Swing e groove. Sui fondamenti estetici delle musiche audiotattili di Vincenzo Caporaletti

di Claudio Angeleri

7724

AUTORE

Vincenzo Caporaletti

TITOLO DEL LIBRO

«Swing e groove. Sui fondamenti estetici delle musiche audiotattili»

EDIZIONI

LIM – Libreria Musicale Italiana


Swing e groove è un testo che non può mancare nella biblioteca degli studiosi del jazz ma ancor di più in quella dei musicisti. Per quest’ultimi è sorprendente infatti trovare immediati riscontri sia nella prassi performativa sia in quella didattica fornendo un solido impianto teoretico che colloca il jazz in una posizione culturale ed estetica autonoma rispetto alla tradizione musicale europea con cui ha vissuto, e vive tutt’ora, spesso un ruolo comprimario in vari settori. Non a caso Giorgio Gaslini colse per primo l’importanza di quest’opera, giunta già alla terza revisione e ampliamento da parte dell’autore, e proprio la versione de La definizione dello swing del 2000 volle conservarla in una apposita teca nella sua personale biblioteca. 
Swing e groove, e in generale l’originale ricerca di Vincenzo Caporaletti, ha un rilievo assoluto a livello internazionale in prestigiose università di tutto il mondo, a cominciare dalla Sorbonne Université di Parigi, e poi in Cina, Brasile, Stati Uniti. Molti studiosi noti nel campo della musicologia e dell’etnomusicologia come Lewis Porter, Laurent Cugny, Fabiano Araújo Costa (UFES-Basil), Patricia de Souza (Brasil), Benjamin Givan (Skidmore College N. Y.), Ludovic Florin (Université Jean Jaurés-Toulouse), Stéphane Audard (Conservatoire de Paris), Kliff Korman (Brasil), Wang Li (University of Henan-China) si riferiscono da tempo alla teoria audiotattile nella loro ricerca. In Italia l’opera di Caporaletti sta diffondendosi sempre più, nonostante la complessità della ricerca che abbraccia e sintetizza varie discipline: musicologia, etnomusicologia, filosofia estetica, teoria musicale, mediologia e semiologia e persino le neuroscienze. Si tratta di un “modus operandi” che, sebbene con altre finalità, è prassi ormai consolidata nell’ambiente classico. Del resto, anche la bibliografia di grandi musicisti e compositori quali Igor Stravinskij, Arnold Schönberg, Aaron Copland, Darius Milhaud, non è propriamente di immediata accessibilità. Per poter apprezzare e fruire pienamente del contributo culturale di queste opere è necessario infatti che il lettore, e in particolare, il musicista, abbia competenze che spaziano in varie discipline oltre a quelle più strettamente musicali e possiedano un’attitudine di studio e di ricerca di livello universitario o di pari livello – ambito a cui si attestano del resto i diplomi AFAM classici, jazz e pop.
Swing and groove, al contrario, pur trattando la complessità di molti temi cruciali della musica, non solo del jazz, rivela un carattere fondamentalmente pratico, fruibile e appassionante.
Del resto, il jazz, e l’opera di tanti protagonisti della scena artistica, è una espressione artistica complessa, articolata, innovativa e per questi motivi supera l’ambito esclusivo della teoria musicale di tradizione europea toccando altre discipline. L’impegno richiesto dalla lettura di Swing e Groove viene comunque ripagato pienamente offrendo conoscenze, stimoli e strumenti che possono orientare la ricerca in campo didattico, musicologico e artistico.
La prima parte del libro ripercorre storicamente gli studi musicologici in materia di swing dalla fine del XIX secolo al 2014 – anno dell’ultima revisione e integrazione da parte dell’autore – con la forte accelerazione avvenuta soprattutto a partire dal secondo dopoguerra ad oggi.
Tra i numerosi studiosi presi in esame occorre senz’altro ricordare la centralità dell’opera di André Hodeir, Gunther Schuller e Alfons Dauer.
Con le dovute differenze e posizioni tra tutti gli studi presi in esame, emerge un comune “vizio di fondo” in riferimento alla trattazione dello swing prevalentemente sotto il profilo ritmico matematico indotto dalla traduzione notazionale della teoria musicale eurocolta. Questa parzialità di vedute ha diffuso alcuni luoghi comuni per rilevare la presenza dello swing, ancora oggi in auge, quali: la spinta propulsiva data da una continua impercettibile accelerazione – quando al contrario diversi maestri del jazz quali, Lester Young, Count Basie, Duke, Thelonious Monk, Miles Davis, Lee Konitz hanno prodotto quantità industriali di swing esattamente con la spinta opposta di tipo depulsivo –  oppure il triplet feeling delle crome, la diffusione estensiva delle sincopi… 
Secondo questi studi lo swing sarebbe attivato soprattutto dal rapporto conflittuale tra la pulsazione isocrona regolare, spesso implicita – o resa esplicita dalla sezione ritmica e il ritmo off-beat degli accenti melodici (di cui la sincope è l’elemento più elementare).

