Per molto tempo si è scritto che sia stato Femi, il più grande tra i sette figli di Fela Kuti, a essere accreditato come il più adatto a veicolare in giro per il mondo il ritmo ipnotico e incalzante dell’Afrobeat. Cresciuto nell’orchestra del padre, e a sua volta sassofonista, Femi Kuti ha raggiunto una discreta popolarità soprattutto in Francia – dove, com’è noto, la musica africana gode da sempre di un grande seguito – con la sua idea di velocizzare uno stile musicale molto difficile da imitare per diversi motivi. Tutti gli elementi essenziali di questo stile erano già presenti in «Why Black Men Dey Suffer» (l’album di Fela, prodotto da Ginger Baker, lo storico batterista dei Cream lui stesso ospite nel disco, che nel 1971 fu pubblicato dalla Nigerian African Sounds dopo che la EMI si era tirata indietro) e nonostante nel corso della sua carriera Fela Kuti si sia preoccupato di introdurvi varie modificazioni essi possono essere riassunti in cinque punti essenziali. Il canto a «chiamata e risposta», i versi in un inglese rudimentale, il cosiddetto «broken english», una posizione politica esplicita orientata verso un tipo di socialismo che sfociava nel panafricanismo, un ritmo e un tempo ben riconoscibili e, infine, un utilizzo dei fiati e delle tastiere pervaso di jazz e r&b. L’uso del «call and response» (il succitato canto a «chiamata e risposta») rappresenta il più importante elemento di congiunzione con la tradizione di tutta la musica africana. Il «broken english» (o, come lo chiamano gli inglesi, «pidgin english») è invece l’elemento che in qualche modo allontana l’Afrobeat dalla tradizione: usato in Africa sin dagli albori della colonizzazione inglese è stato il colpo di genio di Fela Kuti, sia dal punto di vista commerciale sia artistico, rivelandosi un vigoroso mezzo di comunicazione adatto per essere cantato (allo stesso modo del patois giamaicano nel reggae) e utile per l’accesso a un pubblico più allargato. Non bisogna dimenticare che in Nigeria, il Paese di origine di Fela Kuti, esistono centinaia di lingue, utilizzate prima dell’avvento di Fela sulla scena musicale, dai musicisti nigeriani e che, per ovvi motivi, potevano essere comprese da una ristretta cerchia tribale precludendo loro l’accesso ad un pubblico più numeroso. Altrettanto innovativa è stata la posizione politica di Fela, che si estrinsecava nell’utilizzo di testi aggressivi (senza precedenti nella musica nigeriana) che attaccavano gli errori e le dissennatezze dei regimi africani colpevoli di perpetrare il dominio economico e culturale dell’Occidente su tutta l’Africa Nera. Con quei testi il celebre musicista proponeva una riappropiazione della cultura, della scienza e della tecnologia della tradizione africana al fine di contrastarne l’occidentalizzazione. Fu grazie a loro che Fela divenne, insieme a Bob Marley, una vera e propria icona, non solo musicale, di tutto il terzo mondo. Gli altri due elementi, il ritmo ipnotico e l’utilizzo di strumenti presi in prestito dal jazz e dal r&b, sono state le caratteristiche che hanno reso l’Afrobeat qualcosa di assolutamente riconoscibile e in cui Fela Kuti ha speso tutta la sua credibilità di musicista inventando letteralmente uno stile musicale che senza le sue intuizioni non sarebbe mai nato. Proprio così, perché se qualcuno continua a pensare che l’Afrobeat sia una delle tante espressioni musicali della Nigeria, commette un grave errore. L’Afrobeat è l’opera di un solo musicista, un grande bandleader, chiamato Fela Anikulapo (un nome tribale cui teneva moltissimo) Kuti. Prima di lui imperversava la Juju music (un concentrato di cultura yoruba, l’etnia di provenienza di Fela) con il suo fitto reticolato di percussioni e chitarre hawaiane miagolanti supportato dal borbottio dei talking drums e che aveva in King Sunny Ade il mentore più conosciuto al di fuori dei confini nigeriani. Per tutta questa doverosa premessa la velocizzazione dell’Afrobeat operata da Femi Kuti è stata, da molti, vista come un tradimento del concetto musicale paterno (l’Afrobeat deve avere «quel» ritmo, cadenzato e ipnotico nello stesso tempo) ed è probabile che sia stata l’origine della sua scarsa penetrazione all’interno di un pubblico abituato a sonorità le cui regole, proprio per il motivo che abbiamo esposto, non vanno alterate.
