A pochi mesi dall’uscita di «Axes», disco che ha visto Jim Black affiancarsi al suo Blend3 (con Manuel Caliumi e Michele Bonifati), Andrea Grossi apre le porte del suo mondo musicale: dalla scena milanese dell’improvvisazione radicale ai progetti con Uri Caine, Camila Nebbia e Gerry Hemingway; dai maestri del contrabbasso come Mark Dresser e Barre Phillips, agli insegnamenti ricevuti da Roberto Masotti. Un’intervista a tutto campo in cui il musicista racconta la sua idea di collettivo, l’importanza dell’onestà artistica e la voglia di continuare a sperimentare su più fronti, con uno sguardo sempre vigile e sincero sul presente.
Ciao Andrea, grazie per avermi accolto a casa tua per questa intervista. So che sei appena tornato da Helsinki: cosa ti ha portato fin là?
Sono andato a suonare con il murmur trio, formato da me, Cristiano Calcagnile e Libero Mureddu. Libero vive e lavora a Helsinki da anni, Cristiano era lì per partecipare a un festival di musica d’avanguardia organizzato da Harri Sjöström, così li ho raggiunti e abbiamo fatto alcune date. Collaboro con Libero dal 2022: abbiamo suonato spesso insieme e abbiamo anche alcune registrazioni che spero vedano presto la luce. Una di queste risale alle prime serate della rassegna “avant-garde under-ground” che sto curando nel mezzanino del passante di Porta Vittoria, dove ha sede il coro Cantosospeso. Sono amici con cui collaboro e mi mettono volentieri a disposizione lo spazio quando voglio organizzare una suonata con musicisti di passaggio a Milano. Purtroppo le occasioni per suonare certi repertori sono poche. Ma è meglio di niente, almeno qualcosa succede. Quando abbiamo suonato lì con Libero, c’erano una sessantina di persone. Non capita sempre, certo, ma è un bel segnale.

E con i Nexus come stanno andando le cose? A Torino, al festival, mi hanno detto che il vostro è stato uno dei concerti più belli.
Sta andando bene. Speriamo di riuscire ad avere più concerti. A Torino abbiamo fatto il tutto esaurito, c’era una bella energia in sala e quando senti una partecipazione così forte riesci a dare ancora di più. Almeno per me è così. Quella sera al posto di Achille Succi, che suona nel disco, c’era Roberto Ottaviano. Non era la prima volta che suonavo con lui, ma lo era in ambito Nexus. Abbiamo registrato insieme anche un disco con Steve Swell, «Other Interactions on… July 5th», di Tiziano Tononi ed Emanuele Parrini. L’abbiamo inciso in tre ore, dalle 11 alle 14, perché poi Roberto e Steve dovevano andare a fare il soundcheck al Teatro Out Off per l’Ictus Festival di Andrea Centazzo (anche questo recentemente pubblicato, ndr).


Fai parte anche del trio Vertical Invaders con Tiziano Tononi ed Emanuele Parrini.
Sì, anche se in realtà è il trio che avevano con William Parker. Di recente ci ha suonato anche Joe Fonda: diciamo che è il trio di Tiziano ed Emanuele, più un bassista. Negli ultimi due anni sono stato io. Udu Calls, invece, era un gruppo più piccolo, nato come duo con Daniele Cavallanti e Tiziano, poi diventato un trio con William Parker. Adesso ci esibiamo anche in quartetto, a volte con Luca Calabrese, altre con Riccardo Luppi. L’ultima volta c’era un giovane trombettista che mi ha colpito subito: Pietro Vitali, davvero molto bravo.
Parliamo un po’ dei progetti a tuo nome. Com’è andato l’ultimo anno dopo l’uscita di «Axes»? È un disco che ha lasciato il segno.
Direi bene. C’è stato un bello sviluppo all’interno del gruppo. Jim Black si è affezionato molto al progetto. È vero che già ci conoscevamo, ma non avevamo mai suonato insieme. Quando ha ascoltato la musica, ha accettato con entusiasmo. Si è trovato bene sia con me che con Michele e Manuel, e ci ha fatto dei complimenti meravigliosi durante la registrazione.
Dove avete registrato «Axes»?
In uno studio a Cernusco Lombardone, in Brianza, che si chiama Turangalîla Recording. È gestito da Simone Coen, il fonico che ci segue dall’inizio. Amo lavorare con persone di cui mi fido. Voglio avere controllo sulla musica, ma anche lasciare spazio e responsabilità agli altri. Simone è ormai parte del gruppo, un po’ il nostro “quinto Beatles”. Ha registrato anche gli altri miei dischi, tranne Lubok, di cui però ha fatto il mix. È un fonico professionista con molta esperienza, e suona anche la chitarra. Quando registriamo vuole sempre lo spartito per seguire la musica: è un valore aggiunto enorme poter parlare con lui a livello musicale. Anche Michele Bonifati, che ha da poco aperto il suo studio, ha competenze tecniche molto alte, e il dialogo tra lui e Simone durante le sessioni è fondamentale.
Immagino che nel gruppo le decisioni siano molto condivise. Capita che Michele o Manuel boccino qualche tua idea?
Certo! Non sopporto chi non dice quello che pensa, non potrei lavorarci. Abbiamo tre background diversi che però spesso convergono. Io e Michele siamo entrambi appassionati di rock anni ’60 e ’70, ma se dovessimo scegliere 100 dischi preferiti, 99 sarebbero diversi! Questa diversità è una ricchezza. Poi ci sono nomi su cui siamo tutti d’accordo: Tim Berne, Hank Roberts e Bill Frisell, solo per citarne alcuni. Quando scrivo, so che certe scelte creeranno attrito, e questo si riflette nel modo in cui la musica viene interpretata. È uno degli elementi che ci ha permesso di sviluppare un suono riconoscibile. Suoniamo insieme da otto anni, con Michele dal 2012, e ci frequentiamo anche fuori dalla musica. Questo si sente.

