Paul Cornish: “You’re Exaggerating!”

Emerso nel quartetto di Joshua Redman, il giovane pianista di Houston (da dove vengono anche Jason Moran e Robert Glasper) debutta oggi alla grande

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Uno dei libri di maggior successo e che fece più discutere nel 2012 si intitolava Quiet: The Power of Introverts in a World That Can’t Stop Talking («Calma: il potere degli introversi in un mondo che non riesce a smettere di parlare», ndr), di cui era autrice Susan Horowitz Cain, con una laurea in letteratura a Princeton e una in legge ad Harvard, che la portò a fare per un po’ il mestiere di avvocato di diritto societario, prima di dedicarsi al tema di quanto la cultura occidentale equivochi e sottovaluti i tratti caratteriali degli introversi. Non manca, il suo libro, di una carrellata di esempi storici, da Leonardo ad Einstein, da Spielberg a J.K. Rowling. E uno spunto per studiosi volenterosi sarebbe ricostruire una contro-istantanea su quanto l’introversione dei caratteri, nel dipanarsi della musica occidentale, conti esempi insospettabili. 

Quando incontrammo nel 2023 Joshua Redman per l’esordio in Blue Note con «Where Are We?» lui confessò da subito, come in ogni intervista, il proprio carattere schivo, affinché il riserbo non fosse confuso per scortesia. Da allora, è in tour per il secondo album per Don Was, «Words Fall Short», cover story del nostro numero di luglio. Mai titolo fu più chiaro di così. Al piano, in quest’ultimo album, suona Paul Cornish, del quale Redman è mentore da tempo. Manco a dirsi, l’amico pianista di Houston, buttato nella girandola mediatica della promozione del suo album solista, non poteva che avere un carattere affine, una nuance inevitabile al «great minds think alike». Prova d’interplay deluxe ne hanno dato, insieme, nell’unica data italiana del tour in quartetto alla Casa del Jazz per il Summertime di Roma il 3 agosto (con la «carrambata» di un fuori programma con Gregory Hutchinson, da tempo romano d’adozione, per un’indimenticabile Remember di Irving Berlin nella versione di Hank Mobley). Ed ecco perché la chiacchierata che MJ ha fatto con Cornish per il suo debutto Blue Note con il recentissimo «You’re Exaggerating!» è una splendida occasione per conoscere un artista che, proclamato dalla West alla East Coast come nuovo indiscutibile talento del new jazz (qualunque cosa sia), alle parole preferisce le note. Entrambe le utilizza con la cura prudente dell’artigiano, a miglior agio quando si tratta di raccontare storie fantastiche e astratte nel suo universo musicale, fatto di tradizione (Debussy e Skrjabin inclusi) per incalzare il futuro. 

Nato in quel guazzabuglio di innovazione e conservazione che è Houston, Texas, dopo una prima infatuazione per il piano a cinque anni, Paul divenne batterista e percussionista, il che salta subito dall’orecchio nell’ascoltare quanto la tessitura di tempi e sovrapposizione di ritmi sia nel baule dei giocattoli della sua creatività, temperata da una religiosità deliziosamente démodé. In fondo, come tante delle biografie dei maestri del jazz, anche lui è partito dalla chiesa locale a costruire in modo professionale la propria identità di musicista, fino a prestare il proprio servizio tre volte alla settimana; il suo Instagram ha come presentazione il Salmo 103 di Davide: «Lascia che tutto quello che faccia sia per il Signore; con tutto il mio cuore pregherò il suo Santo nome» e quando può (sempre meno, a dare un’occhiata alle tante date del tour in corso) torna a casa e a suonare gospel. Si sbaglierebbe, tuttavia, nel serrarlo nel dagherrotipo del bravo ragazzo e di buon cuore, non perché non lo sia, per carità, ma perché Paul ha trasfigurato la spiritualità in una faccenda identitaria di self-restraint e di reindirizzamento del proprio talento a una dimensione altra, quella che si può incontrare in tutta la storia del jazz da Charles Lloyd a John Coltrane, nella definizione della devozione verso l’eccellenza. Un insegnamento rafforzatogli dall’esser pescato fuori dalla USC Thornton School of Music per ancorare all’Herbie Hancock Institute of Jazz, con tanto di borsa di studio (sulla scia Ambrose Akinmusire o Lionel Loueke, per dire). È a Los Angeles che Cornish ha modo di frequentare Wayne Shorter, lì come artist-in-residence, e direttamente Hancock; l’ottantacinquenne chicagoano, quest’anno vincitore del Polar Prize, gli racconta l’umiltà e i valori dell’essere una brava persona: «La musica è ciò che fai, non chi sei», ricorda ancora Paul dei suoi insegnamenti. Quest’aura di complessiva elevazione porta il suo linguaggio a un’articolazione di ragguardevole complessità, in cui però l’astrazione o la fuga dalla tonalità in senso classico non diventano una piroetta ego-riferita ma si mettono al servizio di un progetto musicale ambizioso e ben riuscito come «You’re Exaggerating!» Stanarlo dall’imbarazzo della modestia non è semplice, ma funziona e ne vale la pena. 

