Henry Threadgill: a celebration

Due giorni di musica e quattro gruppi al Roulette di Brooklyn per far rivivere il magistero compositivo del maestro di Chicago, le cui intuizioni sono ben lungi dall’essersi esaurite

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Con il titolo emblematico «Be Ever Out: The Music of Henry Threadgill» si è svolta, lo scorso Giugno al teatro Roulette di Brooklyn, una celebrazione del compositore, che è fra i più importanti in assoluto nel jazz contemporaneo. È stata una grande festa, con ben quattro gruppi che si sono succeduti nei due giorni della rassegna, ma è stata per molti appassionati anche una vivida rivisitazione, se vogliamo un punto di riflessione su ciò che Threadgill è stato, è e sarà per l’evoluzione della musica che ci sta a cuore. Da lui non si può prescindere per cogliere il progresso del linguaggio jazzistico, e accanto a lui solo pochi altri nello stesso piedistallo: per curiosità – e nemmeno tanto per questa – quasi tutti provenienti da Chicago. L’AACM è la mother of invention, come si dice da queste parti dell’Atlantico, e c’è davvero poco da dubitarne. Non ce ne voglia New York, che contribuisce tuttora a far crescere e sviluppare i vari idiomi della cosiddetta avant-garde, con risultati eccelsi, ma le origini risalgono spesso e volentieri alle sponde del lago Michigan. Abbiamo incontrato più volte Threadgill, ne abbiamo parlato in lungo e in largo fra queste pagine, ma ritornare alla sua musica è sempre un piacere impagabile. Musica per il ventiduesimo secolo, come abbiamo volutamente sottolineato ai produttori della PI Recordings, l’etichetta discografica che da parecchi anni rendiconta con successo le gesta del nostro autore. Li ringraziamo ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno. Proprio di recente, nel numero di giugno, abbiamo parlato della nuova composizione di Threadgill, eseguita in anteprima al Long Play Festival dei Bang on a Can e intitolata «Listen Ship». Lavoro eccelso e insolito anche per il suo autore che mai convenzionale è, con ben quattro chitarristi (Brandon Ross, Bill Frisell, Greg Belisle-Chi e Miles Okazaki), due bassi elettrici (Stomu Takeishi e Jerome Harris) e due pianoforti (Maya Keren e Bahul Carlberg), più il nostro a dirigere. Bene, la lunga suite, suddivisa in 16 pezzi contrassegnati dalle lettere dell’alfabeto, è stata già registrata e uscirà a settembre. Abbiamo avuto il piacere di poterla ascoltare in anteprima: non resta che confermare le positive impressioni avute dal concerto, e anzi aggiungiamo che si tratta di un lavoro di grande complessità strutturale, straordinario nell’esecuzione, che si collocherà come uno spartiacque pur nella proficua produzione del maestro di Chicago (e adottato da New York, giusto per essere precisi!). In più, sempre dai produttori della PI Recordings, abbiamo avuto notizia di un prossimo nuovo album di Threadgill con lo storico gruppo Zooid, dal titolo davvero curioso (ce lo ha detto lo stesso Threadgill al Roulette): «Cut You Where You Was». Il disco sarà registrato in estate e uscirà nei primi mesi del prossimo anno. 

