È morto Roy Ayers, il 4 marzo scorso, a New York. Il suono caldo del suo strumento si è spento lasciando un silenzio irreale. Aveva ottantaquattro anni e stava combattendo contro una lunga malattia. Le sue note, un tempo raggi di sole nel firmamento del jazz-funk e del soul, ora fluttuano come una polvere preziosa in un tramonto senza fine e il mondo della musica resta annichilito, sospeso, in attesa di un’ultima nota che però non arriverà. Il suo vibrafono parlava direttamente al cuore e ogni accordo da lui suonato era un frammento di luce malinconica, un brivido che oggi ci manca come un battito ormai perduto. Roy Ayers lascia un vuoto dolceamaro, un silenzio pieno di ricordi in cui risuona per sempre la magia della sua musica. Non era per niente un personaggio facile. Ricordo una serata nel backstage del Fez, a Bari, la mia città: il club era gremito di gente che aspettava salisse sul palco, ad un certo punto uno degli organizzatori di quella gig gli fece presente che forse era il momento di incominciare. Lui, impassibile, lo guardò negli occhi e gli disse «Where’s my money»? Attimo di panico: poi i soldi furono recuperati e lui, soddisfatto, salì sul palco e attaccò Everybdody Loves the Sunshine. Solo poche parole ripetute in loop – «My life, my life, my life, my life, in the sunshine, everybody loves the Sunshine» – e Ayers fece subito dimenticare la sua diffidenza avvolgendo il pubblico con un calore morbido e accogliente. Tutti lo conoscono per quel pezzo leggendario – un brano saccheggiato a piene mani dai grandi e piccoli dell’hip-hop (per esempio Mary J. Blige, che nel 1994 incise My Life, la title-track dell’album omonimo, nonché lo stesso titolo utilizzato da Dr. Dre nel 2005 per colorare il rap e il G-Funk della West Coast) – ma Roy Ayers è stato molto di più, è stato un architetto sonoro, un innovatore delicato che ha saputo traghettare la Black music dall’era del jazz più spirituale a quella del groove ipnotico dell’hip-hop più consapevole. Ma andiamo con ordine. La perdita di un musicista importante come lui – che non è mai stato citato neanche nelle più blasonate storie del jazz – merita un inquadramento del periodo storico in cui la sua musica ha preso corpo, soprattutto perché la sua influenza, quella di un jazzista dal curriculum stellare, ha avuto un ruolo fortissimo sia sul cosiddetto cosmic soul degli anni Settanta sia sul neo-soul e sull’hip-hop di inizio millennio. Dalla metà degli anni Sessanta in poi, l’idioma afroamericano era riuscito ad assorbire tutto quello che gli ruotava attorno triturando in un’unica entità un coacervo di musica di consumo dalla quale non poteva non lasciarsi influenzare. Non a caso un visionario, ma anche un astuto e abile trendsetter, come Miles Davis incise nel 1969 e pubblicò, nel 1970, un album spartiacque come «Bitches Brew». I sostenitori del «crossover», come Herbie Mann, Ramsey Lewis, Charles Lloyd, Eddie Harris, il tardo Cannonball Adderley fecero sentire, forte, la propria voce. I bassisti elettrici iniziarono ad ispirarsi a Larry Graham (uno dei pilastri del ritmo di Sly & The Family Stone) e, sulla sua scia, adottarono la tecnica dello slap insieme all’utilizzo dei pedali di effetti. Nel tempo intercorso tra i due assassinii che cambiarono il volto dell’America (quello di Malcolm X nel 1965 e quello di Martin Luther King nel 1968) due studenti del Merritt College, Bobby Seale e Huey P. Newton, fondarono a Oakland il Black Panther Party. Era il 1966 e i jazzisti più all’avanguardia si sentirono autorizzati a fornire loro un adeguato supporto. I ghetti stavano esplodendo, da Watts al New Jersey, e la musica insieme a loro. Ad un orecchio attento molti degli effetti sonori più estremi adoperati dai sassofonisti del free jazz non risultavano particolarmente dissimili dai grugniti dei loro vecchi colleghi che suonavano rhythm’n’blues e già da allora si andava delineando una distonia tra la critica bianca, per lo più europea, (che faceva dei distinguo tra il jazz ammantato da un’aura di nobiltà e tutto