Paul Cornish

Paul, benvenuto su Musica Jazz. Hai iniziato il lungo tour per l’America e l’Europa del tuo album che toccherà luoghi sacri come il Ronnie Scott’s a Londra. Sei contento di come funziona il gruppo o credi di dover affinare qualcosa nella dimensione live? 

Grazie a voi! Il tour è iniziato qualche giorno fa per lo Stanford Jazz Festival e andrà avanti qualche mese. Devo dirti che con questa formazione in trio stiamo suonando e provando da oltre un anno per arrivare a un buon risultato e mi sento davvero molto a mio agio sul palco con loro: è il posto giusto nel momento giusto. 

Inevitabile chiederti una spiegazione del titolo: chi sta esagerando? 

Credo noi tutti come persone, nella mia prospettiva, a partire da me. Come suggerisce il titolo, si tratta di mettersi allo specchio e capire chi si è davvero; spero che ognuno possa dare la sua personale risposta alla domanda. 

Se leggo gli ascolti suggeriti e a te affini sul sito Blue Note inciampo in grandi nomi come Joshua Redman, Robert Glasper e Jason Moran. Tutti sono in qualche modo tuoi mentori, ma quanto è stata importante la tua esperienza come sideman per arrivare al tuo progetto solistico? 

È stata necessaria, fondamentale, direi che è stata tutto. È un modo di proseguire ciò che è la tradizione di questa musica; pensa a tanti grandi, gente come Herbie Hancock o anche prima di lui: tutti hanno iniziato nelle band di altri leader e hanno imparato girando in tour, avendo un contatto diretto. E quindi certo! È stato ed è un onore avere avuto l’opportunità di suonare con Joshua Redman e con tutti gli altri incontrati nella mia vita. Direi che quello è il momento in cui inizi davvero la «scuola» e capisci che è un apprendimento che non ha un termine. 

Con Joshua condividete anche il fatto di essere entrambi piuttosto timidi. Quanto è importante la capacità di restare umili per suonare jazz? 

Lo è davvero molto. Devi avere la consapevolezza che nessuno ti deve niente, nulla è scontato e quindi l’umiltà è l’unica risposta possibile.

Vorrei entrare un po’ nell’album… Slow Song è una delle mie preferite, mi sembra di sentirci echi di Jason Moran, che è un tuo riferimento. Lui tra l’altro, come Fred Hersch, ha studiato con Jaki Byard. Ti senti a tuo agio in questa lunga tradizione di pianisti? 

A mio agio… Ecco, è un’espressione molto interessante. Mi verrebbe da rispondere per prima cosa che è stato sempre il mio obiettivo e il mio sogno; quando pronunci i nomi che hai fatto, parli di gente che non ha solo contribuito alla crescita del jazz, ma è in una linea evolutiva del pianismo migliore. In questo senso, ho sempre sperato di poter in qualche modo contribuire e ispirare allo stesso modo in cui loro hanno fatto con me. 