In questo momento è Seun, il figlio più piccolo di Fela (e anche quello che gli somiglia di più), a portare alto il vessillo dell’Afrobeat in giro per il mondo. Nato a Lagos (Nigeria) l’11 gennaio del 1983, Seun Kuti è il leader degli Egypt 80 – in origine erano gli Egypt 70, nome che fu cambiato da Fela negli anni Ottanta in Egypt 80 – ovvero la band con cui il padre ha continuato imperterrito a veicolare la sua musica fino alla sua morte, avvenuta nel 1997 in seguito a complicanze dell’AIDS. Vederlo aggirarsi subito dopo pranzo all’Officina degli Esordi – uno spazio multitasking del Comune di Bari gestito dai tipi di Bass Culture, gli organizzatori del Locus Festival, sul cui palco Seun si sarebbe esibito dopo qualche giorno – mi ha suscitato un’emozione che non provavo da tempo. Diamine! Mi accingevo ad intervistare il figlio di una delle icone della mia gioventù musicale.
Ci sono un sacco di gruppi etnici in Nigeria: Hausa nel nord, un’etnia di religione islamica, Yoruba nella parte occidentale, Ibo in quella orientale. Tu a quale di queste appartieni?
A quella Yoruba.
Oggi sono molto emozionato. Per due ragioni. Prima di tutto perché sto parlando col figlio di una vera e propria icona e poi perché un disco di tuo padre, «International Thief Thief», mi ha fatto scoprire la musica africana un mondo che mi ha coinvolto per parecchio tempo. Tu, tra i figli di Fela, sei quello che sta guidando il suo gruppo storico, gli Egypt 80, un importante ma anche faticosa eredità. Qual è la più grande difficoltà che hai incontrato nell’ereditare la leadership di questo gruppo?
Mio padre, nel suo testamento, scrisse che alla sua morte io avrei ereditato il suo lascito musicale. Ho fatto parte della band sin da piccolo. Avevo otto anni quando sono entrato a farne parte e non me sono mai allontanato fino al compimento dei miei diciotto anni. Anche se ho sempre ricoperto il ruolo del frontman e poi del leader io mi considero uno di loro, parte integrante del gruppo, occupandomi anche di quello che succede dietro le quinte. La cosa più difficile è stata immaginare il suo futuro, quello che sarebbe successo dopo la morte di mio padre, e in questo mi sono scorporato dal mio ruolo. Questa consapevolezza si estende al di là di me stesso, e ho sempre pensato a chi potesse assumersi la sua leadership dopo di me, se mi dovesse capitare di non poterlo più fare. Il futuro degli Egypt 80 è legato alla possibilità di mantenere il suo suono e continuare a farlo vibrare nella stessa maniera in cui ha fatto mio padre. Non vorrei essere frainteso, lo sforzo è quello di non considerare la band come un perenne omaggio a Fela ma di adeguare le sue sonorità a quello che accade oggi nella musica, cercando di acquisire una visione adeguata ai tempi che stiamo vivendo, una visione che rispetta la tradizione ma che guarda in avanti, verso il futuro. È questa la maggiore difficoltà che ho incontrato: immaginare il futuro di questa band, anche senza di me, una band che si proietta verso la modernità ma che rimane ancorata alla musica di Fela.
