Vision Festival, numero 29: l’arte di resistere

Nuova edizione del festival organizzato, da quasi trent’anni, da Patricia Nicholson Parker, e anche quest’anno con un cartellone di particolare pregio

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Con l’entusiasmo della passione, l’ostinazione della volontà, la fiducia indelebile nell’arte e nelle sue ragioni – che ostentatamente all’arte stessa appartengono e non ad altro – Patricia Nicholson Parker conduce ogni anno, e da ben ventinove ormai, il Vision Festival, baluardo di quella che comunemente viene considerata come l’avanguardia della free music americana, con qualche sporadica diramazione europea o orientale. Noi, che seguiamo annualmente il festival fin dai suoi inizi e ne rendiamo conto su queste pagine dal 2005, ne abbiamo anche condiviso gioie e dolori, fervori e amarezze, sostenuti dall’inalienabile confidenza nella sincera lealtà di chi ne anima i motivi stessi della sua esistenza. Patricia, danzatrice inarrestabile e moglie di William Parker, il contrabbassista e punta di diamante della cosiddetta downtown music avant-garde di New York, è anche la leader di Arts For Art, che produce il Vision. Un’associazione culturale che già nel suo nome indica fede, se vogliamo persino un dogma incrollabile, in un mondo che, non solo nelle arti, scricchiola sempre di più e lima le fiducie di chi nella pura espressione creativa ha sempre creduto. Basterebbe tutto ciò per fare del Vision un punto di riferimento iconico e di Patricia un’eroina, una pasionaria da ammirare incondizionatamente. Però, volendo a tutti i costi chiamare in causa Goethe («Non c’è via più sicura per evadere dal mondo, che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte») o persino Janis Joplin, dunque Kris Kristofferson («Libertà è solo un’altra parola per dire che non c’è nient’altro da perdere»), col tempo l’evasione, il legame e la libertà di certa arte musicale sono diventati concetti sempre più conchiusi in un ambito prettamente ideologico. Con il rischio, allora, per i suoi fautori di rimanere fini a sé stessi o citati solo da una cerchia sempre più ristretta di «adepti». Fatto sta che il pubblico che segue con perenne esultanza il festival si è non solo ridotto nel tempo, ma è inevitabilmente rimasto anche facilmente identificabile nel difendere questo Fort Apache della free music. Noi, che vorremmo essere come i Davy Crockett della situazione, difendiamo e rispettiamo questo pubblico e i suoi beniamini, concedendoci solo il doveroso esercizio di punzecchiare lì dove ci sembra necessario, ed elogiare quando l’arte ce lo concede. Detto ciò, l’edizione di quest’anno presentava una serie di concerti di tutto riguardo, con una dedica speciale a Roscoe Mitchell, premiato con il Lifetime of Achievement, riconoscimento senz’altro dovuto al sassofonista di Chicago, che reca con sé l’onere glorioso di avere scritto, per più di sessanta anni di carriera, alcune delle pagine più belle e rigorose del jazz contemporaneo, con e senza l’Art Ensemble of Chicago. Il motto di quest’anno del Vision era «heArt to Resist», gioco di parole indubbiamente rivolto alla situazione politica e culturale tutt’altro che semplice negli Stati Uniti. Difatti, nell’elenco degli sponsor e dei sostenitori del festival, l’organizzazione ha puntualizzato che il sussidio del National Endowment for the Arts di Washington, una garanzia annuale, è stato cancellato, com’era del tutto prevedibile, purtroppo. L’arte di resistere ha comunque le sue vie e i suoi percorsi, che spesso diventano accidentati e forse proprio per questo possono acuire le esperienze creative in senso collettivo, come ogni buon musicista sa bene. Non un segnale negativo è apparso sulle scene nei sei giorni del Vision, con alti e bassi di valori artistici, ovvio; anzi per tutti, fra musicisti e organizzatori, è valsa la dignità di chi è consapevole di operare in senso positivo verso il pubblico, che in manifestazioni di questa natura è particolarmente coinvolto in un’osmosi creativa a volte esaltante. Roscoe Mitchell nella giornata d’apertura si è espresso come poteva: in questo periodo certamente non ha la vigoria di un tempo, con i suoi ottantacinque anni il prossimo agosto, quindi ha suonato poco e a sprazzi il sax soprano, cimentandosi a volte con le piccole percussioni. D’altronde tre concerti in una serata per lui potevano essere anche troppi, pur se i compagni di viaggio erano di tutto rispetto: Dave Burrell, William Parker, Thomas Morgan, Immanuel Wilkins, Micah Thomas, Scott Robinson, solo per citarne alcuni in due quartetti e un large ensemble. In paricolare proprio il concerto con grande organico, la Metropolis Trilogy, era quello dove evidentemente Mitchell aveva riposto le sue maggiori aspettative, come compositore e direttore d’orchestra. 