Forse in quella linea c’è una approfondita ricerca della verità nel linguaggio improvvisativo

Assolutamente sì! Credo che ci sia la ricerca della verità in ciascuno di noi, non solo e non tanto nell’arte, ma come persone. La musica, però, ti consente di andare alla ricerca di parti di verità che non puoi vedere in modo limpido nei fatti del mondo o che non riesci a tradurre a parole; è come se dalla musica venisse, come dire, un «bonus» extra: un accesso privilegiato a scavare a fondo. 

Ci sono brani, come Queen Geri, dove l’aspetto ritmico è davvero importante; quel brano è in sette e molto intricato nelle poliritmie. Cosa ti è piaciuto in questo viaggio dei tuoi compagni Joshua Crumbly e Jonathan Pinson? 

La cosa che apprezzo di più è la loro apertura, determinata dal fatto che sono, prima di tutto, dei formidabili ascoltatori ed è una caratteristica che li accomuna; il fatto di avere un orecchio così «audace» vuol dire che poi sono pronti a qualunque sfida io gli lanci e che sanno arricchirla con nuove idee che a me magari non sarebbero mai venute. Non sono spaventati di andare in territori inesplorati e questo è il modo di servire la musica: la fiducia di viaggiare in posti diversi insieme, dove ogni volta accada qualcosa di interessante. 

Restiamo un attimo sempre a questo brano, che è dedicato a Geri Allen. Perché è importante per te? 

Era semplicemente una grande. La sua influenza su di me è stata enorme, ricordo che la prima volta che l’ascoltai era in occasione di un workshop all’International Banff Creative Residency e lei era una delle insegnanti. Ci fece ascoltare un suo album, che mi ha fatto impazzire. Non avevo mai sentito nulla del genere, fu come trovare una risposta a qualcosa che cercavo da tempo. Ne ho amato diverse cose, ma c’era una specie di battaglia dentro quella musica in cui si fronteggiavano da una parte l’avanguardia e l’improvvisazione creativa e dall’altra il lato più tradizionale. È una sensazione che mi porto dentro ancora oggi, lei era rispettata in entrambi quei mondi e ci si muoveva dentro in grande scioltezza. Da allora è diventato qualcosa per me cui mirare. Come hai detto giustamente tu, il suo uso del ritmo la rendeva una forza della natura, ma anche la sua capacità compositiva. Credo che le persone e gli studenti dovrebbero conoscere meglio il suo lavoro, ma in realtà Geri non è così nota e quindi ho sentito quasi l’obbligo tenere viva l’attenzione sulla sua figura. 

Paul Cornish You're Exaggerating!

In filigrana mi sembra di poter percepire anche una questione legata all’affermazione della parità di generi e al riconoscimento dei diritti civili, o sbaglio? 

Assolutamente no, è così. Si tratta di due lati della stessa medaglia, il mondo è affetto dalla misoginia e dal razzismo oggigiorno. Ci sono anche degli squilibri nel presentare questi temi all’interno delle nostre istituzioni accademiche. È anche il modo in cui studiamo le dinamiche sociali e sottovalutiamo quanto le donne abbiano contribuito allo sviluppo della musica (e non solo). È una pagina di storia che continua e non sembra voler cessare. È un tema vasto e importante, quindi non vorrei scivolare nel banale. Non mi piace sbilanciarmi al contrario, ma serve uno sforzo straordinario in più per cogliere le opportunità e sapere che non vengono date a qualcuno perché è uomo o donna e quindi serve creare spazi, concordare a monte i criteri di riconoscimento di ciò che hai davanti. Su questo sono stati fatti passi da gigante nel riconoscimento del ruolo di donne strumentiste o compositrici che hanno contribuito fortemente allo sviluppo della musica, ma resta un dibattito molto vivo e aperto tuttora in corso. 

