Intervista a Stefano Bollani

Il pianista suonerà in duo con Trilok Gurtu per il Venezia Jazz Festival il 25 giugno. Di seguito un estratto dell’intervista che sarà pubblicata prossimamente sulla rivista Musica Jazz.

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Se, come ha chiamato Tiziano Scarpa un suo delizioso racconto del 2000, Venezia è un pesce, perché “è una città da sentire con i piedi, che impegna il cuore e una città che ha orecchi”, allora il Venezia Jazz Festival è il suo profeta. La rassegna, apertasi nella sua XVII edizione il 31 maggio scorso col capolinea al 2 agosto, è una delle più felici intuizioni di Veneto Jazz, perché ha saputo rimodulare progressivamente il territorio e la laguna con un cartellone parimenti attento a captare le nuove sonorità circolanti con l’apertura al pubblico. E che la vecchia Repubblica marinara conservi lo spirito di curiosità, che la rese polo (non solo Marco) di riferimento dei più disparati linguaggi, lo confermano le presenze di quest’anno, che si distribuiranno tra La Fenice, Piazza Mercato di Marghera, l’Isola di San Giorgio Maggiore, il Teatro Goldoni e addirittura Piazza San Marco, dove il 3 luglio è atteso Jean-Michelle Jarre.

Durante le settimane del festival, si alterneranno molti degli artisti che il nostro giornale ha seguito anche recentemente: da Anja Lechner in duo con Francois Couturier a Giovanni Falzone, dal trio di Adam Holzman fino al duo di Trilok Gurtu e Stefano Bollani, che il 25 giugno si ritroveranno ancora una volta a condividere il palco per una, ragionevolmente prevedibile, sessione di pura gioia improvvisativa.

Se c’è un motivo in più per tornare a salutare il pianista milanese e farci una chiacchierata libera, che sarà disponibile integralmente sul nostro giornale, è proprio perché Venezia e il suo Teatro sono luoghi assonanti a una personalità strepitosamente istrionica e solo apparentemente distante come Carlo Goldoni, che della città è la guida silenziosa ancora nel presente.  E il filo rosso è nel modo di intendere il ruolo dell’ironia e della comicità, il malcelato punto di non ritorno con cui tradizionalmente si ghigliottina ciò che è “arte” da ciò che non lo è, con un tic tutto crociano rimasto ad eredità dell’approccio critico. Se Goldoni dovette, insomma, difendere il proprio lavoro perché innovativo sul linguaggio e sulle sacre regole aristoteliche (paragonò i suoi detrattori ai medici che non usano i nuovi farmaci perché non citati da Ippocrate), così Bollani finisce sottovoce nel malcontento dei puristi perché lo vorrebbero, forse, più nel versante ECM che non in quello televisivo e “spettacolare”. Come se le faccende fossero scindibili e non avessero a monte una progettualità espressiva, in entrambi i personaggi vettorialmente disposta a promuovere i valori delle arti, stimolando la curiosità in un pubblico più largo del punto di partenza. Il riso, insomma, finisce all’indice come nella storia del Nome della Rosa. C’è da dire, per concludere le affinità, che tanto il commediografo quanto il musicista, in virtù del garbo d’indole lontano dal polemismo, tirano dritto e di dolersi non hanno alcuna voglia. Bollani al Teatro Goldoni, che dal 1875 porta il nome di chi lo rese celebre già dal 1734, è quindi nel suo luogo pressoché naturale. Per di più, quello di Venezia è un Festival che conosce molto bene, sia solo per l’avervi preso parte sin dalla prima edizione nel 2008, condividendo il palco del Teatro La Fenice con Bobby McFerrin.

Stefano, bentornato a Musica Jazz, ho visto la tua agenda dei prossimi mesi, mi pare di capire che anche quest’estate non fai niente e ti riposi!
Nulla, zero, un po’ di ozio, perché – sai – uno deve anche aspettare un attimo e ragionare sulle cose. Scherzi a parte, c’è grande attesa, da parte mia, per il nuovo gruppo, ma anche per gli altri appuntamenti; li considero tutti “figli miei” e sono sempre curioso di vedere cosa succede.