Tu suoni il sax contralto. Immagino che tuo padre sia stata la tua maggiore influenza sullo strumento. Ma mi piacerebbe che mi parlassi delle altre tue influenze musicali se ce ne sono. Come sassofonista e come compositore…
Dal punto di vista compositivo, a voler essere onesto, la mia unica influenza è stata quella di mio padre. Però devo dirti che ascolto tanta musica e spesso sono attratto da musiche anche distanti da quella di Fela, ma dal punto di vista compositivo lui ha rappresentato moltissimo per me. Non so se conosci Look and Laugh: ecco, quel tipo di composizione rappresenta il mio riferimento principale e ovviamente non mi riferisco al suo successo commerciale ma alla struttura musicale di quella canzone. Fela mi ha insegnato a mischiare le cose in modo da ottenere dei brani che suonassero in maniera unica. Mi ha influenzato, è ovvio, anche come strumentista, ma sotto questo aspetto Cannonball Adderley è tra coloro alla cui musica devo molto. È qualcosa di cosmico, per me: quando lavoro attorno alla trascrizione dei suoi assolo apprendo ogni giorno qualcosa in più. Anche il mio insegnante di jazz ha avuto una forte influenza su di me, il suo nome è Brigg e vive a New York. Poi ovviamente Charlie Parker, imprescindibile per chiunque suoni l’alto. Dal punto di vista strumentale poi ho scoperto negli anni che anche lo studio del sassofono classico aiuta molto.
Adesso dove vivi?
A Lagos.
Il tuo ultimo disco, «Black Times», risale a cinque anni fa. Ascoltandolo sono rimasto colpito dalla sua continuità con la musica di Fela, dalla sua profondità, e anche dalla intensità del suo impatto dal punto di vista ritmico. Non hai più registrato un disco da allora. Come mai?
Ho dovuto studiare, nel frattempo, e perfezionare le mie capacità strumentali. In realtà non sono cinque anni ma due, gli altri tre non contano perché, ripeto, ho dovuto studiare e quello fa parte del mio percorso di musicista. L’idea trainante di quell’album è stata molto impegnativa e mi ha portato via parecchio tempo, ci è voluta molta pazienza. Anche scegliere il team con cui lavorare è stato faticoso. Voglio dire che tutto per me deve muoversi in una prospettiva di positività, e questo capirai che non è semplice. La realizzazione di «Black Times» mi ha tenuto sveglio per molte notti, avevo trentasei anni all’epoca ed è stato un grande sforzo lavorare al meglio delle mie possibilità e mettere insieme i musicisti che vi hanno suonato, gente come Carlos Santana, tra gli altri. Per il prossimo disco si ripropone lo stesso problema, quello di perfezionare la musica, mettere insieme i musicisti – ci sarà Lenny Kravitz – e il periodo di registrazione, abbiamo inciso tutto in dieci giorni per economizzare il più possibile i tempi di realizzazione. Insomma è tutto molto faticoso, ma tra poco uscirà il mio prossimo disco.
Tu avevi solo un anno quando tuo padre fu incarcerato in Nigeria. So che fu condannato a cinque anni di prigionia ma rimase in carcere per venti mesi. In quel periodo furono pubblicati due dischi che letteralmente esplosero in tutto il mondo, «Army Arrangement» prodotto da Bill Laswell e «Teacher Don’ Teach Me Nonsense» prodotto da Wally Badarou. Eri piccolissimo allora. Che ricordi hai di quel periodo?
Nessuno. In realtà non ho mai conosciuto a fondo mio padre. Ero molto giovane nell’ultimo periodo della sua vita, ovviamente non ho alcun ricordo della sua incarcerazione e poi sono cresciuto in un oratorio religioso e in quel periodo lo vedevo di rado. Per cui ho un ricordo davvero vago di quello che accadeva in Nigeria dal punto di vista politico e degli intrighi in cui mio padre era coinvolto.
Finora, nella tua vita di musicista, hai avuto l’opportunità di conoscere, e anche suonare, con molti grandi del nostro tempo. Chi di loro ha lasciato un segno importante dentro di te?
Vivi o morti?
Sia vivi che morti…
Sono troppi. Manu Dibango sicuramente, è stato un mentore per me e mi ha aiutato molto nello sviluppo della mia carriera, Hugh Masekela, Salif Keita, Alpha Blondy, Tiken Jah Fakoly, un fratello per me che ha contribuito al perfezionamento del mio suono, tutti loro hanno mantenuto attivo dentro di me il legame con la tradizione. Poi James Brown, Marvin Gaye, Teddy Pendergrass, a loro e alla loro musica sono molto legato, essendo nato in quegli anni ho avvertito molto l’influenza della loro musica. Spesso quando parlo con mia moglie le confesso di essere maggiormente legato a quella musica che a quella di oggi.