In poco tempo, ascoltando «You’re Exaggerating!», sembri aver trovato un tuo linguaggio molto personale. La tua biografia, come quella di tanti grandi del jazz, parte in un modo molto tradizionale, suonando e servendo in chiesa… Quanto è stata importante l’esperienza spirituale e di consolidamento delle radici per te? 

Per me è tutto. Sento dentro che il mio scopo della vita affonda nel rapporto con Dio e quindi, o almeno spero, la mia musica è una estensione di ciò che si dice servire un fine maggiore, una chiamata più in alto. Questo ha anche un vantaggio… Stavo giusto parlando l’altro giorno con uno studente dell’importanza di non suonare mai per l’approvazione degli altri, ma di mantenere un fine più «nobile» e alto e questo è esattamente ciò che credo agevoli il mio rapporto con Dio. Credimi, se ti dico che davvero voglio solo mettermi al Suo servizio e farlo con altre persone, perché mi ha dato un cambio radicale di prospettiva… 

Che ruolo ha avuto in questo l’ambiente in cui sei nato e cresciuto a Houston? 

Un’esperienza bellissima. Da quando ho ricordo, mi vedo circondato da un sacco di strumenti, che si trovavano anche in chiesa. Andavo lì e ci trovavo una specie di parco giochi, a partire dalle bacchette della batteria. È stata un’occasione unica per iniziare a suonare. Mio fratello mi raccontava tempo fa che, quando tornavo a casa, mi arrangiavo e provavo a costruire da solo gli strumenti. Impilavo le scatole che trovavo in giro per farle sembrare una specie di organo, oppure rimediavo cuscini e paralumi per immaginarmi la batteria o ancora, più semplicemente, mi mettevo a disegnare gli strumenti che mi piacevano; era proprio diventata una specie di ossessione per me… 

La musica lo diventa sempre per chi la ama

Puoi dirlo forte! 

Visto che parliamo di ossessioni, c’è un brano particolare già dal titolo nell’album: Quienxiety. Mi ha fatto venire in mente il paragone degli esteti romantici col mare: sulla superficie calmo e sotto percorso da mille correnti

Mi fa piacere che tu abbia ascoltato così a fondo il disco! Non saprei spiegarti bene cosa significhi, ma certamente è una fusione tra le due parole «quiete» e «ansia», perché questa è la mia vita e ho visto che accade anche in altri. E’ sempre la più facile delle scorciatoie sembrare tranquilli, fighi e raccogliere i frutti della superficie. Ma ci sono una pluralità di strati diversi sotto ciascuno di noi. Per esempio, nella mia vita posso dire di essere una persona suppergiù calma e timida, tanto che spesso possono essere scambiato per uno smodatamente «pacioso»; questo è il tratto caratteriale preponderante che mi ha anche fatto guadagnare più complimenti, a partire da mia madre, che me lo dice sempre. Poi, in verità sono una persona percorsa da una grande ansia, è sempre lì, corre sottotraccia, è qualcosa che mi fa soffrire in silenzio; ho sempre l’impressione che le altre persone siano «solide», che riescano ad esprimere bene la complessità del loro carattere e che stiano a loro agio con la propria interiorità. Ho l’impressione sempre di navigare in un mare diverso, diciamo… 

Tranquillo, stai parlando con un super-ansioso, quindi pienissima comprensione. Anche su un altro punto: ti sei descritto come un «people-pleaser», uno che vuole piacere alla gente. Certo che pubblicare un album con Blue Note, entrare nella sua tradizione, deve essere magnifico da una parte, ma anche causare un po’ di ansia da prestazione… 

(guarda a lungo in alto, alla ricerca della risposta migliore e più autentica, ndr)

Lo so, ti sembrerà una specie di tortura essere intervistato, lo capisco!

