«Fun Slow Ride». Intervista a Gegè Telesforo

Rimasterizzato il disco composto, scritto e arrangiato dal celebre musicista italiano, con la complicità di Leo Sidran, pubblicato nel 2016 dalla Ropeadope Records.

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Quando è nato in te il desiderio di realizzare «Fun Slow Ride»? Qual era l’intento originario e quali atmosfere musicali desiderava evocare?
Il desiderio di produrre «Fun Slow Ride» è nato dieci anni fa da una riflessione, oserei dire, «dinamica». Sentivo l’urgenza di creare un lavoro che fosse un antidoto alla frenesia del nostro tempo, sia nella vita che nella musica. L’intento originario era dimostrare che il groove, l’anima ritmica del jazz, del funk e del soul, può e deve essere sofisticato e profondo, non solo superficiale. Volevo un sound che unisse la complessità armonica del Jazz, l’improvvisazione e il senso della melodia, con la forza ritmica del Funk, con un suono caldo, avvolgente, che non fosse schiavo degli stereotipi del momento, e che avesse un respiro internazionale adatto alla Ropeadope. Un viaggio lento, ma divertente, attraverso la mia visione della musica contemporanea.

Quali sono state le influenze principali durante la composizione e registrazione dell’album?
Le mie influenze sono sempre state profondamente radicate nella black music, nella sua totalità, ma con un particolare riguardo per chi ha saputo ibridare i linguaggi con grande intelligenza. Durante la composizione il riferimento era ai Maestri del jazz-funk e del soul jazz degli anni Settanta e Ottanta ma in chiave contemporanea, con un approccio armonico di musicisti come Herbie Hancock o Chick Corea nelle loro fasi fusion, senza dimenticare il lavoro di artisti come Curtis Mayfield o la scuola di New Orleans, come The Meters, che hanno unito l’eleganza melodica a ritmi irresistibili. In fase di registrazione, l’influenza è stata quella della produzione americana, pulita e attenta alla dinamica. Abbiamo cercato di ricreare quel sound di collettivo dove l’improvvisazione si fonde con la texture compositiva, senza mai perdere di vista il feeling.

L’idea che un disco dopo «soli» dieci anni venga rimasterizzato ti piace o ti crea l’effetto «quanto passa in fretta il tempo e come invecchiamo»?
Devo ammettere che l’idea di ripubblicare «Fun Slow Ride» è stata di Roberto Ramberti, mio storico manager e partner discografico, accolta con entusiasmo anche da Louis Marks, presidente della Ropeadope, etichetta americana con la quale collaboro da diversi anni. Se da un lato, dieci anni per un album jazz la cui essenza è timeless, possono sembrare pochi, è innegabile che la velocità con cui evolvono i supporti e i canali di fruizione ci ricordi quanto il tempo, nel digitale, corra veloce. Dall’altro lato, prevale il pragmatismo del produttore e l’umiltà dell’artigiano. La rimasterizzazione non è un vezzo, ma una necessità tecnica dettata dall’evoluzione dei parametri di ascolto. Il nostro obiettivo è sempre stato l’integrità di un suono analogico e della sua dinamica, un valore sacro per il jazz. Lavorare con le nuove tecnologie ci permette di restituire all’ascoltatore un suono pulito e dinamico, che fa giustizia alle performance originali e che oggi suona meglio sui moderni streaming. Quindi, più che un «quanto invecchiamo», è un quanto dobbiamo essere attenti a far suonare bene la musica anche sui nuovi supporti.

Questa edizione rimasterizzata di «Fun Slow Ride» cosa apporta di nuovo rispetto alla versione originale? Quali sono state le motivazioni tecniche e artistiche?
Questa rimasterizzazione non apporta brani nuovi, ma regala al disco una nuova chiarezza e profondità sonora. L’originale era già stato lavorato con cura, ma a distanza di anni, le mutate esigenze di ascolto e i progressi nel mastering ci hanno spinto a intervenire. Tecnicamente, l’obiettivo era ottimizzare il master per i parametri moderni di fruizione, come le piattaforme di streaming ad alta risoluzione che premiano la qualità. Volevamo che il disco conservasse tutta la sua dinamica originale, senza subire l’eccessiva compressione che, purtroppo, affligge molta produzione odierna. Per il jazz, la dinamica non è un dettaglio: è l’anima espressiva stessa. Artisticamente, l’intenzione era dare ai nuovi ascoltatori la possibilità di sentire il respiro e la tridimensionalità delle performance con un suono più pulito, per esaltare la qualità delle registrazioni e le performance in studio dei musicisti. In sostanza, non abbiamo toccato la musica, ma abbiamo affinato il suono finale per renderlo più incisivo, garantendo alla produzione la migliore resa sonora possibile.

Come è nata la collaborazione con gli altri musicisti e vocalisti presenti nel disco? Quali momenti memorabili ricordi della fase di produzione?
L’approccio per «Fun Slow Ride» era creare un vero International Collective, quindi la scelta dei musicisti è stata guidata dal rispetto reciproco, dalle affinità umane e, ovviamente, da una profonda sintonia musicale. Non ho cercato semplicemente turnisti, ma vocalist e strumentisti con cui esisteva già un dialogo artistico o una profonda stima. La collaborazione con Leo Sidran negli Stati Uniti è stata cruciale. Ha agito da ponte, permettendoci di coinvolgere nel suo studio di Brooklyn musicisti straordinari, come Alan Hampton, Joanna Teters, Sachal Vasandani, Moses Patrou, e naturalmente il mio amico e storico producer Ben Sidran, che ha impreziosito la produzione con la sua partecipazione. Ho trattato tutti, vocalists e musicisti, come solisti, incoraggiando la libertà interpretativa all’interno degli arrangiamenti elaborati insieme a Pasquale Strizzi, con un’attenzione particolare alle parti cantate per dare ancora più risalto ai testi scritti con la bravissima vocalist Greta Panettieri.

