«Songs for Two». Intervista a Ida Landsberg

La cantante e compositrice berlinese, ma residente in Toscana, pubblica un nuovo album, questa volta in duo con il pianista Domenico Sanna. Ne parliamo con lei.

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Buongiorno Ida, partiamo dal suo sodalizio con Domenico Sanna e, quindi, l’album «Songs for Two». Quando e come è iniziata questa collaborazione?
La collaborazione è nata nel 2019 in occasione della registrazione del mio disco «Jazz Sessions». Domenico mi è stato presentato dal sassofonista Marco Guidolotti e ho percepito immediatamente un’affinità musicale che fino a quel momento non avevo mai sperimentato.

Un disco che vede sedici brani in scaletta. Avete scelto i brani in base a un criterio?
Ho scelto dei brani che ancora non avevo interpretato in pubblico o registrato, in modo che preservassero per me una sorta di «freschezza» di interpretazione. Brani che non fossero ancora modificati emotivamente dalla routine e che avessero qualcosa da dirmi e viceversa. Il criterio principale è stata la bellezza dei temi e delle armonie, perciò semplicemente il gusto personale.

C’è un filo rosso tematico che li unisce?
Il fil rouge in realtà l’ho notato solo dopo la scelta dei brani: ciò che li unisce è senza dubbio la relazione amorosa declinata nella moltitudine dei suoi sentimenti. Non solo l’amore romantico, ma anche la delusione, la sofferenza, la tentazione, il sogno e la gelosia. Da lì derivano anche i vari mood presenti in questo album che alterna fast, medium e ballad in maniera abbastanza equilibrata.

Ida, c’è sempre bisogno di ricordare il passato con gli standard?
Una bellissima domanda che tocca nel cuore tutto il genere musicale del jazz. Ce n’è veramente bisogno? I jazz standard vengono studiati da tutti i jazzisti e sono posseduti da loro come una sorta di linguaggio acquisito: è l’abc del musicista, il suo personale alfabeto che riesce ad annullare tutte le barriere linguistiche e a superare le differenze culturali. E’ la base della nostra conoscenza musicale che ci permette di comunicare in maniera istantanea. Una cultura di «brani codificati» che viene difesa, in maniera spesso anche troppo rigida, basandosi solamente sul cosiddetto Real Book originale. Il Real Book per molti sembra diventata una sorta di bibbia del jazz che al giudizio di alcuni va salvaguardata come se fosse un Santo Graal intoccabile e non modificabile. Dico questo con un po’ di ironia, perché il Real Book in realtà non è nato proprio come une canone del giusto o sbagliato, del dentro o fuori, ma come un libro pratico creato dagli studenti del Berklee College of Music per riuscire a suonare in maniera più efficace questi brani in club o nelle jam session, non per dividere il jazz in brani di serie A e di serie B.
Per tornare alla domanda: sì, credo proprio che questo glorioso passato debba essere ricordato, ma non perché questi brani sono contenuti o meno in dei volumi musicali normativi e obbligatori per la formazione jazzistica, ma semplicemente perché sono delle opere davvero eccezionali con dei temi e delle strutture armoniche che difficilmente nei nostri tempi possono trovare dei simili. Come i grandi classici della letteratura o dell’arte, le grandi opere si distinguono per non avere una collocazione temporale, una scadenza storica, ma per essere e rimanere validi e attuali sempre, attraverso le epoche. Perché avranno sempre da dire qualcosa e credo che i brani compresi nell’album «Songs for Two» facciano parte di questi brani eterni. I musicisti che interpretano i brani classici o gli standard ogni volta gli danno una nuova vita, aggiungono un nuovo aspetto, una visione tutta individuale rendendoli più completi. Similmente alle monadi di Leibniz: i brani entrano nel tuo mondo e rinascono attraverso i tuoi occhi e la tua anima. Attraverso il tuo background culturale e musicale. Le opere di Bach o Mozart, di Débussy o Gounod, di Prokofiev, Gershwin, Ellington o Porter potranno mai essere superate o obsolete? Brani come quelli dei Beatles, di Gino Paoli, Burt Bacharach o Ennio Morricone potranno mai essere fuori moda? E’ musica che è stata scritta in un preciso momento ma che sembra essere esistita da sempre. Musica che è già stata scritta prima che fosse scritta. Per me queste opere eterne raggiungono quasi un significato religioso, un momento di trascendenza. E di certo anche nel jazz non mi limiterei al mero canone del Real Book, perché il jazz non è un genere, ma un’attitudine – come mi ha saggiamente insegnato il pianista Valerio Silvestro.

