Joshua Redman: Word Falls Short

Al secondo disco per Blue Note, il sassofonista – artista di grande vivacità intellettuale, come dimostra la nostra intervista – conferma il suo periodo di magistrale creatività e ci consegna uno dei lavori più significativi del 2025

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Berkeley, California. Prima ancora che figlio di Dewey Redman – sassofonista di grande originalità, spirito ribelle accanto a Ornette Coleman e Keith Jarrett – Joshua è figlio di una casa piena di libri, danze e silenzi. La madre, Renée Shedroff, non è una musicista ma gli insegna il valore della lentezza, della riflessione, della parola che pesa. Lui invece sceglie il sassofono quasi per gioco. E come potrebbe essere diversamente, con un padre come quello? Lo strumento entra nella sua vita a dieci anni, ma la musica non è un destino segnato. Harvard prima, giurisprudenza a Yale poi. Eppure qualcosa – un richiamo, una eco – lo porta a rinviare tutto per trascorrere un anno a New York. Niente professione, quindi, solo la musica. 1991, nella Big Apple c’è ancora il profumo bruciante del post-bop. Joshua ha ventidue anni e in pochi mesi è ovunque: jam al Vanguard, set improvvisati con Elvin Jones e Charlie Haden. E sorprende. Tutti. Lui, che era destinato ad una brillante carriera universitaria, ora ha il sassofono in mano. Come suo padre, con il quale però ebbe pochi contatti durante la sua infanzia: lo conosceva solo attraverso i dischi e le rare visite che gli faceva, spesso con Ornette, con Jarrett e con altri mostri sacri del jazz. Poi la vittoria al Thelonious Monk International Jazz Competition. Tutti parlano di lui come dell’erede naturale dei giganti del jazz, e come uno tra i giganti del jazz moderno. 

Troppo facile. Troppo comodo.

Joshua non vuole essere «il figlio di» e neanche «il salvatore del jazz», vuole solo suonare. Con onestà. Nel 1994 pubblica «MoodSwing» con Brad Mehldau al piano, Christian McBride al contrabbasso e Brian Blade alla batteria: quattro ragazzi che sembrano già adulti alle prese con una musica narrativa, moderna eppure radicata in una tradizione fatta di swing e spiritualità. Joshua non si ferma. Negli anni successivi esplora, cambia, rischia, incide «Elastic», «Freedom in the Groove», «Still Dreaming» un omaggio a suo padre, «Nearness» in duo con Mehldau. Ogni disco è un laboratorio e un dialogo con sé stesso, con la propria inquietudine. C’è qualcosa di profondamente umano nel suo modo di soffiare. Una nota che esce timida, quasi esitante, e poi prende spazio. Un fraseggio che non forza mai, che cerca la melodia ma non ha paura del vuoto.

Nel 2023 arriva «Where Are We» il suo primo lavoro con Gabrielle Cavassa, notevole vocalist in ascesa, un concept album, una mappa sentimentale dell’America attraverso le sue città e le sue ferite. Oggi «Word Falls Short» sembra chiudere un cerchio. Un disco dove le parole si fanno rare, quasi inutili. Un pensiero musicale più calmo, forse più aperto, in cui il sassofono diventa voce interiore. Non c’è fretta, e neanche certezza. Solo l’urgenza di restare veri.

Joshua Redman oggi è molto più di un grande sassofonista. È un artista che ascolta il mondo, che ha fatto del dubbio una forza creativa, che non teme la trasparenza. E la sua musica non grida, si fa ascoltare. Come quelle conversazioni sussurrate che non dimentichi più.

Joshua Redman

Il titolo dell’album, «Word Falls Short», suggerisce una riflessione sui limiti del linguaggio. Cosa significa per te e come si riflette nella tua musica?

Il titolo mi è stato ispirato da un passaggio di un libro che ho letto abbastanza di recente e che mi ha colpito. L’ha scritto Yiyun Li, credo sia una scrittrice cino-americana. Si intitola «Where Reasons End» («Dove le ragioni finiscono») ed è un libro che stratifica molte informazioni. Credo sia un’ingiustizia riassumerlo in un’intervista, comunque in sintesi è un romanzo che si basa sull’esperienza di vita dell’autrice, che ha perso suo figlio suicida. Nel romanzo c’è una conversazione scritta con il figlio – che non c’è più – una specie di confronto attraverso il linguaggio in cui si cerca di esprimere delle cose che non si possono dire in poche parole. Suo figlio ad un certo punto le dice «Mamma, mi dici sempre che in quel mondo le parole sono insufficienti…» e lei risponde «Sì, le parole sono insufficienti ma a volte le loro ombre possono raggiungere l’indicibile». L’ho trovato molto bello, intendo dire che tutto il libro è bello. Parla del fallimento del linguaggio o della sua inadeguatezza. Per me usare quel titolo nel contesto di un album per lo più di musica strumentale significa sì riferirsi all’inadeguatezz,a che però non è solo delle parole ma anche delle idee, dei sentimenti, delle azioni. Perdonami, forse non riesco davvero a esprimere appieno ciò che voglio dire. Sai, nulla può davvero catturare il vero significato di un’esperienza, ma si tratta nel mio caso di riferirsi alla fallibilità e all’imperfezione dell’uomo. Ma trovo bella l’idea che le parole siano insufficienti e proiettino ombre; e le ombre possono portarti verso le cose non dette. Ogni azione umana è, in ultima analisi, imperfetta e fallibile, con le sue ombre e le implicazioni che ne derivano. C’è qualcosa che va oltre ciò che viene detto, espresso o recitato. C’è qualcosa che può portarti in un regno che non può essere descritto dalle parole e che non può essere riprodotto, e ha a che fare con un certo tipo di possibilità spirituale, e di trascendenza. E anche di esperienza che ti porta a conoscere qualcosa che non può essere davvero conosciuto razionalmente.

