«V» ci fa assaporare un nuova idioma jazz, con nuances che arrivano da ogni parte della storia della musica, che Niia conosce molto bene. Al secolo Niia Bertino, dai natali in Massachusetts ma residente a Los Angeles, ha da sempre masticato musica, visto che la nonna materna era una cantante lirica italiana. Il battesimo musicale lo ha somministrato niente poco di meno che Wyclef Jean in combine con il produttore Jerry Wonda. Il suo quinto album è una merge di sonorità e di belle novità.
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Una delle tue prerogative e abilità artistiche è quella di sfumare i generi musicali, di farli confluire uno nell’altro con estrema naturalezza. E così fai anche in questo tuo quinto album in studio che, forse più degli altri, è marchiato dal jazz. Questa ibridazione tra generi ti riesce naturale o la tua è una ricerca e un lavoro compositivo che svolgi accuratamente e appositamente?
Onestamente, mescolare i generi mi è sempre venuto naturale. Sono cresciuta ascoltando ogni tipo di musica: jazz, R&B, classica, pop, quindi mi è difficile tenereli separati quando scrivo. Non è tanto una strategia quanto piuttosto… il modo in cui percepisco le cose. Adoro trovare quegli spazi intermedi in cui i suoni si sovrappongono e si fondono insieme.
Per questo album ho cercato in modo più consapevole di capire quale fosse la mia interpretazione del jazz, e questo mi ha portato in un luogo del tutto inaspettato, che è la parte che preferisco.
I precedenti tuoi quattro album hanno anche un titolo, quest’ultimo solo un numero. C’è una ragione in particolare?
Beh, il mio primo album era intitolato «I», che era il numero romano uno, ma tutti pensavano che fosse la lettera «i». Non mi importava, ero solo felice che la gente lo ascoltasse! Chiamarlo «V» mi sembrava giusto. È il mio quinto album e volevo che fosse semplice, più simile a un capitolo che a un titolo. Non volevo pensarci troppo o incasellarlo. La musica parla da sé.
Niia, cosa rappresenta il jazz per te?
Sto ancora cercando di capire cosa significhi per me il jazz, forse non dovrei farlo. In questo momento, mi sembra uno specchio: riflette ovunque mi trovi. Guardo agli altri artisti per aiutarmi a continuare a crescere e trovare le mie risposte.
Miles Davis ha detto: «Non dovresti mai sentirti a tuo agio».
Charlie Parker ha detto: «La musica è la tua esperienza, i tuoi pensieri, la tua saggezza. Se non la vivi, non uscirà dal tuo strumento… non ci sono confini nell’arte». Queste citazioni mi hanno colpito profondamente.
(sorridendo, N.d.R.) Ma il jazz non è musica per vecchi?
(Niia ride, N.d.R.) Ahah, no, il jazz non è per gli anziani. È senza tempo! Penso che ultimamente sia stato presentato in modo un po’ troppo prudente o formale. Ma l’energia, l’anima, l’improvvisazione sono eternamente giovani. E poi io non sono vecchia, quindi non può essere vecchio!

Foto di Silveszter Mako
Di certo il tuo concetto di jazz che ascoltiamo in «V» è veramente diverso dall’accezione che viene rappresentata oggigiorno, soprattutto da un certo jazz americano, molto cerebrale. Che ne pensi di questa corrente jazzistica? Intendo musicisti come Steve Lehman, per esempio.
Mi piacciono tutti i tipi di jazz: c’è sempre qualcosa da imparare. Penso che il miglior jazz abbia quattro caratteristiche: gusto, coraggio, individualità e irriverenza. Come cantante, mi interessa trovare un ponte tra quel mondo jazzistico sperimentale e ambientale e qualcosa di emotivo. Voglio continuare a mettermi alla prova e vedere come me la cavo. Non sono ancora pronta per suonare gli standard… ma un giorno lo farò. Ricordatevi le mie parole!
Torniamo a parlare di «V». Quale è stata la genesi di questo disco? Chi sono i tuoi collaboratori?
«V» è nato da una domanda: come suona un cantante jazz moderno? Ho passato molto tempo a riflettere e ad ascoltare, poi ho capito che dovevo semplicemente iniziare a farlo e lasciare che fosse il processo a guidarmi. Non potevo pensarci troppo, dovevo solo buttarmi.
Ho lavorato con tantissime persone incredibili su questo disco: Lawrence Rothman, Spencer Zahn, Dennis Hamm, Anna Butterss, Benny Bock… e molti altri ancora. Mi sento davvero fortunata. Mi hanno aiutata tutti ad arrivare fin qui.