il resto della black music volgarmente «commerciale») e quella afro-americana che invece considerava la musica nera un unico grande albero, con radici profonde nel jazz e con rami che si estendono nelle direzioni più disparate. Lo scenario era il seguente (lo scrivo per chi non ha vissuto quel periodo): sulla scena c’erano musicisti di prima grandezza come Albert Ayler, Roscoe Mitchell, Archie Shepp, Ornette Coleman (non cito Coltrane che, pur avendo avuto una forte influenza sulla storia che stiamo raccontando, morì in quegli anni – nel luglio del 1967 – e non può essere considerato un musicista free a tutto tondo) che iniziarono a riscuotere approvazione e successo, sia in Europa sia negli Stati Uniti, negli ambienti universitari della sinistra bianca. I giovani neri invece – gran parte dei quali era stata arruolata nella guerra del Vietnam – pur essendo estremamente politicizzati, quando tornarono a casa decisero di adottare come colonna sonora del loro impegno sociale una musica più accessibile per il grosso pubblico. Era quella contenuta in dischi come «Say It Loud, I’m Black and I’m Proud» di James Brown, «War» di Edwin Starr, «Ball of Confusion» dei Temptations, «The Ghetto» di Donny Hathaway, «Small Talk at 125th And Lenox» di Gil Scott-Heron, «What’s Goin’ On» di Marvin Gaye, «There’s a Riot Goin’On» di Sly & The Family Stone, «Slippin’ Into Darkness» degli War, «Respect Yourself» degli Staple Singers, «Skin Tight» degli Ohio Players, «There’s No Place Like America Today» di Curtis Mayfield. Era la musica della consapevolezza nera, morbida ma dura nello stesso tempo, con testi fortemente radicati in quello che accadeva nella società di quei tempi. Ancora più apocalittica era la visione della realtà espressa da un piccolo gruppo di poeti di strada legati ai Black Muslims, i Last Poets, che con i primi due album («The Last Poets» e «This Is Madness») seppero cogliere l’urgenza espressiva di quel momento storico rappresentando, tra l’altro, un eccellente manuale di istruzioni per i futuri gruppi hip-hop come N.W.A. e Public Enemy. Per completare il quadro non possiamo dimenticare un nugolo di musicisti, per lo più rappresentati da jazzisti di grande talento, caratterizzati da una abilità strumentale pari o, molto spesso, superiore a quella dei rockers bianchi. Erano musicisti che si muovevano con grande destrezza tra il jazz e il funk venuti fuori da un periodo in cui la musica con cui si erano fatti le ossa, appunto il jazz, con l’avvento del cosiddetto «jazz-rock», poi trasformatosi in fusion, aveva assunto le caratteristiche di qualcosa di molto complesso, sacrificata sull’altare di un virtuosismo fine a sé stesso. Quei musicisti avevano deciso di riportare la musica per le strade del ghetto, con un occhio alle classifiche e con l’altro alla consapevolezza nera. A parte i succitati Ohio Players, War e Sly & The Family Stone, dobbiamo ricordare in quest’ambito gente come Earth, Wind & Fire, Mandrill, Charles Wright & His Watts 103th Street Rhythm Band, Fatback Band (il cui King Tim III è stato uno dei primi rap della storia della black music, inciso prima di Rapper’s Delight della Sugarhill Gang), Bar-Kays, Kool & The Gang, Isley Brothers (nelle cui fila aveva militato un giovanissimo Jimi Hendrix). In questo ambiente in cui i sommovimenti sociali dell’epoca, il movimento per i diritti civili facevano il paio con una musica che cercava di rappresentare la loro colonna sonora, si creò uno spazio per un genere musicale che oggi è tornato prepotentemente alla ribalta, un genere il cui punto di partenza fu rappresentato da un melting pot di influenze latine, africane, brasiliane, asiatiche e indiane, una musica che cercava connessioni, un tutt’uno tra corpo, mente e anima. Si parlò di «cosmic soul» o «cosmic groove» o «spiritual jazz», termine quest’ultimo molto usato al giorno d’oggi da modaioli e, molto spesso, inconsapevoli trendsetters. Erano i germogli di un miscuglio di psichedelia, spiritualità, jazz, rock, soul, funk e chi più ne ha più ne metta.

