Il Delta blues è il canto più aspro, tormentato, diabolico e autentico di tutta la tradizione popolare statunitense, o per lo meno così lo considerano appassionati, riscopritori, revivalisti e imitatori da almeno tre generazioni.
Poco importa se, come ha notato ironicamente Elijah Wald sulle pagine di Sing Out!, la regione abbia prodotto cantori dal tono lieve e sereno come Mississippi John Hurt, string bands dal piglio country come i Mississippi Sheiks, comici salaci alla Bo Carter, interpreti di taglio jazzy alla Joe e Charlie McCoy o star evolute del calibro di Memphis Minnie e Big Bill Broonzy. Nella vulgata degli epigoni bianchi, la scena del blues nel Delta del Mississippi era dominio di chitarristi posseduti dal demonio: il mitico e mitizzato Robert Johnson è la figura chiave di questo pantheon e il suo lascito discografico è la pietra di paragone per il deep blues duro e puro.
Il fondatore dello stile che si affermerà sull’asse del Grande fiume fangoso, imprescindibile punto di avvio di una progenie artistica che comprenderà Son House, Muddy Waters e molti gloriosi figli del Mississippi, è invece un mezzosangue (bianco, nero, Cherokee e forse messicano) di nome Charley Patton, nato a Bolton, nel sud dello Stato, vent’anni prima di Johnson, e affermatosi come showman professionista un centinaio di miglia più a nord, quando si stabilì presso le Dockery’s Farms, un sistema di piantagioni di cotone nella contea di Sunflower.
Un luogo comune duro a morire rappresenta i bluesmen rurali degli anni Venti e Trenta come hobos, vagabondi senza un soldo oppure villici che suonano per arrotondare lo scarso reddito dei campi. È una raffigurazione romantica cara agli etnomusicologi liberal: John Lomax, quando presentava in pubblico Lead Belly, diceva che era un ex detenuto e gli faceva indossare la tuta da lavoro. Di converso, Charley (o Charlie, come insisteva Son House, neppure lui troppo esperto in ortografia) vestiva alla moda. Ricco non era ma con ogni probabilità se la passava assai meglio della media dei mezzadri neri e pure degli stessi bianchi che lo scritturavano per suonare alle feste paesane. Non era un musicista ambulante ma se doveva spostarsi tra i juke joints e i ritrovi dopolavoristici lo faceva con la sua macchina; stando alle testimonianze d’epoca, la cambiava ogni anno. L’annuncio di una sua esibizione riempiva i locali a tappo e l’eccitazione che scatenava induceva sovente i padroni delle piantagioni e i loro giannizzeri ad allontanarlo; non potevano permettere la fuga dai campi delle manovalanze che lo andavano a sentire. E a vedere: le trovate stravaganti di chitarristi come T-Bone Walker, Guitar Slim, Chuck Berry o Jimi Hendrix, famosi per suonare lo strumento con i denti, con i piedi o dietro la schiena, erano già state collaudate tutte quante da Patton. Con lui il divertimento era assicurato: pop, blues, ragtime, gospel dettavano legge sulla pista da ballo.
Disinvolto, disinibito, permaloso e turbolento, amante del cibo e dell’alcol, un ego smisurato e un paio di ragazze sempre sottobraccio, Charley riassumeva tutte le prerogative del divo di provincia. Nel ricordo di Sleepy John Estes, pur essendo di taglia modesta «era dotato della voce più potente di qualsiasi altro cantante di blues»; testimoni oculari degli spettacoli all’aperto riferiscono che si poteva sentire, senza sistemi di amplificazione, a cinquecento metri dal palco. Ai toni bassi e profondi, foderati di whiskey e nicotina, alternava un falsetto sbarazzino per mimare il dialogo tra due personaggi alla maniera di un ventriloquo da vaudeville.
La tecnica alle sei corde era melodica e percussiva insieme; da seduto teneva lo strumento appoggiato in grembo, alla hawaiana, facendo scivolare sui tasti la lama di un coltello a scatto o un tubo d’ottone, e concludeva i versi delle strofe con le note della slide guitar a imitazione della voce. La procedura di far schioccare le corde basse della chitarra anticiperà di quarant’anni la rivoluzione funky del basso elettrico, e la poliritmia era la sua specialità. In uno dei capolavori assoluti dell’intera epopea del blues, Down The Dirt Road, Patton segue un’andatura nel canto, un’altra per battere sulla cassa e una terza sulle corde della chitarra.