L’album affronta anche temi universali, come hai tu stesso segnalato (ambiente, responsabilità, amore): come si integra questo nella musica? In che misura il testo e la voce si fanno «voce sociale»?
Il jazz, la musica in generale, ha sempre avuto un’intima vocazione sociale. E personalmente, non ho mai creduto nell’arte disinteressata. In «Fun Slow Ride», se la musica è il veicolo, i testi sono la direzione morale, un richiamo alla consapevolezza. Volevo creare un senso di urgenza e condivisione, rendendo i messaggi su temi come l’ambiente o l’impegno morale accessibili e diretti. Alcune composizioni, pur rimanendo melodiche, usano armonie più tese per riflettere la complessità e l’importanza dei temi trattati. Per esempio, un brano come Let The Children, ispirato al pensiero di Khalil Gibran, con testo originale e voce narrante di Ben Sidran, è una riflessione profonda sulla nostra responsabilità di adulti e sull’eredità che lasciamo. Qui la voce non canta, ma si assume il peso della narrazione. Anche gli interventi solistici di Alfonso Deidda, Max Ionata, Domenico Sanna… nei vari brani della produzione, pur essendo pura improvvisazione, in questo contesto rappresentano la libertà espressiva che rivendichiamo, un valore intimo ma fondamentale per ogni discorso sociale. In sintesi, la musica è il nostro modo più potente per dire: siamo su un «Fun Slow Ride» collettivo, e dobbiamo goderci il viaggio con un profondo senso etico.

Gegè Telesforo
Foto di Bruno Barillari

Come hai deciso di rispettare l’integrità del suono originale e al contempo migliorarne la fruizione in un’epoca dove lo streaming, il vinile, il Cd coesistono?
La coesistenza di formati così diversi, dall’alta risoluzione dello streaming al vinile, impone un lavoro di mastering meticoloso. La sfida era rispettare la fotografia artistica originale, migliorandone la leggibilità tecnica su ogni supporto. L’obiettivo non era «pompare» il volume, il loudness, ma adottare un approccio strategico al mastering per la fruizione odierna, eliminando piccole impurità sonore ed evitando la saturazione. Abbiamo lavorato seguendo i parametri tecnici richiesti dalle piattaforme moderne, assicurando che la qualità del master fosse percepita al meglio sui supporti digitali. In breve, non abbiamo stravolto nulla. Abbiamo solo fornito un nuovo motore sonoro a «Fun Slow Ride», calibrato per far suonare la nostra musica nel modo più onesto e dinamico possibile sui sistemi d’ascolto attuali.

Come descriveresti, con le tue parole, la tua identità musicale?
Se dovessi riassumere la mia identità musicale con un’unica espressione, direi che sono un Artista, Vocalist, Musicista jazz afro-meridionale. La mia musica è il risultato di un percorso in cui il jazz è il fondamento inossidabile, mentre il funk, il soul e la world music sono la pelle e l’energia con cui scelgo di comunicare. Non sono interessato alla purezza di un singolo genere. La mia identità è definita dalla contaminazione cosciente. Mi piace prendere la disciplina ritmica dello swing e l’intelletto armonico del Jazz per fonderli ad altri contesti sonori e trasformarli in un groove che sia immediato e profondo allo stesso tempo. Il mio ruolo finale è quello di un catalizzatore che usa voce e strumenti per stimolare il dialogo tra i musicisti e il pubblico che viene ai nostri concerti. In fondo, sono un musicista che crede nella musica come terapia collettiva. È questo che ci rende, spero, un po’ originali.

Gegè Telesforo
Foto di Bruno Barillari

C’è un programma televisivo o radiofonico a cui sei particolarmente legato?
Senza dubbio, il programma che porto nel cuore è DOC, Musica e altro a denominazione d’origine controllata, su Rai 2 (1987-1989), ideato e condotto con Monica Nannini e Renzo Arbore. DOC fu una vera e propria isola felice e una vetrina internazionale. Era l’unico luogo in Italia dove la musica veniva proposta dal vivo, con il rigore di un club americano. Non era solo intrattenimento, era divulgazione di alta qualità. Lì ho avuto l’onore di incontrare, intervistare e collaborare con artisti che hanno letteralmente fatto la storia del jazz e della black music: da James Brown a Miles Davis, da Dizzy Gillespie a Sonny Rollins, Pat Metheny e molti altri. Cruciale fu l’incontro con il mio maestro Jon Hendricks, e con Ben Sidran, che qualche anno dopo sarebbe diventato il mio produttore discografico. DOC non fu solo televisione, fu la mia università sul campo, un’esperienza che ha definito il mio percorso e il mio rispetto per la musica autentica. È stato il programma che mi ha permesso di unire l’amore per la musica alla comunicazione e all’intrattenimento, creando la figura del musicista che racconta la musica, una formula che ho poi continuato a sviluppare anche nelle mie successive esperienze radiofoniche con Capital Groove Master e Soundcheck su Radio 24.
Alceste Ayroldi

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