Era il periodo di Woodstock, i bianchi erano invasati dalla trasgressione hippie e Coltrane aveva intrapreso da qualche anno un cammino spirituale che invase il mondo della musica. Fu quest’ultimo il terreno di coltura che permise a Roy Ayers di crearsi un’identità e una riconoscibilità formando un gruppo che decise di chiamare Ubiquity. Il destino del piccolo Roy fu segnato all’età di cinque anni quando Lionel Hampton gli regalò un paio di bacchette da vibrafono. Da allora quel ragazzetto, nato a Los Angeles nel 1940 da madre pianista e padre trombonista, fece di quello strumento il mezzo per far sentire la sua voce nel mondo collaborando con personaggi come Teddy Edwards, Leroy Vinnegar, Curtis Amy, Gerald Wilson. C’è un motivo storico molto preciso alla base di un gruppo come Ubiquity, perché all’inizio della sua carriera, nata professionalmente nei primi anni Sessanta, il vibrafonista era perfettamente inserito nella scena hard bop della West Coast, la cosiddetta «Black California», e suonava alla corte di nomi importanti come quelli citati poco sopra, avendo imparato i rudimenti dello strumento da giganti come Lionel Hampton e Milt Jackson. Quindi all’inizio Ayers era un jazzista a tutto tondo, «puro», come si diceva all’epoca. Però il suo territorio d’azione era L.A. che, rispetto alla New York di quei tempi, aveva un circuito di club più aleatorio proprio perché molti locali chiudevano i battenti alla stessa velocità con cui venivano aperti. Era uno dei motivi (oltre alla possibilità di lavorare nell’ambito delle colonne sonore di Hollywood) per cui molti jazzisti di quell’area prediligevano il lavoro in studio, considerato all’epoca più sicuro e redditizio, e i club preferirono rivolgere la loro attenzione alle guitar bands che stavano facendosi spazio sulla onda del movimento hippie. In California spuntarono gruppi come Byrds, Jefferson Airplane, Grateful Dead, Moby Grape, Doors, band che ebbero successo trovando porte aperte nei club che fino ad allora avevano dedicato la loro programmazione al jazz: era un terreno sul quale l’idioma afro-americano non poteva assolutamente competere. Da un lato quindi una contingenza lavorativa e professionale, dall’altro l’ingresso nel popolare gruppo del flautista Herbie Mann, che gli aveva aperto le porte a una visione più eclettica della musica, spinsero Ayers – dopo un breve contratto con la Atlantic, che dette origine a una piccola serie di album tanto belli quanto poco venduti – a cercare qualcosa di diverso, qualcosa che unisse la spiritualità dell’epoca con una sensualità ritmica e una precisa identità e riconoscibilità. Quest’ultimo aspetto fortemente connesso a una questione di orgoglio etnico. Nacque così Ubiquity, un progetto più che una band, che fondeva jazz, funk, soul e un pizzico di psichedelia. Era il 1970 e l’obiettivo fu chiaro sin dall’inizio. Bisognava raccontare il mondo nero, la sua bellezza, la sua lotta, la sua gioia cercando di mettere d’accordo il corpo e lo spirito creando una musica capace di passare dalla danza alla meditazione in un attimo. Potremmo riassumere tutto questo con l’espressione «in un battito di groove».