Però la musica, senz’altro rigorosamente strutturata, ha faticato a lievitare, rimanendo in ambiti fin troppo rigidi, dove neanche gli archi hanno potuto avvolgere e affascinare. Non credo si possa pretendere di più oggi da un artista che ha dato tanto, al punto di diventare un’icona nella musica contemporanea. Il jazz è ora per lui uno dei linguaggi che a volte affiorano nelle sue composizioni, ma non il principale, visto che le ambizioni in tarda età sembrano dirigersi verso qualcosa di maggiormente onnicomprensivo, dove persino l’improvvisazione è relegata ai margini. Di diversa natura, più ariosa e legata fortemente alle radici musicali africane è stata la performance del Black Earth Ensemble della flautista Nicole Mitchell, il giorno seguente. Le doti strumentali della Mitchell sono universalmente riconosciute: non credo che qualcuno possa rivaleggiare con lei come flautista. È semplicemente straordinaria. E al Vision ha anche dato il meglio di sé come band leader, coadiuvata da eccellenti solisti come il sax tenore James Brandon Lewis, smagliante e incisivo, l’altosassofonista Caroline Davis, la pianista Marta Sanchez e la «maga» delle percussioni in elettronica Val Jeanty. Tutti giovani musicisti che oggi formano la front line del nuovo jazz. Si, il jazz finalmente, con le sue strutture mobili, l’improvvisazione, la coralità fra i solisti: qualcosa che a volte sembra essersi disperso fra vasi non comunicanti fra loro. Quello della Mitchell e dei suoi è stato probabilmente il concerto più bello di tutto il festival. Di seguito anche altre performances hanno dato lustro al Vision 2025: in particolare la chitarrista Ava Mendoza sta dimostrando di essere una musicista di notevole rilievo, che ha qualcosa di nuovo da dire con il suo strumento. Il trio che conduce, con Joe McPhee al sax tenore e Chad Taylor alla batteria, ha fatto scintille: è la ricerca sonora della chitarra elettrica della Mendoza ciò che colpisce di più. Se avesse anche il fraseggio e l’inventiva nelle composizioni di una Hedvig Mollestad sarebbe irraggiungibile, ma il tempo è sicuramente dalla sua parte. Vedremo. Le ha comunque fatto da contraltare la più grande che c’è oggi nel jazz «made in USA», Mary Halvorson. La chitarrista americana, sempre alla ricerca di soluzioni nuove, di qualcosa che la stimoli con progetti di natura differente, si è presentata in un quartetto inedito, intitolato astronomicamente Canis Major, assieme al trombettista Dave Adewumi, al contrabbassista Henry Fraser e all’immancabile Tomas Fujiwara alla batteria. 

La musica è quella tipica della Halvorson di oggi: complessa nelle strutture, con spazi solistici ben definiti e una ricerca armonica ben cesellata, al punto di far apparire semplice ciò che non è. Un pregio davvero raro che denota una natura volitiva nello studio del proprio strumento in rapporto al ritmo e soprattutto alla voce della tromba, che funge da controcanto virile a una sottigliezza e una finitura dei dettagli tutta femminile. Tra gli altri concerti ci ha fatto piacere rivedere in azione il trio Fringe del sassofonista George Garzone, con John Lockwood al contrabbasso e Francisco Mela alla batteria. Garzone ha ancora una bella voce col suo tenore, lucido nelle improvvisazioni e mai ridondante. Delicato e avvolgente in una ballad che fa sempre piacere ascoltare, l’ellingtoniana In a Sentimental Mood. Lo stesso non si può dire di un altro sassofonista di rilievo: David Murray, il quale periodicamente cerca di mescolare le carte in tavola del suo stile con progetti poco rifiniti. Al Vision si è presentato in quintetto con l’evidente intento di trovare qualcosa di nuovo nel suo stile, senza capire che la sola bellezza in suo possesso è proprio la padronanza del linguaggio che ha con il sax tenore: quando è in forma diventa travolgente, altrimenti riamane ripetitivo fino alla noia. La chiusura del festival è stata dedicata, come ogni anno, a un nuovo progetto per grande organico di William Parker: divertente ma senza entusiasmare, con una bella presenza di tre danzatrici (tra le quali l’indistruttibile Patricia Nicholson) che hanno reso affascinante l’Healing Message from Time & Space, cioè la denominazione dell’orchestra. Un messaggio di guarigione dalle tante ferite che il mondo si porta dietro in questi aspri anni. Un messaggio che però io vorrei simbolicamente lasciare all’unico concerto in solitudine di questo Vision 2025: un’esibizione molto raffinata, profonda e ben delineata nelle sue figure musicali. È stato il gioiellino regalato da un’artista, una pianista non più giovane che ha però ancora tanto da dire e che sul serio ci aiuta a resistere alle durezze dei tempi e ci solleva dagli affanni: Marilyn Crispell.

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