Ascoltando la tua musica, specialmente in questo album, percepisco una certa, forse nuova propensione per le atmosfere rarefatte. Cosa ti ha spinto a dedicarti a questo registro espressivo?

Ho sempre amato la melodia e il mistero della musica. E ho sempre amato la sua potenza, la sua forza viscerale. Uno dei motivi per cui mi piace così tanto il jazz, ma direi la musica nera in generale, è la sua potenza ritmica. E poi sono attratto dagli elementi naturali, fisici, viscerali della musica. È una questione di sottigliezze, di sfumature, di intangibilità, di mistero. Tutto questo mi ha sempre interessato, ma penso che man mano che invecchio, sia come musicista sia come compositore, divento sempre più capace di attingere a queste possibilità. Penso di essere un musicista più lirico e melodico di quanto lo fossi prima, e anche un compositore più ricco di sfumature; alcune di tali qualità sono ormai diventate parte di me.

L’album ha una forte componente cameristica. C’è stata una ispirazione classica dietro la scrittura o l’arrangiamento dei brani?

No, almeno non un’ispirazione classica specifica. Voglio dire che non ho mai studiato musica classica in maniera approfondita anche se, va detto, gran parte del linguaggio del jazz, tonale e armonico, proviene dalla musica classica occidentale. Probabilmente alcuni brani dell’album risentono di queste influenze, e forse questo è più evidente in questo disco che nei miei lavori precedenti. Penso che la mia comprensione dell’armonia e la mia capacità di suonare con la tonalità gestendo armonie complesse siano maturate nel tempo. Sì, a ben vedere c’è un suono molto classico e ci sono alcuni riferimenti espliciti alla musica classica. Per esempio l’apertura di Over the Jelly-Green Sea è una specie di corale bachiano. Forse c’è una maggiore raffinatezza armonica che ha ispirato la musica di questo album rispetto ad altri miei precedenti.

Joshua Redman

In questo album – anche nel precedente – collabori con Gabrielle Cavassa alla voce. Come si è sviluppata questa sintonia e cosa ti ha colpito della sua interpretazione?

È stata una collaborazione davvero unica e molto stimolante. Abbiamo iniziato a collaborare senza aver mai suonato insieme, senza nemmeno esserci incontrati. È stato durante la pandemia e la gran parte delle nostre comunicazioni era virtuale, tramite email o messaggi. Ogni tanto parlavamo al telefono. Tutto questo non è mai successo con i miei collaboratori precedenti. Sono sempre stato colpito dalla vulnerabilità del suono di Gabrielle, dalla sua espressività e anche da una certa intimità. Fa sentire, anche a distanza, la sua presenza, e trovo davvero bella la malinconia che pervade la sua voce, ricca, piena, con un uso interessante della dinamica. Si trattava soltanto di incontrarci. Io penso di essere a mia volta un collaboratore sensibile ed empatico e non cerco mai di imporre la mia visione e la mia estetica a nessuno. Piuttosto cerco di metterla in connessione con quella degli altri. E poi, sai, un po’ di tensione fa anche bene. Abbiamo inciso «Where Are We» e poi siamo andati in tour per un anno e mezzo circa. Ed è stata un’esperienza stimolante e appagante.

Hai suonato in molte formazioni diverse nel corso della tua carriera. Che tipo di dialogo cercavi con i musicisti di questo album?

Sempre lo stesso che cerco di instaurare con i musicisti con cui mi trovo a suonare. Quello del momento. Il jazz è musica improvvisata e noi non facciamo altro che raccontare storie, solo che queste storie non sono scritte e non sappiamo veramente cosa diremo. Per cui cerco sempre la stessa cosa, vale a dire una conversazione genuina, onesta e creativa, coraggiosa ma anche sensibile. Tutti in questa band sono più giovani di me, hanno la metà dei miei anni ed è la prima volta che suono con musicisti che non fanno parte della mia generazione e neanche di quella precedente. Sono musicisti veloci e suonano con molto dinamismo, potenza ed energia e allo stesso tempo, nonostante l’età, sono sensibili e maturi. Ed è questo il motivo per cui li ho scelti. L’album è incentrato principalmente sulle canzoni, in realtà è un album di ballads e vedo che questi ragazzi si sono trovati molto a loro agio con questo tipo di strutture.