Non se ne è scritto a sufficienza, almeno dalle nostre parti, ma è corretto ritenere Ubiquity un gruppo fondamentale per la musica nera moderna soprattutto perché ha saputo anticipare un suono che avrebbe influenzato profondamente non solo quella mistura di jazz, funk e soul che oggi va molto di moda ma anche per aver gettato le basi di un suono trasversale frequentato anche da jazzisti blasonati come Robert Glasper, Keyon Harrold, il compianto Roy Hargrove et similia, più il cosiddetto neo-soul. E per diversi motivi. Innanzitutto con quel collettivo Ayers ha creato un ponte tra il jazz e le sonorità Black ritenute allora più popolari, ha tradotto la complessità e la spiritualità del jazz in forme più accessibili ma senza banalizzarle, creando uno spazio sonoro condiviso tra la strada e la sofisticazione. Brani come We Live in Brooklyn, Baby (da «He’s Coming», 1972) oppure Searchin’ (da «Vibrations», 1976) non erano pensati tanto per soddisfare gli appetiti di sofisticati appassionati di jazz quanto per il popolo nero, per la gente comune che viveva nel ghetto e cercava una colonna sonora per resistere, amare e sognare. Poi, in un’epoca di risveglio identitario, Ubiquity poneva l’accento su temi come afrocentrismo, meditazione, radici africane inserendoli all’interno di una musica seducente, ballabile, luminosa. Brani come 2000 Black (da «A Tear to a Smile», 1975), Mystic Voyage (la title-track di «Mystic Voyage» dello stesso anno) oppure Red, Black & Green (dall’album omonimo del 1973) erano vere manifestazioni di orgoglio etnico confezionate in arrangiamenti che univano l’Africa al soul più futurista. E da quest’ultimo punto di vista possiamo considerare Roy Ayers uno degli antesignani dell’afro-futurismo, meno teatrale di Sun Ra o di George Clinton ma altrettanto visionario. Niente a che vedere, per intenderci, con l’Africa proiettata nel futuro della scienza secondo le elaborazioni di pensatori come Kodwo Eshun o Steve Goodman. Roy Ayers sognava un mondo migliore, non con l’aggressività del free jazz o del funk più militante, ma con il calore e le vibrazioni del suo strumento sottolineate dalle voci soul dei suoi cori. Era una musica accessibile, moderna e colta nello stesso tempo attraverso la quale il vibrafonista ha dimostrato che la qualità strumentale e la raffinatezza jazzistica potevano convivere con il desiderio di ballare, emozionarsi, riconoscersi. Oggi un personaggio di culto considerato fondamentale per l’evoluzione della musica nera moderna è l’assai prematuramente scomparso J Dilla (al secolo James Dewitt Yancey) per aver elevato la prassi del sampling a livello di arte. Su di lui si potrebbe scrivere un libro (anzi, è già stato scritto da Dan Charnas e si intitola Dilla Time). Il beat un po’ sbilenco di «Voodoo» di D’Angelo è tutta farina del suo sacco. Ebbene, molte delle intuizioni che hanno celebrato il culto di J Dilla sono ampiamente presenti negli album di Ubiquity di quel periodo. Fin dall’inizio la band non era un gruppo fisso ma un collettivo modulare, con Ayers al suo centro come mente compositiva e produttiva. Oltre al leader – al vibrafono e alla voce – c’erano Harry Whitaker (il suo «Black Renaissance» del 1976 è un gran disco) che si occupava degli arrangiamenti e delle tastiere, Billy Nichols al basso elettrico, Omar Clay alla batteria e alle percussioni, Dennis Davis alla batteria (collaboratore di David Bowie ai tempi della trilogia berlinese), Justo Almario al tenore e al flauto e Wayne Garfield, che oltre a cantare era spesso coinvolto nella scrittura di testi dal contenuto spirituale e afrocentrico. Questa formazione ha creato un suono inconfondibile, attraente ancora oggi: vibrafono liquido, Fender Rhodes, groove mid-tempo, fiati dolci e voci corali. Una manna dal cielo per i dj degli anni Settanta. Col tempo ci sono state delle variazioni: soprattutto quando tra il 1973 e il 1975 entrò nel gruppo Edwin Birdsong (coautore di Everybody Loves the Sunshine). Fu un punto di svolta nella musica di Ubiquity perché l’arrivo di Birdsong accentuò la vena funk e psichedelica della band. La sua impronta si sente