Musica da cinema e memoria che galoppa

La Roma del Piper e di Cinecittà, gli ottant’anni della Liberazione, la Francia, il Brasile, la Puglia di Modugno e della taranta

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La Roma anni Sessanta aveva, fra gli altri, un paio di simboli ben riconoscibili: Cinecittà e il Piper. Due libri e qualche disco di recente pubblicazione ci inducono a un sopralluogo in argomento. Partiamo da Il Piper Club, tempio del beat dal 1965 (Vololibero) di Corrado Rizza, al quale si deve in realtà la curatela (non sempre inappuntabile) di un volume bio-fotografico-documentaristico a più firme (compresi diversi artisti) che rende comunque bene l’idea di qual era la temperie, il clima, dell’epoca, parlando di un locale oggetto di culto come pochi, frequentato dalla gioventù di un periodo carico di fermenti come pochi, ma anche da intellettuali e artisti di vaglia, da Mario Schifano a Luchino Visconti, Vittorio Gassman e svariati altri. Da consumare come le più golose madeleines di turno…

Al cinema nel suo legame con la musica è dedicato invece un volume antitetico, Come si ascolta un film? (Efesto) di Marco Testoni, oltre seicento pagine fitte fitte, veramente enciclopediche, in cui l’autore mette dentro proprio tutto ciò che si può immaginare, filmografie minori comprese, non lesinando giudizi e aneddoti personali che insaporiscono il tutto, facilitando non poco una lettura di per sé alquanto impegnativa (lo stesso autore consiglia di procedere a spot, scegliendo prima ciò che più attrae e poi approfondire).

In tema di colonne sonore, eccoci poi alla prima ristampa in vinile (giallo) de «La Ciociara» (Cinevox/AMS), soundtrack a firma di Armando Trovajoli del discusso remake TV datato 1989 del film di Vittorio De Sica, sempre con protagonista Sophia Loren, nello specifico anche nelle vesti (piuttosto agevoli) di cantante. Tutto scorre via spedito, con molti archi e non altrettanti palpiti, quelli che invece ci sa regalare «Hotel de l’Univers» (Squilibri) di Enzo Moscato, cantattore napoletano, classe 1948, scomparso nel gennaio 2024. Trattasi di un tributo dichiarato al cinema, con ospite Enzo Gragnaniello, copertina di Mimmo Paladino e brani di Bovio, Rota, Chaplin (leggere al proposito il capitolo del volume di Testoni dedicato alla sua pelle di compositore), Piovani, ecc., oltre che dello stesso Moscato, che li attraversa con una vocalità vagamente da femminiello (nel senso teatrale del termine), e Pasquale Scialò. Belle suggestioni e tanto garbo.

Copertina gustosa (di Marcho Gronge) ed effluvi di cinema anche in «Descansate Niño» (Folderol), opera prima del chitarrista Giacomo Ancillotto, che in un album rigorosamente strumentale insinua la più nota canzone di Ennio Morricone, Se telefonando (da solo), nonché Sinno’ me moro, scritta da Carlo Rustichelli per Un maledetto imbroglio di Pietro Germi (1959), quindi ancora cinema, così come in un omaggio a Henry Mancini che si aggiunge a un altro a Duke Ellington, oltre al titolo del cd che allude esplicitamente ad Athaualpa Yupanqui via Paolo Conte. Disco di estremo buon gusto e misura, in trio con Marco Zenini al basso e Alessandra D’Alessandro alla batteria.

Con «La scelta» (Materiali Sonori) di Letizia Fuochi (e non pochi ospiti) entriamo nel campo delle celebrazioni vere e proprie, visto che stiamo parlando di un insieme di undici brani riferiti a resistenze di varia natura ed estrazione, concepito in occasione degli ottant’anni della Liberazione. Voce chiara, dizione nitidissima, contorno strumentale elegante ed evocativo, la cantante fiorentina ci regala un cd di notevole profilo, infilandoci dentro, accanto a pagine sue e del chitarrista Frank Cusumano (per lo più), Dante di Nanni degli Stormy Six, Li vidi tornare di Tenco e Se equivocò la paloma di Rafael Alberti (tradotta come La colomba da Sergio Endrigo), oltre a un omaggio a Victor Jara in Quel giorno di settembre (e ancora una gran bella copertina, di Agnesema).