Dal vivo suonate ancora brani da «Lubok»?
Sì, ma sono quasi irriconoscibili rispetto alla versione originale. C’è grande libertà interpretativa. A volte capita persino di suonare due brani diversi contemporaneamente… e in qualche modo ci ritroviamo sempre. Siamo arrivati a un punto in cui gli anni di lavoro insieme hanno sedimentato un linguaggio comune che non si può improvvisare con un gruppo appena nato.
Quindi pensi che il gruppo abbia ancora molta strada davanti?
Lo spero, sinceramente. Non ho nessuna intenzione di perdere questa esperienza, che per me è davvero preziosa. I concerti che abbiamo fatto dopo il Covid ci hanno restituito molto anche a livello di risposta del pubblico.

So che ti sei esibito a Capannori, in provincia di Lucca, in quel periodo.
Sì, è stato davvero bellissimo. Stavamo presentando Songs and Poems con Beatrice Arrigoni. Il curatore della rassegna, Antonio Caggiano, ci aveva ascoltato a Ravenna in occasione del concerto in memoria di Roberto Masotti, e ci ha invitati a suonare. Quel periodo di concerti è stato fondamentale per definire il nostro suono. Uscivamo da un momento difficile, ma abbiamo trovato nuova energia. In quel concerto, secondo me, abbiamo toccato un picco: una di quelle serate fortunate. Purtroppo avevamo predisposto una registrazione audio e video, ma entrambe non sono andate a buon fine. Quella serata resterà solo nella nostra memoria!
Di recente avete suonato di nuovo con Jim Black per la Notte del Jazz di Brescia.
Sì, anche lì sono rimasto molto soddisfatto. È stato un bell’evento, e si è creata una grande energia sul palco.

Ricordo che l’anno scorso era stato invitato Marty Ehrlich.
Un grandissimo! Mi piace molto. C’è quel disco con Andrew Cyrille e Mark Dresser, C/D/E: se non lo conosci, te lo consiglio vivamente.
Mark Dresser è un altro nome importante per te, vero?
Assolutamente. È stato un guru per me, insieme a Barre Phillips e Barry Guy. Magari un po’ meno Barry per certe cose, ma sul fronte del linguaggio sullo strumento, Dresser è quello a cui devo di più. A livello espressivo, invece, Barre Phillips è stato fondamentale. E poi ovviamente Gary Peacock, Dave Holland, Scott LaFaro, Miroslav Vitous, Eddie Gomez… Ho avuto la fortuna di studiare con Barre, mentre con Dresser, pur non essendo stato suo allievo, ho potuto approfondire il suo materiale didattico. Ora sta scrivendo un libro di tecnica che non vedo l’ora esca. Ci siamo conosciuti l’anno scorso e siamo rimasti in contatto: mi manda foto dei suoi contrabbassi, mi racconta storie… è fantastico!
So che sei stato a New York lo scorso inverno e hai conosciuto anche Mark Helias.
Sì, sono stato a casa sua. Abbiamo suonato e parlato a lungo, come se ci conoscessimo da una vita. Pochi giorni prima avevo incontrato per la prima volta anche Gerry Hemingway, nel gruppo del clarinettista canadese François Houle, per un concerto in Svizzera. C’era anche Gordon Grdina alla chitarra, un altro musicista canadese con cui suono quasi ogni anno: c’è una bellissima affinità elettiva tra noi. Con Gerry, invece, abbiamo in programma di fare presto qualcosa insieme.

