Steve Coleman & Five Elements aprono Valdarno Jazz

Trasmissione di segnali, codici e valori identitari

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San Giovanni Valdarno, Piazza Masaccio

15 luglio

Inserita nel circuito del Music Pool, Valdarno Jazz è una delle rassegne più longeve della Toscana e, in senso lato, d’Italia, essendo ormai giunta – salvo errori – al trentanovesimo anno di vita. L’edizione di quest’anno si è aperta ospitando una delle formazioni di punta del jazz contemporaneo: i Five Elements guidati dal sassofonista Steve Coleman.

Attraverso un percorso più che quarantennale come compositore e leader di propri gruppi, Coleman (classe 1956) ha definito una poetica rigorosa, fondata anche su principi matematici e filosofici, e alimentata da molteplici componenti dell’universo afroamericano: la consapevolezza di una tradizione (jazzistica, ma non solo) nera, radicata nel tessuto della natia Chicago; la rivoluzione dei canoni armonici e melodici operata da Ornette Coleman; il soul e il funk che dagli anni Sessanta in poi hanno caratterizzato l’anima più popolare della black music; i fenomeni che ne sono derivati successivamente, come rap e hip hop; anche la musica afrocubana, frequentata in loco una trentina d’anni fa con la sua Mystic Rhythm Society e l’ensemble AfroCuba de Matanzas.

Five Elements è un quartetto coeso, operante come un meccanismo di precisione, alimentato da una dialettica interna e una disciplina ammirevoli. Oltre al leader al sax alto, la formazione comprende il trombettista Jonathan Finlayson, il batterista Sean Rickman (entrambi da lungo tempo a fianco di Coleman) e il bassista canadese Rich Brown, da poco subentrato a un altro membro storico del gruppo, l’inglese Anthony Tidd.

Ogni esecuzione prende vita da una frase dettata dal leader, ripresa o contrappuntata da Finlayson, trasposta da Brown in linee nervose o possenti pedali, sostenuta da Rickman con figurazioni che celano un pensiero quasi melodico. Così facendo, si genera un tessuto connettivo di natura sia polifonica che poliritmica, risultante da un processo di graduale stratificazione di cellule e nuclei. Ne consegue, per ampi tratti, un livello di interazione realmente paritetico.

Nonostante l’assenza di spartiti sul palco, l’azione del quartetto procede con un tangibile senso della forma, accompagnato da un’attenzione meticolosa agli equilibri e alle dinamiche. Tutto ciò, ovviamente, non preclude affatto la possibilità di ritagliare spazi per l’improvvisazione e aprire percorsi per gli assoli, comunque sempre misurati e razionalmente concatenati.

Depositario di uno stile e di un fraseggio inconfondibili, Coleman congiunge idealmente l’eredità di Charlie Parker, il sanguigno senso del blues di Cannonball Adderley e Jackie McLean, la poetica visionaria di Ornette Coleman, ma anche l’approccio funk di Maceo Parker, storico sassofonista di James Brown. Per parte sua, Finlayson riassume e attualizza in un eloquio articolato e cristallino la lezione di Clifford Brown, Booker Little e Woody Shaw. Inoltre, è interessante osservare come ognuno dei due, durante l’assolo del collega, ami spesso scandire una clave con un campanaccio mediante il consueto schema 3+2.

Con il suo basso elettrico a sei corde Brown garantisce, al pari del predecessore Tidd, il motore e il collante delle esecuzioni. Come suo solito, Rickman apporta varietà di soluzioni e molteplici colori con incisività e discrezione, attraverso un set in cui i piatti (ride e crash cymbals) sono montati poco al di sopra dei tom, un campanaccio è installato vicino al rullante e dei sonagli sormontano il charleston.

Non di rado, nella dialettica tra Coleman e Finlayson si ravvisa lo schema della chiamata e risposta (call and response) tipica della musica tradizionale africana, poi penetrata nel patrimonio afroamericano: dai canti di lavoro (work songs) al gospel, dal blues al jazz. Tuttavia, quel che più colpisce e fa riflettere della poetica del Coleman compositore è la continua e proficua circolazione di frasi e pattern ritmici, rivelatori di un codice. Una caratteristica, questa, insita in tutte le culture basate sulla trasmissione orale.

 

Enzo Boddi

Foto di Mario Lanini

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