Ha sempre lavorato con formazioni per così dire nutrite: dal trio a combo più numerosi. Come mai ha voluto optare per questa scelta cameristica?
Dopo la registrazione dell’album «Jazz Sessions» ho desiderato fortemente scegliere una forma più  intima per esprimermi e per dare anche maggior spazio al pianista eccezionale che è Domenico Sanna: volevo sentire di più della sua musica. E in genere mi piacciono molto le piccole formazioni acustiche, in particolare adoro i «Complete Piano Duets» di Ella Fitzgerald – l’unica, inequiparabile e immensa Ella. Infatti ho incluso nell’album anche due brani che lei ha cantato in duo: Looking for a Boy e Maybe.
Il duo è una forma molto difficile perché non c’è modo per nascondersi dietro ad altri strumenti, a tappeti sonori, non ci sono ritmi dettati dalla batteria, strutture obbligate, spazi ristretti e ben definiti. C’è solo un grande spazio vuoto che va riempito con voce e piano. Ma proprio per questo motivo è anche così stimolante, perché mette al centro il dialogo e l’interconnessione. Uno dipende completamente dall’altro. Serve grande fiducia, oltre a un’intesa senza la quale non si va da nessuna parte.

Ho letto che l’album è stato registrato nello studio 2F Recordings in una sessione live in studio, solo voce e piano. Quali sono state le sfide principali di registrare in questo formato così essenziale?
Sì, è vero. La session si è svolta nello studio 2F Recordings a Civitavecchia dove Felice Tazzini ha registrato i brani, mentre mio marito Simone Salvatore ha curato il mixaggio e mastering. Le sfide sono diverse: un live in studio non è per niente paragonabile a un live in un club o sul palco dove c’è anche una vicinanza fisica o perlomeno visiva. Per avere due tracce indipendenti da mixare abbiamo dovuto registrare in due stanze isolate a dieci metri di distanza, vedendoci esclusivamente dai monitor appesi in alto e sentendoci dalle cuffie. Abbiamo registrato ovviamente senza clic per poter interpretare il tempo a nostro piacimento. E’ un’enorme sfida di concentrazione dover reagire esclusivamente a quello che si sente nelle cuffie, ad essere in quel momento veramente solo voce e piano, senza altri riferimenti a disposizione. Momenti di musica allo stato puro. La sfida di una registrazione live del genere consiste anche nel fatto che non c’è modo di rifare delle singole parti, non utilizzando un tempo prestabilito con il clic. La traccia deve essere «buona» dall’inizio alla fine – il che ti mette addosso una forte pressione ma anche una decisa spinta adrenalinica. Devi accettare che stai registrando l’autenticità, non la perfezione. Abbiamo fatto 2 take di ogni brano e abbiamo scelto la versione migliore.