Hai già un progetto preciso in mente? Un disco? Una serie di concerti?
Dipende. Per me, registrare un disco ha senso solo se si è davvero soddisfatti del risultato. Non mi interessa pubblicare per il gusto di farlo. Ci sono troppi dischi in giro, e penso che un’uscita debba valere davvero la pena, almeno per chi la realizza. Ho cose registrate che non farò mai uscire, anche se magari non sono venute male. Semplicemente non sono abbastanza significative per me. Ecco perché cerco sempre la massima sincerità, sia con me stesso sia con i musicisti che suonano la mia musica. Mi aspetto che se qualcosa non funziona, me lo dicano apertamente. Quando sei immerso nel tuo mondo, a volte fai fatica a vedere le cose con lucidità. Serve ascoltarsi a vicenda per migliorare. Io ho bisogno di suonare dal vivo: è un’urgenza vitale. Ma non ho l’urgenza di pubblicare dischi a tutti i costi. Ci sono musicisti che ammiro molto ma che adottano strategie commerciali che non condivido. Ognuno è libero di fare come meglio crede.
Pensi che coinvolgerai Gerry Hemingway in Blend3?
No, con lui mi piacerebbe fare qualcosa di diverso. Ne dobbiamo ancora parlare. All’inizio avevo qualche idea, poi le cose evolvono, cambiano. Vedremo.
Hai collaborato di recente anche con Camila Nebbia.
Sì, abbiamo suonato in duo e ci siamo trovati molto bene, sia sul piano musicale sia umano. Abbiamo registrato in studio e anche il concerto a Cernusco s/N per il WE INSIST! Live. Mi piacerebbe continuare a lavorare con lei, sicuramente in duo ma magari anche in altre formazioni. È una musicista duttile, con una personalità fortissima, come Manuel, ma in modo completamente diverso. Ha una cifra stilistica che emerge con naturalezza in ogni contesto, senza mai essere ingombrante. Una qualità rara.

Un equilibrio difficile.
Verissimo. Il rischio di uscire fuori strada è sempre dietro l’angolo.
Hai altri progetti in arrivo nel prossimo futuro?
Il 7 giugno sarò a Riga per un concerto in trio con Uri Caine e Jim Black. È stato Jim a fare il mio nome a Uri, che cercava un bassista per quella data. È una cosa che mi onora molto. Sarà un unico concerto, durante il quale si aggiungerà anche un sassofonista locale. Suoneremo alcuni brani di Raimonds Pauls, una sorta di Gaslini lettone, considerato un pioniere del jazz dell’ex Unione Sovietica. Ma per ora è ancora tutto abbastanza misterioso: non ho ancora ricevuto uno spartito! Tra l’altro, l’email di invito di Uri era finita nella cartella dello spam, e per fortuna me ne sono accorto in tempo.
Sono appena stato in Lussemburgo a sentire Barry Altschul. Nella tua precedente intervista dicevi di essere cresciuto ascoltando dischi come A.R.C. di Chick Corea o Conference of the Birds di Dave Holland. Ti piacerebbe collaborare con Altschul?
Sarebbe un sogno. Lui, DeJohnette e Paul Motian sono tra i miei preferiti. A.R.C. è stato un’illuminazione: per un anno penso di averlo ascoltato ogni giorno. Lo conosco a memoria. Bastava sentire l’attacco di Nefertiti nella versione di Corea per sentirmi vivo. È un disco registrato male, forse, ma per me è perfetto. Anche Conference of the Birds è stato una vera ossessione: l’ho praticamente trascritto tutto. Univa il trio di Sam Rivers con Anthony Braxton… quella era la musica che ascoltavo quando ho iniziato ad avvicinarmi al jazz. Ho cominciato a suonare il contrabbasso nel 2011, a 19 anni, e tutte queste scoperte sono arrivate nel 2012.
E nel frattempo già suonavi?
Sì, avevo già iniziato a suonare con Daniele Cavallanti, che teneva un workshop per giovani musicisti. Alla batteria c’era Toni Boselli, un veterano che ci trainava tutti. Facevo sezione ritmica con lui. C’era anche Paolo Botti. Ho avuto la fortuna di iniziare subito con persone di grande spessore. Quelle esperienze mi hanno formato, insieme al lavoro in Conservatorio con Roberto Bonati, i gruppi con Nino Locatelli e la frequentazione con Roberto Masotti. Quest’ultimo è stato importantissimo per me. Mi ha dato fiducia e forza fin dall’inizio, senza mai chiedere nulla in cambio. Era un fotografo, certo, ma soprattutto un artista, a prescindere dal mezzo. Mi ha trattato con un rispetto e un’attenzione che mi hanno segnato. Scrisse le note di copertina di Lubok e mi invitò a casa sua il 1° gennaio del 2019: passai il Capodanno ad ascoltare le sue storie sull’Art Ensemble of Chicago e i quartetti di Schönberg mentre mi consegnava quei testi. Chi ti invita a casa sua il 1° gennaio? Era una persona unica. Il prossimo lavoro di Blend3 voglio dedicarlo a lui. Siamo appena stati in studio per un paio di giorni e stiamo già lavorando in quella direzione.