Il tuo legame con la musica del nostro tempo, hip-hop, elettronica eccetera.
Un po’ mi piace l’hip-hop ma preferisco ascoltare musicisti che abbiano davvero qualcosa da dire e oggi, almeno per quello che riguarda i testi, a mio avviso non ce ne sono molti. Mi piaceva 2Pac ma i testi dei rapper moderni sono molte volte inconsistenti. Adesso ascolto musica in cui sia coinvolta la crescita della mia comunità e che abbia dentro di sé un messaggio positivo. Devo confessare che, crescendo, ascolto sempre meno la musica di oggi. Se tutto si deve ridurre all’immagine stereotipata del gangster che si fa di cocaina, circondato da donne – chiamiamole vistose per essere gentili – allora questa è una sconfitta per la musica nera. La musica non può essere tutta puttane, cocaina e crack. È molto altro, per fortuna.
Tuo padre era un socialista e un convinto sostenitore del Panafricanismo. Oggi viviamo in un’epoca completamente diversa. Tu sei in continuità con la sua idea?
Quella non era l’idea di mio padre ma di tutta l’Africa, un’Africa che cresce. Mio padre non faceva altro che sostenere quegli ideali che fanno parte di tutti gli africani, ed è stato un grande anche perché in qualche modo si è fatto del male. Con il suo background sociale avrebbe potuto far parte di una ristretta cerchia, di una élite, e invece ha preferito affiancarsi alla sofferenza del suo popolo. È questo il suo vero messaggio, quello che ha lasciato a tutti noi: rinnegare l’élite sociale di cui fai parte per difendere il popolo. La coscienza di classe non appartiene alla casta di provenienza di mio padre, lui ne ha preso le distanze ed è diventato un’icona anche per quello, oltre che per la sua musica. Per me questo è molto importante, ed è il motivo principale che mi tiene ancora legato a lui. Cerco, come ha fatto lui, di prendere costantemente le distanze dall’establishment.
Cosa pensi di aver imparato da lui e dalla sua musica e comunque, anche se mi hai detto che non lo hai conosciuto a fondo, che ricordo hai di lui?
Il ricordo che ho di lui è legato ai miei primi quattordici anni, e devo dire che in quegli anni mi ha insegnato molto dal punto di vista umano. Con lui avevo un forte legame spirituale, la maniera con cui si è preso cura di me era speciale. Era gentile quando poteva e duro quando doveva, come dovrebbe essere un vero padre. La cosa che più mi manca di lui è il tempo che passava con me, parlare con lui mi piaceva. Ecco questo mi manca molto. In qualche modo oltre che un padre è stato un amico.
So che recentemente sei stato vittima un incidente con un poliziotto in Nigeria. Vorresti raccontarmelo?
Mi piacerebbe ma non posso. Siamo ancora per vie legali.
Mi racconti qualcosa in più del tuo prossimo disco?
Non ti posso dire molto se non che abbiamo messo insieme un grande team di lavoro e c’è stata una grande energia nel realizzare il tutto. Non vedo l’ora di poterlo condividere. Alcuni dei brani che vi sono contenuti li suono dal vivo, per cui un’idea te la potrai fare al concerto.
E in effetti un’idea me la sono fatta il 10 agosto 2023, quando sul palco della Masseria Ferragnano di Locorotondo Seun Kuti con gli Egypt 80 si è speso in uno dei live più emozionanti tra quelli cui ho assistito l’estate scorsa. Con lui c’erano Timon Sèbastien alla tromba, Fabrice Edouard al sax tenore, Nicolas Julien al baritono, Anis Benhallak, un bravissimo chitarrista algerino residente a Parigi, , Kunle Justice al basso elettrico, un veterano degli Egypt 80 sin dai tempi di Fela, Jean Marc Orsinet alla batteria, Cynthia Abimbola Balogun e Iyabo Folashade Adeniran ai cori. Ipnotica, seducente, coinvolgente: in poche parole grande musica, quella sera al Locus Festival.