Ha definito Domenico Sanna «un vero poeta del jazz… capace di aprire porte invisibili e di trascendere il tempo». Come si è sviluppata la vostra dialettica musicale all’interno di questo progetto?
Prima di parlare della nostra dialettica, vorrei insistere un attimo sulla musica di Domenico Sanna. Io ritengo che sia veramente uno dei migliori pianisti della scena jazz dei nostri tempi. La sua musica mi colpisce profondamente perché lui si distingue da altri musicisti che espongono più che altro la loro grande abilità tecnica che spesso effettivamente è impressionante. Lui non applica solo regole, non suona scale o arpeggi perché sono giusti in un certo momento, lui – oltre alla padronanza tecnica indubbia, che è la base di tutto – ha il raro talento di comporre mentre suona. Io sono sinceramente colpita dalle sue idee musicali incredibili che spesso raggiungono proprio quell’eternità che avevo descritto prima. Inventa fraseggi, atmosfere, discorsi, armonie che sono di una bellezza unica – nel corso di una semplice improvvisazione istantanea. Solo per citare alcuni di questi passaggi in «Songs for Two»: l’introduzione a Maybe (da pelle d’oca), l’assolo su You don’t Know What Love Is (credo non esista una descrizione della sofferenza simile a questa sinfonia suonata ad hoc), quello di Tea for Two, l’atmosfera surreale creata in Day Dream, l’assolo di Get Out of Town… Poi si muove agilmente nel jazz tradizionale come in quello ultra-contemporaneo. Anche in questo progetto a volte ha usato dei cluster contemporanei decisamente «fuori stile» o alcuni passaggi quasi ironici per poi colpirti con delle note di una sensibilità unica… insomma uno sballo vero.
La dialettica musicale è stata più che altro naturale e easy, di spontanea intesa. Io gli ho indicato con quale ritmo e timing avrei voluto interpretare i vari brani, quale mood e intenzione dargli – considerando anche i vari testi – e lui ha proposto la sua versione musicale che mi ha sempre convinta all’istante.

In che misura ha lasciato spazio all’improvvisazione o all’interazione spontanea fra voce e pianoforte, rispetto a una struttura più rigida?
Ho preferito dare a Domenico Sanna il maggior spazio per l’improvvisazione – perché nell’altro disco con lui mi era mancato proprio quello. Pur variando i temi melodicamente e ritmicamente, ho voluto evitare strutture intere di scat perché non l’ho trovato adatto a questa formazione. Per me in questo progetto non era importante fare un esercizio di stile e seguire uno schema. Volevo in primo luogo rendere giustizia alle composizioni. Mi sono voluta concentrare sulla resa emotiva della voce, per cercare di trasmettere un sentimento, per cercare di toccare l’ascoltatore – sperando di esserci riuscita. E’ stata un’emozione immensa per me immergermi in questo piccolo viaggio durato una giornata intera in studio, e spero che qualcosa di questa emozione traspaia anche a chi ascolterà il disco.
L’interazione spontanea tra voce e pianoforte è stata totale perché lui in maniera continua commentava le mie variazioni ritmiche o melodiche con il pianoforte e io reagivo immediatamente ai suoi input creativi, come una sorta di reazione a catena fino alla fine del brano. Bellissimi i momenti dove entrambi abbiamo avuto la stessa idea nello stesso momento perché hai anticipato il pensiero dell’altro. E qui vorrei di nuovo citare il grande Valerio Silvestro che dice: «Il jazz è un atteggiamento con cui si affronta il fare musica. Fondamentalmente significa iniziare a suonare senza pregiudizi, senza avere idea di dove si va a finire.» E devo dire che è andata proprio così: mi sono divertita come una bambina sulle montagne russe o come Alice nel paese delle meraviglie perché mi ha metaforicamente presa per la mano ad esplorare questi mondi sonori meravigliosi.

Ida Landsberg

Vive a Orbetello ma è nata a Berlino, e ha avuto una carriera internazionale con vari album e collaborazioni. In che misura questo background ha influenzato questo nuovo lavoro?
Sinceramente non so se il mio background internazionale abbia influenzato questo nuovo lavoro. Forse è stato più influenzato da un percorso personale, da un desiderio che avevo e che ho voluto realizzare, il cosiddetto sogno nel cassetto. Sicuramente il mio background internazionale mi fa sentire a casa cantando anche in lingue che non sono la mia madrelingua che è il tedesco. E nella lingua inglese, pure, mi sento a casa.

