luoghi che ho frequentato: Villa Garibaldi a Piazza Marina, Piazza Verdi, più in generale il centro storico di Palermo. E le campagne giallo-verdi intorno a Menfi (Agrigento).

Quanto influisce sulla tua personalità artistica la presenza di tuo padre?
La grande curiosità di mio padre verso le tante forme musicali, le diverse culture del mondo, e più in generale per il concetto di sperimentazione, è una fortissima fonte di ispirazione per me: sono stata io a chiedergli di arrangiare i miei pezzi tra un aereo e l’altro! Mi fido ciecamente del suo gusto e delle sue intuizioni musicali, e mi sono sentita profondamente rispettata e capita quando mi ha fatto ascoltare gli arrangiamenti dei miei pezzi.

Qual è il tuo rapporto con i social e con le piattaforme streaming?
Negli ultimi tempi avevo disattivato i miei profili social personali, sentivo di volermi prendere una pausa e di voler vivere stimoli e relazioni esclusivamente reali. Però ne riconosco le forti potenzialità promozionali e comunicative, ed è per questo che oggi li utilizzo per raccontare del mio album.
Le piattaforme streaming costituiscono un forte limite per un artista; con piacevole stupore mi accorgo però di una nicchia di giovani che acquista dischi in vinile, che sono certamente più affascinanti e concreti rispetto alle piattaforme e aumentano il valore artistico di un progetto musicale…

Ho avuto modo anche di apprezzare i tuoi scritti, prevalentemente in qualità di critico cinematografico. Come nasce questa tua passione?
Sempre intorno ai dodici anni ho iniziato a coltivare, parallelamente alla musica, il bisogno quasi famelico di guardare film: occidentali, indiani, cinesi, e di ascoltare le loro colonne sonore.  Ricordo bene quanto mi colpirono, ad esempio, le musiche di Santoalalla di Babel. Adoro la combinazione di musica e immagini.

Qual è la frase o l’immagine che più rappresenta Marta Sollima oggi?
Penso che mi rappresenti l’immagine di una donna di trent’anni che per la prima volta mostra un documento con il proprio nome e il proprio volto ad una frontiera.

Se potessi dare dei consigli alla Marta adolescente, quella che ha iniziato a fare musica, cosa le diresti?
Le consiglierei di avere meno pudore ad esporsi con le proprie musiche. Andava bene considerarle come un diario segreto a cui raccontarsi ma ciò non doveva precludere il fatto di presentarsi per quello che Marta era realmente: quei pezzi sono la mia carta d’identità oggi e lo erano già al tempo.

Quali sono i tuoi obiettivi e i tuoi prossimi impegni?
Al momento sono focalizzata sulla promozione di «I Was Born Irregular».
Ho in programma, poi, di lavorare ad un secondo album con una raccolta più cospicua di brani, con nuove collaborazioni, e ad un altro videoclip che ho già in mente.
Penso che chiederò a mio padre di arrangiare i pezzi anche questa volta, perché non c’è cosa più bella di sentirsi capiti.
Alceste Ayroldi

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