soprattutto nei brani più groove-oriented come Freaky Deaky (da «Let’s Do It» del 1978) o Running Away, brano del 1991 che faceva parte della colonna sonora di un film inglese intitolato Young Soul Rebels. Furono poi inseriti, alle percussioni, il portoricano Chano O’Ferral e i brasiliani Dom Um Romão e Mayuto Correa, che contribuirono a spingere la musica in una direzione più poliritmica. Un’apparizione memorabile fu quella di Dee Dee Bridgewater in Love From the Sun, brano contenuto in un album del 1973, «Virgo Red»: il suo timbro soul si integrava perfettamente con il suono cosmico della band. William Allen prima e John «Shaun» Solomon poi, sostituirono Billy Nichols al basso elettrico. Con l’aggiunta di questi elementi il gruppo si fece più funk e più «colorato»: spesso i brani sembravano le colonne sonore di una lunga vacanza estiva. Nella seconda metà degli anni Settanta, in particolare tra il 1976 e il 1978 (quando vennero pubblicati album fondamentali nella discografia di Ayers come «Everybody Loves the Sunshine», «Vibrations» e «Lifeline») vennero inseriti Byron Miller al basso elettrico, Ricky Lawson alla batteria (che ha poi lavorato anche con Whitney Houston e gli Steely Dan), le cantanti Sylvia Striplin e Debbie Darby, Philip Woo alle tastiere. Il sound, con questa formazione divenne più pulito, quasi disco-oriented, senza però perdere le sue connessioni con il jazz e il soul. Nel 1976 Everybody Loves the Sunshine divenne un inno, non solo per la sua melodia ipnotica e rilassata ma perché riuscì a cogliere l’essenza della musica nera intesa come momento di auto-celebrazione, di bellezza, di resistenza pacifica. Con quel brano Roy Ayers dimostrò che la rivoluzione può anche essere dolce, sensuale, luminosa. Non credo di esagerare quando affermo che il suo impatto sulle masse, l’influenza che ha esercitato nell’avvicinare il grosso pubblico al jazz è pari a quelle di colleghi ritenuti più blasonati come Herbie Hancock e Donald Byrd. Uno degli aspetti che a mio avviso vanno sottolineati dell’artista Roy Ayers è la sua coscienza politica, vessillo di un orgoglio Black manifestato in ogni occasione: il disco «He’s Coming» (1972) già mostrava una commistione di sonorità panafricane che sostenevano testi impegnati. In quel disco era contenuto un brano, il succitato We Live in Brooklyn, Baby, in cui veniva dipinto l’orgoglio e, nello stesso tempo, la sfida di vivere a Brooklyn, all’epoca (ma anche oggi) quartiere nero per eccellenza. Ancora più esplicitamente l’anno dopo, 1973, «Red, Black & Green» richiama i colori della bandiera panafricana, il simbolo della liberazione nera, e suggerisce un contenuto militante; anche se, in realtà, i contenuti politici di quei testi erano in contrasto con la musica festosa del disco. E fu questo un altro dei tratti caratteristici della sua musica: Ayers era consapevole delle istanze del Black Power e le celebrava – a fine decennio incise «Africa, Center of the World» dedicato a Bob Marley e a Fela Kuti, con il quale arrivò anche a collaborare – ma preferiva veicolarle con un approccio ottimistico. Ma sintetizzare e, in qualche modo, limitare la grandezza della sua personalità all’aver creato un ponte tra jazz, funk e spiritualità, all’aver inserito temi afrocentrici all’interno della sua musica, al suo orgoglio etnico è ancora riduttivo: perché uno dei motivi per cui, soprattutto oggi, la figura di Roy Ayers è ritenuta essenziale, è legato all’enorme influenza che il vibrafonista con la sua musica ha avuto sul neo-soul e sull’hip-hop dagli anni Novanta ad oggi. Sorvoliamo sulla riscoperta della sua musica da parte dei dj britannici nel periodo dell’acid jazz: chi di voi è abituato a leggere i miei articoli si sarà accorto dell’avversione che nutro per quel fenomeno. Roy Ayers era molto di più di quella moda – rivelatasi poi passeggera – e la sua influenza sulla musica nera moderna è stata sia diretta (attraverso collaborazioni con alcuni dei protagonisti dell’hip-hop e del neo-soul) sia indiretta, manifestata con forza tramite il campionamento, pratica fondamentale nell’hip-hop e nel r&b contemporaneo.