Riprendendo il titolo di una storica canzone di Claudio Lolli (che però qui non c’entra), il toscano Ivan Francesco Ballerini battezza «La guerra è finita» (Radicimusic) il suo quarto album, riferendosi implicitamente a sua volta a un capitolo di storia che si pensava chiuso ottant’anni fa e che invece è tornato prepotentemente d’attualità. Con una vocalità, e in fondo anche una linearità di scrittura, che ricordano non poco Vecchioni, il Nostro attraversa le sue nove canzoni nuove con tratto assolutamente pacifico, incruento, e quindi beneagurante.

Armando Trovajoli
Armando Trovajoli

Chissà cosa si sarebbe pensato delle ambasce in cui ci stiamo oggi dibattendo nel 2004, quando è stato inciso «Una notte a Milano (autoprodotto), live di bella chiarezza ispirativa del pavese Lorenzo Riccardi, che ci piazza dentro quattordici brani suoi più Southern Pacific di Neil Young e Via della povertà, traduzione targata De André/De Gregori di Desolation Row di Bon Dylan. Il clima, in effetti, è quello, intriso di chitarre [e (fis)armonica, e contrabbasso] country folk risciacquate a fonti a noi più prossime (in senso lato), con Mauro Pagani (al bouzouki) e Giorgio Cordini ospiti in alcuni momenti del concerto.

Da Pavia proviene anche Mafalda Minnozzi, peraltro ormai paulista (San Paolo) a tutti gli effetti, come ci conferma una volta di più il recentissimo, agilissimo «Riofonic» (MPI), inciso a Rio col fido Paul Ricci alla chitarra e un bel manipolo di ospiti, primo fra tutti Roberto Menescal, voce e chitarra acustica, nonché Jaques Morelenbaum al cello. Quattordici i brani visitati con la consueta immediatezza e levità, con Jobim e lo stesso Menescal principali firme in scaletta, ma pure il Modugno di Tu sì ‘na cosa grande, che c’introduce come meglio non si potrebbe a un altro album di assoluta grazia e pulizia (ma anche inventiva) come «Di blu» (autoprodotto), omaggio monografico cofirmato dalla cantante/chitarrista Giulia Pratelli e dal chitarrista/polistrumentista Luca Guidi. Nove i brani rivisitati, compreso quello appena citato, che vinse il Festival di Napoli del 1964 (con Modugno abbinato a Ornella Vanoni), e poi Amara terra mia (da un canto popolare abruzzese), Cosa sono le nuvole (testo di Pasolini, com’è noto), Vecchio frac, Piove, Meraviglioso e ovviamente Nel blu dipinto di blu. Fra tanti possibili omaggi, siamo del tutto convinti che il Mimmo nazionale questo la avrebbe gradito alla grande, per garbo, rispetto e insieme capacità di dare nuovo respiro a canzoni strabattute (con ospiti).

Cinecittà

Il garbo non fa certo difetto neppure a «Ramour» (Tuk Voice), opera prima di Fontamar Consort, vale a dire la coppia francese composta da Jean Fontamar, pianoforte e composizione, e Laurianne Langevin, voce, da molti anni camuni d’adozione, più i leccesi Marco Bardoscia e Vito De Lorenzi, basso e batteria (anche qui più ospiti, fra cui Paolo Fresu). Definito «l’incontro tra il rigore della composizione e la libertà dell’improvvisazione, tra suoni moderni dal respiro classico, tra Francia e Salento», il cd possiede uno charme tipico del contesto, lingua francese e portamento qua e là quasi cullante, ciò che magari non lo apparenta ma neppure lo divide come di primo acchito potrebbe apparire da un altro album – questo integralmente – di area salentina, «Arnissa» (Squilibri) dell’Arneo Tambourine Project, voci, tamburelli e altro raccolti attorno a Giancarlo Paglialunga, già membro del Canzoniere Grecanico e dell’orchestra della Notte della Taranta. Qui la componente popolaresca ha il sopravvento per distacco, con quel profumo di antico-ancestrale che le voci accarezzano e l’abbinamento tamburi/mantici fa galoppare lancia in resta. E con questo anche per oggi abbiamo finito.

UNSPECIFIED – CIRCA 1970: Photo of Dominico Modugno Photo by Michael Ochs Archives/Getty Images
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