Giudicheresti questo tuo disco una rivoluzione nell’ambito della tua concezione musicale?
Non la definirei una rivoluzione, piuttosto un’evoluzione. Ogni progetto mi insegna qualcosa di nuovo su me stessa, il che è eccitante ma anche un po’ terrificante. Mi sembra di essere quella che sono stata fino ad ora. «V» mi sembra la versione più onesta di me stessa finora.
Il tuo short film Are you mad at me affermi che spiegare il tuo lavoro può essere difficile.
Spiegare l’arte è complicato: parlarne troppo uccide la magia. Viviamo in un mondo di contenuti in cui tutti vogliono una storia sulla storia, e penso che ci si possa perdere in questo. Non tutto deve essere compreso, basta solo essere percepito.
In Are You Mad at Me, ho esplorato quanto sia difficile per me spiegarmi alle persone. Quando inizi a preoccuparti troppo di essere compreso o giudicato, diventa pericoloso. Più facile a dirsi che a farsi, però.

Foto di Silveszter Mako
Quali sono i tuoi ascolti musicali abituali? E quali erano i tuoi ascolti da adolescente?
Ascolto un po’ di tutto: molto jazz di vecchia data come Bill Evans e Chet Baker e ultimamente molta musica ambient. Da adolescente ascoltavo solo Ella Fitzgerald, Fiona Apple, Sade, D’Angelo… quegli artisti malinconici ed emotivi hanno sicuramente influenzato il mio modo di scrivere. Anche molto Ennio Morricone e Chopin.
Oh, e una volta sono stato sospesa a scuola per aver ascoltato Lady Sings the Blues di Diana Ross. Ne è valsa davvero la pena. Inoltre, devo confessare che ultimamente guido per Los Angeles in silenzio. Forse è il mio tratto da serial killer… A volte il silenzio è ciò di cui ho bisogno.
Come agisci in fase di composizione?
Cambia continuamente. A volte inizio con il testo, altre volte solo con qualche accordo al pianoforte. Altre volte ancora, lancio un’idea o uno stato d’animo e vedo cosa iniziano a suonare gli altri nella stanza, poi mi lascio trasportare.
A volte le canzoni prendono forma in un giorno, altre volte ci vogliono anni. Cerco di non forzare le cose. Ultimamente ho capito che non riesco a stare seduta dietro a un produttore fissando la sua nuca per troppo tempo. Ho bisogno di stare da sola al mio pianoforte, oppure di avere intorno a me persone di grande talento ed energia.
La tua formazione pianistica è quella sulla musica classica. E’ una musica che hai abbandonato del tutto?
Ho davvero bisogno di tornare a esercitarmi al pianoforte. È buffo: più lavoro, più mi sembra che la mia tecnica peggiori. Il pianoforte classico mi calma ancora, però. Non l’ho abbandonato, sono solo stata viziata da tutti gli incredibili pianisti con cui ho lavorato ultimamente. In realtà è stimolante lasciare che qualcun altro porti i miei accordi verso nuove direzioni. Ma sì, grazie per avermelo ricordato…

Foto di Silveszter Mako
Quali sono i tuoi progetti e gli impegni futuri?
Sicuramente più musica. Forse un libro di poesie, forse finire una delle mie sceneggiature. Voglio solo continuare a creare in modi che mi sembrino eccitanti e reali. Forse qualche colonna sonora o sound design…
Inoltre, vorrei davvero adottare un cane presto. E forse finalmente dedicarmi al giardinaggio.
Alceste Ayroldi>