A Berlino  ha iniziato lo studio della musica fin da piccola: piano a sei anni, cori, scuole musicali.  Quali furono i momenti decisivi della sua infanzia che le hanno fatto capire che la musica sarebbe stata «più che un hobby»?
La musica per me c’è sempre stata, ho cominciato a studiare il pianoforte a sei anni, ho imparato il flauto da autodidatta, alle recite scolastiche suonavo e cantavo; cantavo in diversi cori, poi ho cominciato a prendere delle lezioni di canto lirico. E’ stata una scelta naturale proseguire – e una grande gioia essere ammessa all’Università delle Arti di Berlino per avviare gli studi di musica.

Ha scelto di trasferirsi in Italia (in Toscana, si diceva) nel 2000 e di stabilirsi qui: cosa l’ha attratta dell’Italia, e come ha influenzato la sua musica questo cambiamento culturale?
Dell’Italia mi attraevano le arti, il Belcanto, il cinema – Fellini in particolare – il modo di vivere tutto italiano, la disinvoltura rispetto alla cultura più rigida e formale in Germania.
Durante gli studi classici di musica all’Università delle Arti di Berlino, con il suo approccio parecchio accademico e competitivo, sviluppai un’ansia da palco piuttosto importante. E avevo pensato che la cultura italiana più estroversa mi avrebbe aiutato a superarla. E’ così è stato. Attraverso il programma ERASMUS ho avuto l’opportunità di passare un semestre in Italia, potevo scegliere tra Siena e Palermo. E ho scelto Siena, anche per via del Siena Jazz – dove ho conosciuto il mio futuro marito Simone Salvatore, chitarrista, e non sono più tornata in Germania. Vivere in Italia mi ha in qualche maniera liberata dal mio esagerato perfezionismo di allora e liberato la mia creatività. Oramai mi sento più italiana che tedesca.

Nel suo sito scrive: «La musica non è una passione, ma una necessità…». Può spiegare cosa significhi per lei questa frase e come la vive nella pratica?
Difficile da spiegare – e nello stesso tempo così banale che ogni musicista la sottoscriverebbe. Non ci chiediamo come mai facciamo musica, ma semplicemente non possiamo farne a meno. Fare musica è una cosa che mi manca quando non c’è, come se fosse una sorta di dipendenza – senza però il suo lato negativo.
Ho recentemente cominciato a suonare il violoncello; riesco difficilmente a stargli lontano per molto tempo e una volta che mi ci metto, potrei studiare ore e non smettere mai. Entri in uno spazio temporale parallelo, dimentichi tutto il resto. E’ meraviglioso. La stessa cosa vale per il canto: se passo un periodo con meno impegni dal vivo o una pausa tra un progetto musicale e l’altro sento del disagio. Perché non c’è niente di più bello che condividere la musica con il pubblico e gli altri musicisti e creare o studiare. La musica aiuta anche nelle situazioni difficili della vita e ne ho passati tanti di momenti difficili. La musica è stata una forte ancora di salvezza.

In che misura la tecnologia (studio, home-recording, streaming, social) ha cambiato il suo modo di lavorare come artista?
Il cambiamento tecnologico ha cambiato probabilmente tutto per un artista dei nostri tempi. Ho registrato vari album in un home studio, quello di mio marito. Il mio primo album «Jazz Moments» è stato registrato in home-studio ed è stato pubblicato dalla EQ Music di Singapore, che mi aveva scoperta attraverso il mio sito web.
Oggigiorno (purtroppo) il lavoro del musicista si è spostato molto sull’attività nei social media. Io ho ancora un po’ di difficoltà ad adeguarmi a fare degli streaming o post quotidiani, perché sono una persona piuttosto riservata; però purtroppo bisognerà mettersi l’animo in pace e adattarsi alla comunicazione di oggi che è basata sulla velocità e la quantità dei contenuti.