Gunther Schuller introduce negli anni Cinquanta un importante elemento di discontinuità includendo nel processo di attivazione dello swing anche la componente materica/sonora data dal particolare attacco/rilascio di ogni nota da parte di un jazzista rispetto a un musicista classico. Prende ad esempio quattro note in battere della celebre introduzione di Armstrong in West End Blues in cui lo swing è ottenuto senza alcuna sincope ma solo con il particolare attacco delle note. Analizza inoltre la produzione dello swing data dal pizzicato in quattro di un contrabbasso che possiede per natura un rapido attacco e un successivo decadimento della durata della nota. Anche in questo caso lo swing è generato dalla componente materica/sonora ancor prima che dagli aspetti metrici. 

Questa importante intuizione, tuttavia, non viene sviluppata da Schuller ma verrà ripresa diversi anni dopo da Gaslini e da Caporaletti.
Le ricerche musicologiche sullo swing fanno poi progressivamente riferimento alla presenza di un “senso metronomico” soggettivo che è sempre attivo anche quando la pulsazione è resa esplicita dalla sezione ritmica. Caporaletti lo definisce pulsazione continua – continuous pulse – e proprio per la natura soggettiva e psichica non è rigido e metronomico nella vera accezione del termine, come nella musica classica, ma è elastico e interattivo con il contesto musicale e creativo.

Al di là dell’accurato approfondimento dedicato dal libro a questo particolare concetto sorge immediata una riflessione sugli aspetti didattici in merito alla creazione e sviluppo della continuous pulse in fase di apprendimento musicale. Come si può “insegnare” e sviluppare? Quali sono gli errori in cui si può incorrere? Quali i metodi e strumenti? Per meglio comprendere questi processi Caporaletti ha messo a punto una originale teoria derivata dalla applicazione degli studi della Scuola di Toronto – Marshall McLuhan,  Derrick de Kerckhove – trasferiti in musica con il contributo semiologico di Umberto Eco. In altre parole, McLuhan afferma che in ogni processo comunicativo il medium utilizzato non svolge una funzione neutrale ma è esso stesso messaggio determinando quindi il processo formativo in atto. Nel nostro caso, la continuos pulse e i fenomeni ad essa connessi tra cui appunto lo swing, viene fortemente caratterizzata quindi dal medium utilizzato. Se l’approccio avviene prevalentemente con il pentagramma è ciò che ne è connesso – ad esempio la regolarità del metro, le stanghette di battuta che danno un innegabile impronta visiva, la concezione cartesiana altezza/durata delle note – la qualità della pulsazione viene orientata in una direzione visivo/matematico che risulta opposta alla natura genetica del jazz. È questa la differenza sostanziale che esiste tra la formazione del musicista improvvisatore jazz e dell’improvvisatore di derivazione classica. Caporaletti introduce quindi una originale sintesi del “fare che mentre fa inventa il modo di fare” secondo la definizione di Luigi Pareyson – noto filosofo italiano studioso di estetica – con la teoria della formatività del medium di McLuhan e gli approfondimenti degli studi africanisti.  Il corpo inteso nella interezza psico-somatica diventa quindi un medium di apprendimento che possiede una propria cognitività denominata audiotattile che orienta l’acquisizione di competenze, tra cui la continuos pulse e gli effetti correlati come lo Swing e il groove – intesi come sinonimi non solo nel jazz ma anche nel rock pop e altre forme di world Music). 
La cognitività audiotattile è comunque presente in tutta la musica anche quella classica ciò che si differenzia nel jazz è l’associazione ad un ulteriore medium costituito dalla fissazione fonografica (disco, cd, file) definito da Caporaletti codifica neoauratica. Questa fissazione coglie l’attimo in cui il jazzista autografa la propria performance con gli aspetti peculiari del jazz: identità sonora, pronuncia, interplay, swing… Ciò diventa il nuovo testo del jazz differente dalla partitura tradizionale che non viene abbandonata ma interpretata e autografata dal jazzista. Audiotattile + Codifica neo aruratica, formano quindi la sensibilità, il feeling e la competenza del jazzista: “È l’esperienza, la consapevolezza di essere in un ambiente culturalmente fonografico che rende pensabile l’artisticità dell’improvvisazione come complanare alla composizione e che dà il crisma dell’intervento artistico ad un gesto estemporizzativo” V. Caporaletti.
Sul tema della definizione dello swing sono fondamentali le posizioni di Arrigo Polillo e di Giorgio Gaslini. Il primo pur agendo in un ambito giornalistico intuisce che il fenomeno dello swing si può analizzare solo con una visuale “microscopica”. Il secondo approfondisce questo aspetto entrando nella microanalisi di ogni singolo beat, come già intuito da Schuller definendo una specifica. sequenza preparazione/attacco/rilascio. Sintetizzando questo processo, la visione microscopica evidenzia che il beat e quindi lo swing non sono solo una questione ritmica ma qualcosa di più articolato e complesso implicando la distribuzione energetica e la natura timbrica del suono
Il tutto avviene in una dimensione interattiva del dialogo musicale che si realizza durante il qui ed ora della performance. Caporaletti evidenzia invece l’imbarazzo e la posizione fortemente critica di grandi musicisti, come Stravinskij e Schönberg, rispetto allo spazio concesso alle interpretazioni degli esecutori della loro musica: Chi dice interprete dice traduttore…non è senza motivo che un celebre proverbio italiano assimili la parola traduttore a traditore (Igor Stravinskij); …l’intollerabile arroganza e sostanziale inutilità del performer… (Arnold Schönberg). 
Senza addentrarmi ulteriormente nelle riflessioni sulla struttura dello swing trattata nell’ampia seconda parte del libro, è innegabile che la strada indicata da Caporaletti con rigore e competenza transdiciplinare apre delle prospettive creative nell’insegnamento del jazz e della musica in generale. Questo riguarda le diverse fasi di apprendimento sia nei periodi prescolari sia nelle fasi successive fino al perfezionamento professionale performativo e dell’insegnamento, e la conseguente formazione dei formatori. Un tema che ha creato non pochi equivoci nell’approccio al jazz nelle fasce dei più piccoli e nello specifico quando, dopo il primo periodo di scoperta dell’universo sonoro attraverso attività sensoriali e ludiche, si avvia il bambino al gioco delle regole fondamentalmente attraverso il percorso visivo del pentagramma e della teoria musicale europea, creando così le basi dell’approccio allo strumento. Come detto in precedenza questo percorso è esattamente opposto alla natura audiotattile del jazz del rock, pop con cui l’individuo si rapporterà alla musica.

