Sala gremita per Sullivan Fortner, e per ovvie ragioni, se si considera che il pianista di New Orleans – qui già ammirato accanto a Cécile McLorin Salvant, che è anche la sua compagna nella vita – può vantare un notevole palmarès. I successi discografici di «Solo Game» (2023) e «Southern Nights» (2025), un paio di Grammy vinti come accompagnatore di grandi cantanti (con Samara Joy il più recente, l’altro accanto alla citata McLorin Salvant) e il riconoscimento del Poll della critica di DownBeat, nel 2024, proprio per questo trio, votato come migliore Rising Star Jazz Group.
La formazione non era la stessa di «Southern Nights» (in quel disco, il pianista si trovava accanto a Peter Washington e Marcus Gilmore) e questo ha costituito un ulteriore elemento di curiosità, considerata l’indiscutibile eccellenza dell’album. Ma questo trio è operativo dal 2021 e, a parte la levatura di Tyrone Allen e Kayvon Gordon, che si sono rivelati partner con doti fuori dall’ordinario, un interplay telepatico ha fatto il resto. Particolare la posizione assunta sul palco, con il pianista sostanzialmente di spalle ai compagni, che non perdono di vista per un istante il movimento delle sue mani sulla tastiera, a rimarcare, in qualche modo, la sua centralità di leader.
Il trio, è bene essere chiari, è stato devastante, per potenziale di idee, capacità strumentali, groove e veemenza.
La scaletta si è aperta con una versione di intensità e velocità raddoppiate di Pithecathropus Erectus e si è venuta svolgendo attraverso varie epoche del jazz moderno – che comprendono Monk, Sun Ra, Hubbard, Strayhorn, Coleman (una splendida versione di Little Symphony è uno dei passaggi più lucidi della serata) – legate trasversalmente, in modo omogeneo e unitario, con grande efficacia. Un paio di pezzi originali (9-Bar Tune e un Blues semplice soltanto in apparenza) hanno completato il quadro.
Un forte senso di divertimento ha sempre caratterizzato l’azione del trio, talvolta assumendo dei toni perfino troppo scherzosi, in direzione di una sorta di caratterizzazione «umoristica» (ne è stata un esempio la versione di Dos gardenias). Il bis finale ha colto tutti un po’ di sorpresa, per l’omaggio reso a D’Angelo, purtroppo venuto a mancare il giorno prima: una versione un po’ stralunata di Really Love, suonata con la sola mano sinistra, ma non per questo meno di impatto, soprattutto nel senso del ricordo e dell’emozione.
Dicevamo di come il concerto sia stato folgorante.
Il gruppo ha esposto l’enorme lavoro svolto insieme, in questi quattro anni, mettendolo a pieno profitto e aggiungendo ulteriore valore a quello delle tre individualità. Se Fortner ha restituito l’idea chiarissima di aver liberato soltanto una parte relativamente piccola del suo vero potenziale, Allen e Gordon si sono rivelati una grande sorpresa, dimostrando il possesso di grandi doti tecniche e di «visione», varietà di mezzi espressivi e ampiezza di stili praticati.
Il materiale musicale sul quale il pianista ama lavorare è il portato di una precisa eredità storica, ma viene legato in una sintesi stilistica novativa, poiché i vari pannelli che compongono l’excursus vengono raccordati da tessiture che li innervano di fantasia creativa.
Questi vivaci quadri, nel loro succedersi come parti di una forma più ampia, all’interno del contenitore performativo, divengono il vettore non soltanto di una scelta estetica, ma anche di una de-costruzione dall’interno dei materiali prescelti e proposti, poi ricostruiti dopo averli profondamente metabolizzati e rivoltati nei punti in cui serve, in una nuova visione formale.
I mezzi usati in questa de-ri-costruzione sono armonici, ritmici e melodici, diversamente da quanto avviene, ad esempio, nell’analogo lavoro svolto dal trio di Tyshawn Sorey, che però agisce soprattutto sul tempo, dilatato sino alle estreme conseguenze della metamorfosi.
Fortner dimostra una forte e immaginifica capacità di conduzione: il trio agisce come se fosse unità e «racconta» una storia sola – che è la stessa storia del Jazz, nella sua dimensione intertestuale e diacronica -, rendendola avvincente, mentre ne scorrono i capitoli.
Non si può che confermare quanto scrivemmo già nella recensione di «Southern Nights»: abbiamo una nuova stella e un grande trio. Ciò detto del gruppo con Washington e Gilmore: questo, con Allen e Gordon è, probabilmente, ancora più grande.