Ida Landsberg

Quali sono le sue riflessioni sull’Intelligenza Artificiale applicata alla musica?
Ecco un’altra domanda veramente interessante. Io credo che sia spaventoso, davvero spaventoso, per noi musicisti vedere cosa riesce a creare l’intelligenza artificiale se è addestrata bene. Crea delle opere perfettamente in stile con delle capacità canore o strumentali fuoriclasse e delle idee musicali pure piuttosto originali. E’ davvero una grossa sfida che il musicista e il compositore umano dovranno affrontare. Siamo solo ai primi inizi di questa rivoluzione copernicana e dobbiamo temere che noi creativi tra poco saremo sostituibili. Però vedo anche una grande opportunità per gli artisti: io credo che ci sarà una netta controtendenza all’AI. Nel secolo scorso è stata inventata la plastica, il cibo industriale che ha in seguito dato inizio ad un movimento ecologista e biologico. Il frutto con il baco è diventato un oggetto di maggiore valore rispetto alla mela perfetta piena di pesticidi. E così, a mio avviso, succederà anche con la musica e l’arte in genere: verrà apprezzato maggiormente il fattore umano nelle produzioni musicali, il non-perfetto, il personale. Già lo vediamo dal recente ritorno del vinile. Acquisterà valore l’autenticità a scapito della performance da manuale, la vulnerabilità dell’anima umana al posto del prodotto preconfezionato. Le performance più belle di Amy Winehouse sono quelle dove lei canta alla radio in un live assieme ad un chitarrista con un audio davvero scarso: ma appare in pieno la bellezza e l’intensità della sua voce. Io sono convinta che l’AI non possa mai darci questi momenti veramente autentici.

C’è un brano tra quelli che ha scritto (o interpretato) che considera «speciale», per cui ha un attaccamento particolare? Perché?
Non pensavo che questa domanda sarebbe stata la più difficile. Ci sto riflettendo da un po’, ma non riesco a trovare una risposta che mi convinca del tutto. In realtà per me i brani speciali cambiano nel tempo, passo da uno all’altro, durano per un po’ e poi li lascio per affezionarmi ad un altro… Ce ne sono troppi che meriterebbero di essere menzionati e nel momento in cui ne citi uno fai torto ad un altro. Perciò scelgo la strada più semplice e menziono un brano dell’attuale album: è Gone with the Wind (take 2), la versione lenta. Così leggera, così naturale e rilassata, così perfettamente in simbiosi, come un pomeriggio di fine estate trascorso a passeggiare sotto il sole con il vento che ti accarezza e che passa così in fretta che nemmeno te ne accorgi. Un piccolo momento di felicità.

Quali sono i suoi prossimi obiettivi e quali i suoi prossimi impegni?
Il mio prossimo obiettivo è senza dubbio di realizzare il mio secondo album con brani originali. Ho vari brani scritti negli anni, che stavano lì, abbandonati in un quaderno nella libreria accanto al pianoforte, tra il caos della vita, con due figlie piccole da crescere, a correre sempre avanti e indietro. Annotati poi in un modo indecifrabile per qualunque altro musicista. Finalmente quest’anno mi sono messa a trascriverli in copia pulita, li ho registrati alla SIAE e ho rifinito qualche dettaglio. Ora non aspettano altro che essere arrangiati e registrati. Già Umberto Damiani della Irma Records mi ha messo sulle spine, dicendomi: «Basta con gli standard, aspetto il tuo prossimo album con i brani originali.». E ho davvero tanta voglia di dedicarmici, era un peccato lasciarli lì a prendere polvere. Reinterpretare i classici è una cosa davvero gratificante, ma comporre e realizzare musica tua lo è ancora di più.
Alceste Ayroldi

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