C’è un profondo senso di intimità in tutto l’album, quasi un tono confessionale. C’era un’urgenza personale dietro questa direzione?

Non in particolare. Molta della musica incisa nell’album è stata scritta durante un periodo molto teso e intenso, travagliato. Era il periodo della pandemia. Ho provato una sensazione di nostalgia del passato mista a una certa apprensione per il futuro. E ho cercato di restare concentrato e produttivo, nonostante il brutto periodo che tutti stavamo vivendo. Forse tutto questo è venuto fuori. Non so. Non riesco a trovare la parola giusta per descriverti come mi sentivo ma era qualcosa che assomigliava al blues, una musica con la quale riesci ad affrontare difficoltà, avversità. Il blues è una musica in cui c’è anche gioia, e questo dualismo ho cercato di trasferirlo nella musica dell’album. Alla fine il disco l’abbiamo registrato velocemente in meno di due mesi, e non era stato pianificato, però la musica era stata concepita su un tempo più lungo. Ora non so se urgenza è la parola giusta, ma c’erano freschezza e una certa leggerezza, per quanto stessimo lavorando sodo. Diciamo che tutto è avvenuto in maniera spontanea, e credo che questa spontaneità abbia giovato all’intero progetto.

Joshua Redman

Come pensi che «Word Falls Short» si inserisca nella tua discografia? È la fine o l’inizio di una nuova fase? 

Non riesco proprio a rispondere. Di solito non penso alla mia discografia. Ho l’abitudine di lavorare sodo sui miei dischi ma poi li odio. Dopo molto tempo li riascolto e penso: «Però, non era poi così male», oppure: «Era davvero brutto». Credo sia molto pericoloso per me pensare di agire nella musica «del momento» o valutare la mia carriera, la mia discografia, come se fossi uno che guarda dall’esterno, perché ritengo che sia il modo di perdere in autenticità. Per cui lascio agli altri il compito di capirlo. Ho fatto, come probabilmente sai, diversi dischi in quartetto. Ho avuto tre quartetti principali: il primo era con Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade, il secondo era con Aaron Goldberg, Reuben Rogers e Gregory Hutchinson; anche questo alla fin fine è un altro quartetto e spero che rimanga unito un bel po’. È una band speciale.

In un’epoca così piena di rumore e di velocità, che ruolo pensi possa rivestire un album silenzioso e riflessivo come questo? Ritieni, in un certo senso, che si tratti anche una dichiarazione politica?

Potrebbero esserci delle implicazioni politiche anche se non suono musica esplicita, da questo punto di vist,a perché non sono mai stato in grado di farlo in modo autentico. Però è ovvio, è sotto gli occhi di tutti che viviamo in un’epoca in cui l’umanità sembra essere sotto attacco. Le macchine sembrano ormai in grado di fare le stesse cose che fanno gli uomini, mi riferisco ovviamente all’intelligenza artificiale. Non credo sia ancora così o, almeno, sarà perché io non la uso. Però è chiaro che ci troviamo nel mezzo di una evoluzione tecnologica senza precedenti e, in un certo senso, il titolo del mio album si riferisce anche a questo. Tutta questa intelligenza artificiale, ChatGPT e roba simile, lavora per te, trova le parole giuste per te ed è per questo che le parole oggi sono inutili, perché gli esseri umani sono imperfetti così come il loro linguaggio, non sono modelli statistici e mai lo saranno. Il cervello umano non è un algoritmo. Ma credo che alla fine le macchine supereranno l’algoritmo e l’essere umano proprio da questo punto di vista. Ma le macchine riescono a capire le ombre? Quelle che raggiungono l’indicibile? Non vorrei che tu mi fraintendessi. Non sto dicendo che dobbiamo tornare indietro ma credo che ridare un imprinting umanistico alla nostra epoca sia necessario. O almeno voglio crederci. C’è qualcosa nell’esperienza umana che non è codificabile.

Tra tutti i musicisti con i quali hai collaborato quali sono quelli che hanno lasciato un segno dentro di te?

Tutti. Non facciamo altro che scambiarci emozioni, collegare le nostre anime tra loro. Potrei elencare tutti i grandi maestri con i quali ho suonato oppure tutti i musicisti della mia generazione, ma tutti indistintamente hanno lasciato un segno dentro di me.

E tuo padre? Cosa ricordi di lui?

Che era un grande musicista, un grande sassofonista e una delle mie più grandi influenze…

Quando ero più giovane ero un grande fan di tuo padre…

Io lo sono ancora. Sai, la gente diceva sempre che non assomigliavo per niente a Dewey e penso che, in un certo senso, fosse e sia ancora vero. Io suono come sono capace di fare, mi sento me stesso quando suono, e più la mia identità musicale si sviluppa e diventa matura più vi sento echi di mio padre. Più suono come me stesso e più mi sembra di suonare come lui.

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