Quando fu scritturato dal talent scout H.C. Speir, longa manus a Jackson dell’industria discografica del Nord, Patton poté estendere la propria notorietà ben oltre i confini del Delta. Le canzoni che sceglieva (o che gli suggerivano) di incidere, profane o sacre, affrontavano tematiche locali e metafore di valenza universale. Mississippi Boll Weevil Blues è una rappresentazione antropomorfa, inzuppata di umorismo nero, del subdolo parassita che infestava le piante di cotone; High Water Everywhere, suddivisa sui due lati di un 78 giri, forniva una meticolosa descrizione di un disastro di proporzioni bibliche, l’alluvione del 1927; non gli occorre un atlante stradale per rilevare che «l’acqua è arrivata a Greenville e a Leland, c’è acqua alta dappertutto / Vorrei andare giù a Rosedale ma mi dicono che c’è l’acqua pure là».
Patton amava inserire nei blues figure della vita reale. In Tom Rushen Blues e High Sheriff Blues, due brani simili pubblicati a cinque anni di distanza, compaiono inconsapevoli local heroes: Tom Rushing, il cui nome è trascritto erroneamente nel titolo, è un vice sceriffo; Tom Day è il capo della polizia; Holloway un distillatore di frodo. Dai testi traspare una familiarità insospettata – considerando il regime di rigorosa segregazione vigente nel Mississippi della Grande depressione – tra il nero Patton e i rappresentanti della legge dei bianchi. Se l’arresto per abuso di alcol a opera di «Rushen» è un fatto su cui il bluesman sorride e fa sorridere, c’era poco da scherzare con «Marshal» Day; eppure Patton allude a una precarietà sociale che non fa distinzioni di razza quando canta: «Mi sono svegliato stamattina [in cella] e Tom Day era lì / Ma se mai perderà il posto toccherà anche a lui correre da una città all’altra». In 34 Blues Patton si prende gioco di Herman Jett, il caposquadra che gli aveva ordinato di tenersi alla larga dalle Dockery’s: «Herman ha una piccola Buick a sei cilindri, una bella auto Chevrolet a sei cilindri – mioddìo che potenza / e non fa altro che star dietro all’aratro del contadino». Sia Rushing sia Jett racconteranno con affetto che Patton aveva fatto loro avere una copia del disco; l’ex vice sceriffo, per il quale Patton era una celebrità, considerava un onore essere stato immortalato in una canzone. Lungi dall’essere un primitivo, oppresso soggetto rurale, Patton era un musicista professionista; le sue storie in blues intrattenevano e divertivano una vasta platea di ammiratori, sia bianchi sia neri.
Pur essendo un compositore prolifico e originale, non disdegnava di attingere al repertorio altrui. La danzante Going To Move To Alabama, incisa con il violinista Henry Sims, è una cover del Kansas City Blues di Jim Jackson, e incorpora pure una imbattibile strofetta rubata al Gulf Coast Blues di Bessie Smith: «Voialtre donne mi avete davvero stancato / avete le mani piene di dammi e la bocca piena di grazie tante».
Capisaldi come Pony Blues, un successo per più generazioni, il drammatico Screamin’ And Hollerin’ The Blues, Spoonful o Moon Goin’ Down marcheranno l’opera di interpreti del calibro di Tommy Johnson, Big Joe Williams, Robert Nighthawk, Howlin’ Wolf, John Lee Hooker e Pops Staples; segni della sua genialità sono rintracciabili nel rock contemporaneo più avveduto, magari grazie a intermediari come Eric Clapton e Bob Dylan, o nel raffinato roots jazz di Cassandra Wilson.
Misurare la grandezza di Patton sui giganti che ha influenzato è comunque riduttivo. Lungi dall’essere le prime bozze di uno stile in via di evoluzione, le sue incisioni sono modelli di un’arte già compiuta. La discografia comprende una sessantina di brani, prodotti tra il 1929 e il 1934, anno della sua prematura scomparsa per le conseguenze di una febbre reumatica. Registrò soprattutto per la Paramount, nota per la resa sonora su disco tutt’altro che ottimale. I master delle registrazioni non sopravvissero al fallimento della società, avvenuto nel 1935, e furono venduti come rottame o riciclati per costruire aie per il pollame. Gli editori delle successive ristampe, su lp o cd, hanno dovuto rimasterizzare o riprocessare i vecchi 78 giri, stampati in origine su materiale di dubbia qualità. Eppure il repertorio merita di essere riascoltato e non per motivi puramente storici. Durante la sua vita, la musica di Charley Patton era fonte di svago per gente diversa per razza, giudizi estetici e condizione economiche. A ottant’anni di distanza il forte fascino dei suoi blues, non ancora condizionati dagli standard imposti ai successori e dalle restrizioni delle pressoché obbligatorie dodici misure, è ancora in grado di incantare un pubblico ben più vasto dello sparuto novero dei nostalgici di una presunta età dell’oro.
Edoardo Fassio