Bisogna dire che il vibrafono, dal punto di vista jazzistico, è lo strumento ideale perché, oltre a far parte della categoria degli strumenti a percussione, possiede – per chi lo padroneggia – tutte le possibilità melodiche immaginabili. Uno dei motivi per cui si è imposto lentamente nel jazz può essere dovuto al fatto che non permette una flessibilità del suono simile a quella degli strumenti a fiato, essendo essa stessa influenzata indirettamente dal vibrato e dalla forza della percussione, entrambe regolabili elettricamente. Uno dei pregi di Roy Ayers è stato, pur avendo le sue radici strumentali nel jazz, di staccarsi dalla rigidità dello strumento personalizzando un suono più strettamente imparentato con il groove del soul e del funk: il suo modo di suonare il vibrafono diventò uno specchio della diaspora nera. La sua influenza sul neo soul e sull’hip-hop è principalmente legata a questa sua caratteristica. Gli artisti del neo-soul, emerso verso la fine degli anni Novanta, tra cui l’appena scomparsa Angie Stone, Erykah Badu, D’Angelo, Jill Scott, Maxwell, hanno attinto a piene mani dalla sua estetica colpiti soprattutto dalla sua capacità di colmare il divario tra la perizia strumentale e la cultura beat-centrica dell’hip-hop, al punto che oltre a citarlo come continua fonte di ispirazione hanno collaborato attivamente con lui. Erykah Badu, oltre ad aver reinterpretato dal vivo la sua Searching, lo ha voluto con sé nella sognante Orange Moon (da «Mama’s Gun» del 2000), un brano dall’evidente immaginario cosmico. I Roots, uno dei primi gruppi a suonare hip-hop senza l’utilizzo di samples, fecero dialogare i fraseggi del suo vibrafono con il rap di Malik in un brano intitolato Proceed II, anche se l’idea di fusione tra jazz e hip-hop era stata anticipata un paio d’anni prima (1993) da Guru dei Gang Starr, che aveva coinvolto il vibrafonista nel progetto Jazzmatazz in un brano intitolato Take a Look (at Yourself). Ma, a parte le sue collaborazioni dirette, va detto che Roy Ayers è stato letteralmente saccheggiato – nel senso che molti suoi brani sono stati oggetto di campionamento – da parte di moltissimi artisti hip-hop. Abbiamo già citato i casi di Everybody Loves the Sunshine di Mary J. Blige e Dr. Dre, cui va aggiunta la versione quasi integrale di quel brano con il rap dei Brand Nubian: il pezzo si intitola Wake Up (Reprise in the Sunshine) ed è contenuto nel loro album d’esordio nel 1990, «All for One». Un altro classico di Ayers, Running Away, fornisce l’ossatura melodica di Description of a Fool di A Tribe Called Quest nel 1989, mentre un anno dopo Q-Tip, uno dei rapper del gruppo, costruì il famoso Bonita Applebum campionando Daylight, brano dei RAMP (gruppo prodotto proprio da Ayers). Anche l’ormai famoso Common ha campionato Running Away in Nag Champa (Afrodisiac for the World) (da «Like Water for Chocolate», 2000). Pete Rock & C.L. Smooth hanno reso direttamente omaggio al pezzo costruito sul sample dell’omonimo brano di Ayers. Ma l’influenza del vibrafonista si estende anche al di fuori del circuito strettamente conscious: artisti di ambiti diversi hanno trovato nei suoi vecchi dischi una miniera di suoni. Da beatmakers come Madlib a star del soul contemporaneo come Tyler, The Creator, che lo ha perfino invitato a suonare in Find Your Wings (da «Cherry Bomb», 2015), da Mos Def (oggi Yasiin Bey) a Kendrick Lamar. Insomma, la sua musica è stata un vero e proprio collante generazionale, ancora oggi riscoperta, remixata e celebrata, e mai passata di moda.
Per rendere il più esaustivo possibile il nostro omaggio a uno dei musicisti più importanti (e anche più sottovalutati) della musica nera vi offriamo un piccolo percorso sonoro attraverso quelli che consideriamo i brani essenziali da ascoltare del vibrafonista sia nel periodo degli anni Settanta, quello del cosiddetto cosmic soul, sia durante gli anni Novanta, quello dei campionamenti, delle cover o reinterpretazioni e, in alcuni casi, di brani che ne riprendono lo stile e le tematiche; considerando anche che nel cd allegato a questo numero troverete i brani del primo periodo della carriera di Ayers, quello imparentato con il jazz – consentiteci il termine – più ortodosso. Riferendoci al primo periodo, quello degli anni Settanta, vi consigliamo:
We Live in Brooklyn, Baby («He’s Coming», 1972): cattura l’orgoglio di vivere a Brooklyn e rappresenta il lato socio-politico di Ayers. Groove ipnotico che anticipa il jazz-rap.