Sarà un progetto multimediale?
Mi piacerebbe molto, ma siamo ancora in una fase preliminare.
Hai mai composto o suonato per accompagnare installazioni multimediali?
Sì, anche se più spesso mi è capitato di lavorare con la danza. Per esempio, ho collaborato con Laura Matano. Dopo il periodo Covid meno, ma prima ci lavoravo spesso. Avevo anche partecipato per gioco a un concorso della Cineteca di Bologna per sonorizzare film muti… e ho vinto! Con Roberto e la Tai-No Orchestra avevamo già utilizzato alcune sue immagini e video durante i concerti.
Hai mai pensato a una colonna sonora per il cinema?
È uno dei miei sogni. Anche se, quando compongo o improvviso, non penso mai per immagini: mi ispira molto di più la letteratura. Però tante persone mi hanno detto che la mia musica evoca immagini forti, ed è uno dei motivi per cui accettai la sfida del concorso della cineteca di Bologna. Le colonne sonore che amo di più non descrivono quello che succede sullo schermo, ma ne riscrivono l’emozione. Amo molto i film di Kubrick: usava pezzi preesistenti, ma li rendeva indispensabili. Beethoven in Arancia Meccanica, Ligeti in 2001 ed Eyes Wide Shut, Schubert in Barry Lyndon… Se togli quella musica, il film cambia totalmente significato. Questa cosa mi ha sempre affascinato, e spero davvero di riuscire a farla anch’io, prima o poi.
Quali sono i prossimi passi per Blend3? Resterete in formazione drumless?
Il trio rimane sempre attivo come tale. Abbiamo altri due concerti già fissati con Jim nei prossimi mesi. Axes è un progetto a sé. Songs and Poems continuava la logica del trio mentre il repertorio di Axes è stato pensato per Jim: senza batteria non avrebbe senso e non avrebbe la stessa resa. Abbiamo una scaletta definita, mentre quando siamo in trio non è necessaria. Però mi piacerebbe unire Beatrice Arrigoni e Jim in un unico gruppo. Fra due anni festeggeremo i dieci anni di attività di Blend3, e potrebbe essere un modo perfetto per celebrare questo traguardo.
E oltre a Blend3?
Sono molto contento dei gruppi con cui suono: HIIT (con Simone Quatrana e Pedro Melo Alves) con cui stiamo finendo di mixare un disco con vari ospiti tra cui il grande Michael Formanek, Nexus, Korr (con Michel Doneda e Filippo Monico), i progetti con Nino Locatelli e legati alla WE INSIST! Records, che orbitano attorno alla scena dell’improvvisazione radicale milanese. E poi il trio di Luca Gusella, il quartetto di Beatrice Arrigoni, gli Esatomic di Andrea Ciceri, le orchestre di Roberto Bonati… Sono esperienze stimolanti. Faccio parte con Andrea Grillini dell’Organic Gestures Trio di Luca Perciballi: al momento siamo un po’ fermi ma è un gruppo a cui tengo tanto. Fra le altre cose sono entrato da poco a far parte di Giraffe, l’ensemble di Matteo Paggi col quale faremo un lungo tour europeo questa estate. Collaboro anche con Divertimento Ensemble per la musica contemporanea, e di recente sono stato contattato da Jorge Bosso per suonare un suo repertorio di tango rivisitato. Ogni tanto capitano cose del genere, ed è sempre molto elettrizzante. Suono anche in duo con la mia compagna, la pianista Gledis Gjuzi, abbiamo commissionato a vari compositori nuova musica per contrabbasso e pianoforte e a luglio saremo in concerto al Museo del Novecento insieme al coro Cantosospeso. È già capitato di esibirci insieme, e sono esperienze sempre molto belle. Spero che tutte queste collaborazioni possano andare avanti: ognuna mi nutre in modo diverso, intellettualmente e umanamente. Con alcune di queste persone ho la fortuna di condividere non solo la musica, ma anche una visione. Per me la musica è parte del mio pensiero quotidiano, è normalità, nel senso più bello del termine. Se non suono per più di una settimana, sto male. E quando torno a casa dopo una serie di concerti, mi prende sempre una malinconia. Per me suonare, viaggiare, incontrare persone è una questione vitale. La sincerità è un valore fondamentale: spero che questo si percepisca nella musica, perché è tutto lì.






