Rolf Lislevand: Primo Libro

Il liutista, tiorbista e chitarrista norvegese è tra coloro che non solo hanno contribuito a un nuovo corso interpretativo della musica antica, disancorato dalla dittatura delle intavolature, ma hanno costruito un pensiero organico sul modo di rapportarsi nell’attualità con la storia

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«La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta. In ogni caso molti anelli non tengono», scriveva Eugenio Montale, aggiungendo: «La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli. C’è chi sopravvive». Tra chi sopravvive in splendida forma, surfando dal Rinascimento alla contemporaneità, con una tenuta progettuale tetragona a ogni purulenta accademizzazione del fatto musicale c’è Rolf Lislevand. Il liutista (e tiorbista e chitarrista e ogni altro cordofono affine soggiunga al lettore) norvegese è, infatti, tra coloro che non solo hanno contribuito ad un nuovo corso interpretativo della musica antica, disancorato dalla dittatura delle intavolature, ma ha costruito un proprio pensiero organico su come ci si debba rapportare nell’attualità con la storia. Il che non è un fatto del tutto secondario, a ben pensarci, se è vero che il grado di commistione tra improvvisazione jazz, musica contemporanea e scoperta di materiale originale dagli archivi musicali sta portando ad una doverosa riflessione sui confini o sui mancati confini tra generi. Non una missione facile, se non si voglia tradire il geist di un compositore del ‘500 o del ‘600 e traghettarlo nell’hinc et nunc dell’esecuzione improvvisata di repertori affini, ma non necessariamente consecutivi. 

«Come ha scritto il filosofo danese Søren Kierkegaard con precisione, qualunque cosa inserita in un’estetica richiede a gran voce un rinnovamento continuo per essere in grado di restituire come nuova l’esperienza delle emozioni. Per ricatturare l’interesse, sono richieste nuove forme estetiche e di decostruzione di ciò che è vecchio». Lo dice esplicitamente Lislevand nelle coltissime note di copertina di «Libro Primo», il nuovo lavoro per ECM, con la quale ha festeggiato i primi vent’anni di collaborazione. Anzi, per alcuni versi, si potrebbe considerare come la quintessenza dell’idea musicale di Manfred Eicher, tra ricerca del timbro e del suono identitario e l’azzardo di repertori esogeni al jazz, solo per chi sbuffi al primo ascolto. 

La cosa curiosa del musicista norvegese è l’apertura all’uso degli strumenti antichi modificandone cori (le coppie di corde di un liuto) e accordature, frugando in repertori meno battuti per scoprire quanto dissonanze o armonie non necessariamente legate ai principi della tonalità siano qualcosa che parte da molto lontano. Molto prima che i bluesmen adattassero le accordature aperte o i cluster diventassero il new deal, a volte di maniera, del jazz da Davis e Coltrane in poi. 

Stavolta Rolf Lislevand dissotterra, tra le cripte e le buche montaliane, gli esordi musicali (da cui il titolo, che si riferisce alle opere prime nelle arti) di Johann Hyeronimous Kapsberger, tiorbista seicentesco con una arditezza scapigliata armonica inversamente proporzionale alla severità del nome, il bolognese Alessandro Piccinini e Diego Ortíz (che leggenda vuole ritratto nelle Nozze di Cana del Veronese), una cui Recercada chiude l’album con frammenti armonici che paiono usciti dalle corde di Marc Ribot. Tre straordinari musicisti tutti convenuti in Italia al servizio dei Barberini, Colonna ed Este e tutti autori di trattati musicali, colti però nella freschezza dei primi lavori, perché «possono spesso contenere le creazioni più ispirate e radicali di un artista», scrive sempre Lislevand. 

Ora, per chi ami i cordofoni come chi scrive, è una specie di supplizio di Tantalo restare concentrati sulle parole del musicista di Oslo, che ci parla da una cucina inondata da una pioggia di luce ostinatamente battente su otto strumenti antichi (tiorbe, liuti, vihuelas, chitarre francesi e così via) di bellezza luminosa alle sue spalle, adagiati su un telaio di legno a tutta parete. Meno male che Rolf Lislevand è ben felice di temperare il suo eccellente italiano, che via via si affina per chiarezza in odore di autoctonia. Effetti dell’abitudine a navigare mille linguaggi, probabilmente. Tuttavia, la disponibilità a raccontarsi e raccontare la storia consente di salutare la mirabile visione e vivere il piacere della conversazione con un artista generoso, felice di essere ospite di Musica Jazz. 

Rolf, grazie di questa occasione. Andiamo dritti al punto: cosa hai trovato affascinante nell’idea del Libro Primo?