Red, Black & Green («Red, Black & Green», 1973): ispirato alla bandiera pan-africana. Anche questo brano rappresenta il versante socio-politico del vibrafonista.
Love From the Sun («Virgo Red», 1973): con Dee Dee Bridgewater. È considerato un precursore dell’acid jazz.
Mystic Voyage («Mystic Voyage», 1975): dedicato all’appena scomparso Cannonball Adderley. Un viaggio mistico, per l’appunto, tra melodia sognante e groove funk.
Everybody Loves the Sunshine («Everybody Loves the Sunshine», 1976): un vero e proprio inno. Il pezzo più noto e campionato di Ayers.
Searching («Vibrations», 1976): equilibrio tra introspezione e ballabilità, tipico dello stile di Ayers. Sarà poi reinterpretato da Erykah Badu.
2000 Black («A Tear to a Smile», 1975): brano afro-futurista. Il ritornello «2000 Black is gonna be a beautiful year» è un manifesto di speranza. 4Hero, un duo drum’n’bass, nel 1990 lo citerà alla lettera dando vita al progetto 2000 Black.
Da qui in poi l’elenco è completato da brani di altri artisti che si muovevano sulle stesse coordinate a testimonianza dell’enorme influenza che la musica di Ubiquity ha avuto in quel periodo:
Expansions (Lonnie Liston Smith & The Cosmic Echoes, da «Expansions», 1975): invito a espandere la mente, «spiritual jazz». Brano cosmico che condivide la stessa ricerca di elevazione presente nella musica di Ayers.
Butterfly (Herbie Hancock, da «Thrust», 1973): è il periodo fusion del celebre tastierista. Synth ovattato, linea di basso fluida, Fender Rhodes. Atmosfera sognante, in sintonia con il soul cosmico del vibrafonista.
Kalimba Story (Earth, Wind & Fire, da «Open Your Eyes», 1974): il testo parla di racconti mistici legati allo strumento, la kalimba. Brano pop uscito nel periodo in cui il gruppo di Maurice White condivideva l’afro-spiritualità di Ayers.
Think Twice (Donald Byrd, da «Stepping Into Tomorrow», 1974): Byrd, come Ayers, inserì melodia e semplicità r&b nel jazz. J Dilla campionerà questo brano decenni dopo.
You Are My Starship (Norman Connors, da «You Are My Starship», 1976): ha in comune con Ayers la tematica dell’afro-futurismo, quello più romantico e «leggero». Soul ballad, lenta, galattica.
Celestial Blues (Gary Bartz NTU Troop con Andy Bey, da «Harlem Bush Music: Taifa», 1971): ancora spiritual jazz e Black consciousness. Bartz condivideva già da allora l’estetica afro-centrica (NTU sta per unità) tipica di quel periodo.
Space Is the Place (Sun Ra, da «Space Is the Place», 1973): groove ipnotico e free jazz. Musicalmente più sperimentale della musica di Ayers, ma del tutto in sintonia con il suo spirito cosmico.
Mothership Connection (Star Child) (Parliament, da «Mothership Connection», 1975): ancora – e come potrebbe essere diversamente – afro-futurismo ma con un approccio più carnale. Il contraltare funk al soul-jazz di Roy Ayers con un pizzico – anzi, ben più di un pizzico – di psichedelia.
Daylight (RAMP, da «Come Into Knowledge», 1977): scritto e prodotto da Roy Ayers. Sarà campionato da A Tribe Called Quest in Bonita Applebum.
African Rhythms (Oneness of Juju, da «African Rhythms», 1975): qui è l’afrocentrismo a farla da padrone, un mix irresistibile di percussioni africane, basso funk e fiati jazz.
Saturn (Stevie Wonder, da «Songs in The Key of Life», 1976): il sogno di abbandonare le brutture del pianeta Terra per andare a vivere in pace su Saturno. In quel periodo anche il soul più mainstream era intriso di vibrazioni cosmiche.
Star Borne (Johnny Hammond, da «Gambler’s Life», 1974): prodotto da Larry Mizell. Con Ayers ha in comune il fatto di essere stato amato dai dj acid jazz negli anni Novanta
Galaxy (Eddie Henderson, da «Sunburst», 1975): jazz-funk strumentale. Anche il dottor Henderson si era fatto coinvolgere dall’aura cosmica e spirituale dell’epoca.