Brandon Ross Darius Jones
Brandon Ross & Darius Jones
Frank Lacy
Frank Lacy

Attivo più che mai, dunque, Threadgill era ovviamente presente nei due giorni di celebrazione della sua musica, ma ha preferito fare lo spettatore, lasciando ai suoi discepoli il compito di rivitalizzare sul palco quelle musiche che hanno determinato punti di svolta nella sua carriera. Si diceva di quattro band: Air Legacy Trio, Very Very Circus, Make a Move, The Sextett. Il trio Air fu la vera prima grande rivelazione dell’arte di Threadgill: con lui ai sax e al flauto c’erano Fred Hopkins al contrabbasso e Steve McCall alla batteria. Davvero una ventata di aria fresca e nuova nel jazz, estesa per circa un decennio, tra la metà degli anni Settanta e quella degli Ottanta. Una formazione rivoluzionaria che fece sensazione e sconvolse le usuali basi del triangolo fiati, basso e batteria, con soluzioni inedite, a volte esplosive. Oggi che purtroppo né Hopkins né McCall sono più tra noi, Threadgill ha voluto indicare in Marty Ehrlich (sax e flauti), Hilliard Greene (contrabbasso) e Pheeroan akLaff (batteria) gli eredi di quel trio. Compito non certo facile, con un’eredità pesante sulle spalle, che i tre hanno eseguito al meglio delle loro possibilità, che sono notevoli ma non paragonabili a quelle dei tre giganti di allora. Comunque il trio, che avevamo già visto lo scorso anno al Big Ears, ha funzionato molto meglio, con maggiore consapevolezza e lucidità nell’eseguire quella musica. Di seguito, nel primo dei due giorni, è arrivato il Very Very Circus, gruppo che forse rappresenta la summa del Threadgill d’annata, quello speciale come compositore. Alle tube due devoti proseliti: Marcus Rojas e José Davila; idem per i due eccelsi chitarristi: Miles Okazaki e Brandon Ross, quindi il contrabbassista Chris Bates, il batterista Gene Lake e il giovane sassofonista Noah Becker (da non confondere con l’omonimo più anziano di origine canadese), che ha svolto in maniera esemplare il difficile compito di trovarsi al posto di Threadgill. Un settetto, dunque, che ha proposto la musica più elettrizzante, inclassificabile, gioiosamente elegiaca del maestro: il set più bello di tutt’e due le serate, con l’indicazione di Becker quale possibile nuovo astro nascente fra i sassofonisti dell’ultima generazione. Il giorno seguente è stata la volta del quintetto Make a Move e del Sextett: altre due storiche formazioni a largo raggio stilistico, con contrapposizioni interne di rara efficacia. 

David Virelles
David Virelles
Jonathan Finlayson
Jonathan Finlayson

Con ciò s’intende dire, nel caso di Make a Move, di una certa difformità stilistica fra due solisti, quali il chitarrista Brandon Ross, perfettamente inserito nell’etica artistica di Threadgill, e l’altosassofonista Darius Jones, più incline all’improvvisazione viscerale, idiosincratica. I due erano precisamente omologati dall’originale tessuto sonoro dell’organetto a pompa manuale del tastierista David Virelles, in una posizione inedita nella struttura musicale dei brani di Threadgill. Con loro, a fare da collante e da motore ritmico incessante, il bassista elettrico Stomu Takeishi e il batterista JT Lewis. Da questo insolito mélange è emersa una versione travolgente della musica del maestro, tanto da fungere da stimolo per ulteriori sviluppi futuri. È stato il set più sorprendente fra tutti e quattro, forse tanto da oscurare quello finale, del Sextett, che sulla carta era quello più smagliante ma che è stato a nostro parere un po’ disturbato dalla presenza dello stagionato trombonista Frank Lacy, anche nelle veste di conduttore. Lacy, con i suoi frizzi e lazzi fuori luogo in una musica eminentemente rigorosa, non ha fatto altro che disturbare, a volte corrompere il tessuto delle composizioni. Nonostante ciò gli riconosciamo una verve solistica effervescente, che per esempio con la Mingus Big Band è perfettamente consona al risultato finale.. Con lui nella band il ben noto trombettista Jonathan Finlayson, il sassofonista e flautista Mike Lee, il violoncellista Christopher Hoffman, il contrabbassista Ken Filiano e ben due batteristi, Newman Taylor Baker e Reggie Nicholson. Come si vede già dalla formazione ci si poteva aspettare un set sontuoso, ricco di puntuali interventi solistici, e così è stato in parte, ma la struttura raffinata, intricata dei brani di Threadgill cedeva spesso sotto le stentoree gestualità di Frank Lacy, che da direttore dell’organico aveva addirittura difficoltà a leggere, quindi interpretare, gli spartiti. Forse aveva voluto parafrasare a suo modo il titolo della rassegna: Be Ever Out (Sii sempre fuori)! 

Darius Jones
Darius Jones

Alla fin fine abbiamo assistito a due giorni celebrativi ma allo stesso tempo propedeutici per l’arte di Henry Threadgill, che non solo ha la preziosa caratteristica di essere mobile, raffinata e complessa, ma ha anche la qualità dell’innovazione costante, con sorprese evidenti anche per chi è avvezzo all’estetica del compositore. Specialità impagabile, quest’ultima, che proietta il maestro di Chicago tra i grandi di sempre nella storia del jazz.

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