(ride, ndr) No, no, va benissimo! Sono belle domande… aspetta, mi sto davvero divertendo. Dunque, in qualche modo la pressione la sento e come! Ma torno a ripeterti che sono una persona che crede saldamente nel proprio fine e anche convinta che le cose, per natura, vadano nel modo in cui debbano andare. A un certo punto finisce l’onda e allora devi essere in grado di domandare a te stesso chi vuoi essere davvero, cosa ti piacerebbe lasciare di questo tuo passaggio. E il mio fine, ancora una volta, è radicato nel rapporto con Dio e nella speranza che la Sua volontà si compia nella mia vita. Per questo, sto semplicemente cercando di godermi il momento, il fatto di essere qui e di provare ad esprimere in modo onesto la migliore musica che riesco. Tutto parte da qui. 

La tua musica spesso lambisce territori astratti. Ma vi leggo sempre una positiva fiducia riposta nell’ascoltatore, la speranza che possa capire, che si faccia stupire anche dalle soluzioni meno convenzionali…

Certamente, è qualcosa in cui credo molto, ma non mi aspetto neanche che tutti capiscano ogni istante della musica. C’è però un altro aspetto: prendi Stevie Wonder, un artista che amo moltissimo. Nella sua musica puoi fare esperienza di moltissimi strati musicali ed è uno dei motivi che lo rendono tanto amato. Puoi cantare le sue linee melodiche e provare un enorme piacere, perché le sue canzoni non possono che essere amate. Poi ci sono altri che hanno studiato per un’intera vita la sua musica, perché la cosa straordinaria di Stevie è il perfetto bilanciamento tra le parti. Mia madre lo canta spesso, le piace, ma lei non è una musicista. A me piacerebbe fare qualcosa del genere: suonare un concerto e divertirmi, poi ci sarà qualcuno che apprezzerà qualche sfumatura tecnica e altri che si divertiranno per la musica in sé, un banchetto in cui ci sia qualcosa di buono per tutti. Ci sono cose che non puoi esprimere in 4 o neanche in 5/4 oppure con tonalità più complicate, perché non descriverebbero tutta la bellezza nel modo che percepisco io, una bellezza selvaggia (ugly beauty)…

Urca, arriviamo a Monk con questa citazione! 

Esatto! Sto cercando di dire che esiste una complessità che sperimentiamo tutti i giorni come persone, qualcosa che riguarda le emozioni; può capitare alle volte di sentirsi in un posto sicuro che poi si rivela non esserlo, altre di trovare soluzioni più immediate a problemi che ci sembravano insormontabili. Si tratta di un tipo di percorso terapeutico, per dir così. Trovo bello che la musica possa avere livelli e strati differenti, per raccontare con onestà lo stato dei sentimenti. 

Paul Cornish

Chiarissimo. Un’ultima curiosità riguarda invece il tuo produttore per questo album, Henry Solomon, che è anche sassofonista… Com’è stato lavorare con lui? Resto convinto che i produttori veri siano in estinzione, ma che in realtà facciano la differenza. 

Hai ragione. Henry è una figura centrale, un perno della mia vita, anche perché, oltre a lavorare insieme, siamo vecchi amici da tempo immemorabile, compagni di studi dalla prima elementare fino al college. Abbiamo vissuto insieme per due anni e fatto musica in mille occasioni diverse: io ho suonato nelle sue band e lui nelle mie. Questa sua conoscenza così profonda di me fa sì che si rispecchi nella musica, nel capire ciò che voglio realizzare e trovare il modo migliore per farlo. Questo lo ha reso un magnifico produttore. Era la persona di cui avevo bisogno, perché capiva le vibrazioni, la direzione e poteva indirizzarle al meglio senza mai sopraffare l’idea di base. Magari arrivava il momento in cui Henry diceva: «Dai, proviamo a fare un’altra take» e aveva ragione; mi ha fatto piacere che anche Joshua e Jonathan si siano trovati bene con lui, non foss’altro perché loro hanno un’ esperienza di studio maggiore della mia. Per farla breve, l’album non sarebbe stato lo stesso senza il suo aiuto. 

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