L’ultimissima parte del libro infine è una vera e propria chicca perché analizza alcuni famosi break di Charlie Parker in particolare i tre di A night in Tunisia del 1946 della Dial. L’analisi sperimentale riportata nel libro è entusiasmante in quanto si evidenzia che Parker nei tre take registrati ripropone sempre le stesse note comprese nelle quattro battute del break. Le versioni però risultano molto diverse in quanto cambia l’intensità e gli attacchi dei sedicesimi collocati in punti sempre diversi. Le note non seguono la scansione a due suoni lungo/corto con cui di solito si definisce la trascrizione dello swing ma secondo aggregazioni di quattro suoni (detti groovemi).

Le stesse quartine si differenziano tra loro.  Ad esempio, la terza ha spesso valori dinamici inferiori rispetto alle altre.  Questo ci dice che Parker in quei break non stava improvvisando ma estemporizzando cioè modificando soggettivamente secondo gli stimoli percettivi della propria pulsazione continua – quindi sempre diversa – le note uguali dei tre break. Il tutto avviene a velocità stratosferica.

Anche questa analisi ci fa riflettere sui criteri delle trascrizioni che solitamente sono diffuse nella didattica jazz in cui gli assoli posti sul pentagramma appaiono solo delle sterili sequenze di crome e semicrome con qualche terzina qua e là. E così sono solitamente eseguite, cioè in modo allografico, evidenziando enormi differenze di swing proprio quando le esecuzioni dello studente esecutore e del disco originario vengono sovrapposte. La sfida non sta nell’esecuzione metronomica delle note bensì dello studio e nell’analisi della pronuncia, degli attacchi, della distribuzione energetica. Un compito davvero arduo e complesso che può richiedere il tempo di una vita anche per un solo assolo. Occorre quindi riflettere sull’utilità formativa della replica di diverse trascrizioni in ambito didattico con questi criteri quando, al contrario, può risultare più efficace un ascolto selettivo e accurato dei dischi abbinato ad un dialogo estemporaneo tra lo studente e il disco stesso per cogliere e sottolineare lo swing, la pronuncia, gli attacchi, l’interplay.
Claudio Angeleri

PAGINE E PREZZO

Pagine 392; euro 35,00

LUOGO E DATA DI STAMPA

2014-2019