Partiamo proprio dal Venezia Jazz Festival e dal tuo ritorno in duo con Trilok Gurtu, avete già scelto cosa suonare?
Lo conosco bene da tanto tempo, ci divertiamo moltissimo quando siamo sul palco. Per quanto riguarda il repertorio, diciamo che più o meno l’abbiamo abbozzato … ci saranno un po’ di pezzi scritti da me e da lui, qualcosa di esterno alla nostra musica, magari qualche sorpresa.

Trilok Gurtu

Cosa ti piace del suo modo di fare musica?
Facile: è bravissimo, quindi cos’altro? Però, ti direi che la particolarità è che, anche quando Trilok prende un tempo più “europeo”, quindi più binario che un nove ottavi, per dire, suona in un modo originale come in pochi riescono: non è mai prevedibile quello che farà, dalle poliritmie al tipo di suoni che tira fuori. Devo dire che l’imprevedibilità è la qualità che mi piace di più in tutti i musicisti e che in Trilok ha una luce tutta sua.

Accennavi al modo di interpretare il ritmo, dunque mi è venuto in mente il tuo libro di qualche mese fa, Il tempo della stravaganza. È un titolo molto intrigante per chi ama la musica, perché fa riferimento alla Stravaganza di Vivaldi, con i suoi intervalli e le sue armonie inaudite, ma anche al tempo, senza il quale non c’è musica. Come vivi nella tua musica questi due fattori?
Ah, io li vivo bene! La prendo larga: ovviamente uno studia musica e cerca di andare a tempo, sempre, dopo di che il tempo è una cosa sulla quale impari a fluttuare, come nel jazz in cui hai contrabbassista e batterista che te lo garantiscono, il mio compito è quello di entrare e di uscire da una struttura fatta di armonia e tempo con la massima libertà. Questo è anche il motivo per cui hai bisogno di musicisti solidi insieme per costruire il linguaggio.

C’è anche una forte componente spirituale nel tuo libro, come la fai entrare nella tua musica?
Prima di tutto, quando suono io mi sento in compagnia, mi sento in famiglia … insieme a degli spiriti che mi proteggono, perché, quando mi trovo di fronte a un passaggio di Ravel piuttosto che a un accordo alla Bill Evans, sto anche strizzando loro l’occhio e sento che sono lì. Ho suonato in duo con Chucho Valdés, che essendo cubano è ancora più legato a una forma precisa di spiritualità, e abbiamo condiviso questa stessa percezione. Anche lui ha suo padre sempre accanto così come altri spiriti e questo è molto bello. A volte, poi, ne ringrazio uno in particolare o lo invoco prima di salire sul palco, magari quello di cui sento maggior bisogno in quel momento, può essere Joao Gilberto, Bill Evans o altri.

Questa è la componente “nobile”, spirituale. Però, mi incuriosiva capire come ci si approccia ad un nuovo super quintetto come quello che stai per “varare” in tour: Jeff Ballard, Larry Grenadier, Vincent Peraini e Mauro Refosco. Come si contengono gli ego reciproci, quando si è insieme ad altri giganti?
Ah, guarda, generalmente è molto difficile tenere gli ego dei musicisti, per cui il mio consiglio a chi vuole fare la sua musica è di scegliersi qualcuno che ne abbia poco … però con i quattro in questione non c’è stata alcuna difficoltà, li conosco tutti molto bene (solo con Mauro Refosco alle percussioni non ci siamo incrociati, ma abbiamo tanti amici in comune e mi sento sicuro di essere sulla stessa lunghezza d’onda). Il trucco, comunque, resta suonare con musicisti che non muoiono dalla voglia di mostrare quanto sono bravi; qui poi sono tutte persone con più di cinquant’anni, se arrivi a quell’età che ancora vuoi dimostrare quanto sei bravo, allora hai una questione più ampia con te stesso da risolvere. Però voglio dirti una cosa alla quale tengo …

Ci mancherebbe!
Io suonavo in trio con Jeff e Larry e poi a certo punto Brad Mehldau li ha chiamati entrambi nel gruppo. In quegli anni lui lavorava con Jorge Rossi alla batteria … credo fosse il 1999 quando facemmo uno splendido tour in trio. Chiaramente non sto dicendo che Brad mi abbia rubato l’idea, ma era solo per dirti che era evidente l’alchimia, in fondo Larry e Jeff si conoscono e suonano fin da quando sono ragazzini.

Paolo Romano

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