Dai gruppi rap della cosiddetta old school ai protagonisti del movimento Soulquarian fino ad arrivare alle stelle del soul moderno, la musica di Roy Ayers è considerata un terreno di coltura dal quale pescare ancora oggi.
Questo è un elenco dei brani che sono stati più felicemente campionati e reinterpretati da quelli dell’hip-hop. Di Bonita Applebum (A Tribe Called Quest, sample di Daylight degli RAMP), My Life (Mary J. Blige, sample di Everybody Loves the Sunshine), Take a Look (At Yourself) (Guru, con Ayers al vibrafono), Orange Moon (Erykah Badu; Ayers al vibrafono), Proceed II (The Roots, sempre con Ayers al vibrafono), New Champa (Afrodisiac for the World) (Common, sample di Running Away con lo zampino di J Dilla), Wake Up (Reprise in the Sunshine) (Brand Nubian, sample di Everybody Loves the Sunshine), Searching (Pete Rock & C.L. Smooth, sample di Searchin’), Find Your Wings (Tyler, The Creator con Ayers al vibrafono); della versione dal vivo di Searchin’ di Erykah Badu e di My Life (Dr. Dre, sample di Everybody Loves the Sunshine) abbiamo già scritto. Meritano di essere menzionate in aggiunta:
- Book of Life (Common, da «One Day It’ll All Make Sense», 1997): contiene elementi di Everybody Loves the Sunshine (si percepisce il riff della tastiera) riprendendone lo spirito mellow. Un esempio di come i rapper più impegnati abbiano usato le vibrazioni di Ayers per sostenere i loro messaggi.
- When the Sun Shines (Common, Pete Rock, Bilal e Posdnuos dei De La Soul, da «NBA 2K7 Soundtrack», 2007): ancora un campione di Everybody Loves the Sunshine ma concepito come una jam tra quattro mostri sacri del rap più conscious.
- Get Money (Junior M.A.F.I.A e Notorious B.I.G., da «Conspiracy», 1995): brano prodotto da Roy Ayers, che incontra il gangsta rap su un campionamento di Can’t Turn Me Away di Sylvia Striplin.
- Chocolate Pomegranate (Ari Lennox, da «Shea Butter Baby», 2020): Ari Lennox è uno dei nomi nuovi del neo soul di questi anni. Qui è campionato I Wanna Touch You Baby, brano del 1978 contenuto in un album di Ayers dal titolo «You Send Me».
- Groove Is in the Heart (Deee-Lite con Bootsy Collins e Q-Tip, da «World Clique», 1990): con un sampling da Love, brano del 1976.
- Celebration (Kendrick Lamar, da «Section 80», 2011): soulful con un sampling di Hummin’ in the Sun (1970).
- Brooklyn (We Live in Brooklyn, Baby) (Mos Def, da «Black on Both Sides», 1999): omaggio diretto a We Live in Brooklyn, Baby
- Africa (D’Angelo, da «Voodoo», 2000): qui Roy Ayers non c’entra direttamente ma il brano, una dedica poetica alle radici africane e al figlio di D’Angelo e Angie Stone, ricorda le atmosfere spiritual dell’Ubiquity anni Settanta.
Il vibrafonista è stato omaggiato più volte dai dj più noti, tra cui i Masters at Work nel 1996 con il progetto Nuyorican Soul, e Adrian Younge e Ali Shaheed Muhammad nel 2020, nel progetto Jazz Is Dead ancora attivo.
Che altro aggiungere sulla grandezza di un musicista del genere? Viene solo da chiedersi perché, nonostante l’enorme influenza da lui avuta sulla musica nera, Ayers continui a essere il grande assente nelle storie «ufficiali» del jazz. Mai citato accanto ai «giganti», mai celebrato nei canoni accademici, come se la sua scelta di parlare al cuore della gente e non alle élites avesse un prezzo da pagare. Ma la sua opera, diffusa come polline nei solchi dei dischi, nei campioni dei beatmakers, nei cori delle voci soul, è dappertutto, anche dove i manuali tacciono. Roy Ayers non ha chiesto il permesso di essere ricordato, ha lasciato semplicemente vibrare la sua musica. E chiunque abbia socchiuso gli occhi ascoltando Everybody Loves the Sunshine lo sa.