Come ho scritto anche nel booklet, c’è qualcosa di unico nei compositori che fanno pubblicare la loro prima edizione, si sente un’ispirazione particolare, giovane, fresca. Nella nostra professione di liutisti di musica antica, un Libro è la testimonianza di opere che venivano eseguite nel tempo, soprattutto dai musicisti compositori, ma un libro non è solo un manuale d’uso per la musica. Vedi, noi siamo abituati all’idea che la musica stampata è una sorta di «verità» esecutiva e questo atteggiamento lo portiamo dall’Ottocento in poi. In passato, non era questa la finalità della pubblicazione; il fatto di far stampare dava una specie di ricordo del tempo, anche dopo la morte del musicista, ma la musica era una prassi orale e improvvisativa. Non possiamo neanche sapere come venivano eseguite, se dall’inizio alla fine o se erano solo proposte come lessemi di cui appropriarsi, per procedere individualmente nel percorso creativo e improvvisativo. È per quello che mi fa piacere essere ospite di Musica Jazz, perché non è l’espressione musicale in sé, ma lo spirito profondo a far sì che io mi senta molto più vicino alla tradizione jazzistica rispetto ad altre tradizioni musicali. La creatività, la libertà e l’improvvisazione sono nella natura delle intavolature antiche. Per noi un Libro è un quadro, una cornice, per attivare la creatività. 

Però, per non creare equivoci né ambiguità, in cosa cambia l’atteggiamento dell’improvvisatore tra jazz e musica rinascimentale? 

Interessante. Il libro di musica antica è una specie di esercizio di stile: si impara un linguaggio e si ricombinano i suoi elementi in qualcosa di nuovo. Nel jazz, specie in quello che si può considerare «storicizzato», visto che esiste da più di un secolo, c’è un procedimento simile. Ricordo che lo stesso Manfred Eicher, durante un pranzo insieme, mi disse che alle volte i musicisti jazz gli sembravano paradossalmente i meno spontanei di tutti, e detta da lui è chiaramente un’espressione forte; la verità è nella ricerca di creare e ricombinare un linguaggio. Ora, il problema è che da noi nella musica antica ci si aspetta di trovare un «certificato di autenticità»; ma l’idea deve essere quella di rispettare le informazioni in nostro possesso, in modo che ci si ponga in un’altra posizione rispetto a un musicista classico «tipico». Quest’ultimo spesso segue una tradizione che è stata trasmessa dal maestro, dal maestro del maestro e così via; noi con la musica antica vogliamo immaginare di collocarci in una posizione storica altra, contemporanea al momento della scrittura, e tentare di darne un’interpretazione oggi, per vedere cosa succede. La difficoltà risiede nel fatto che l’improvvisazione è una composizione istantanea, in realtà, e non ha senso improvvisare l’improvvisazione di ieri o quello che ha fatto un altro; quindi, si crea una sorta di «conflitto» tra questi due principi. Mi spiego: all’epoca i liutisti erano grandi improvvisatori, oggi ci troviamo nel 2025 a suonare quel repertorio; dovremmo suonare, per dire, un concerto barocco come fosse il giorno prima o il giorno dopo la fine della musica barocca? 

In «Libro Primo» c’è un brano molto curioso, Passacaglia a modo mio, che è una specie di antologia di Lislevand, se me la passi. Ti ritrovi a citare la musica dell’Inno alla gioia di Beethoven, dopo di che Keith Jarrett, poi inizi in tonalità minore e termini a sorpresa in maggiore… 

Esattamente! Forse quel pezzo è una specie di ammissione di un uomo di sessantadue anni che quando entra in un processo creativo di composizione non può negare tutto ciò che lo ha influenzato della musica moderna. Ciò che ho in testa è parte del mio bagaglio di vita personale e musicale. A quel punto – torniamo a quello che ti dicevo – il conflitto presunto con la musica antica per cui non posso suonare Beethoven perché non esisteva nel Seicento, richiede una presa di posizione molto chiara, una responsabilità: la mia risposta è che voglio improvvisare con la musica antica, non mi interessa un procedimento crossover, per carità, ma affermare che una cosa porta con sé un’altra cosa. Se leggo un punto del Libro Primo di Kapsberger, per esempio, ci sono passaggi che mi fanno pensare semplicemente ad altro. Si tratta di un processo di associazione: Kapsberger non poteva farlo nel momento della scrittura, ma io posso perché la sua musica si combina con le mie conoscenze dovute alla modernità; quindi, non opero censure perché suono solo «musica antica», ma uso questo per far avanzare la vita di queste opere, che in qualche modo si erano fermate al Seicento. 

L’interpretazione evolutiva delle arti è in effetti un dato condiviso in tanti linguaggi. In «Libro Primo» c’è, ancora una volta, tanta musica di Hyeronimous Kapsberger, personaggio davvero curioso. Cosa ti piace della sua musica, a parte il non aver mai ritrovato il suo Libro di teoria musicale…? 

Bravo! Quello sarebbe il mio sogno, ritrovare il manoscritto. Kapsberger mi ha sempre incuriosito proprio per la mancanza di luoghi comuni musicali, mi spingerei a dirti di «chiarezza» come compositore. Era amico personale di Urbano VIII e di grande fama ai suoi tempi, però la musica strumentale per liuto, tiorba o chitarrone leggendola di per sé non esprime le qualità che ci aspetteremmo di trovare. Qualità ovvie musicali come un percorso armonico interessante, ma anche melodicamente comprensibile; pare tutto confuso e allora il mio progetto di vita è stato di dare un ordine a questa confusione musicale; se ci pensi, un musicista, come tutti gli artisti, vuole dare forma a ciò che non la ha come sua missione, così nasce un’opera d’arte. Kapsberger è stata la mia sfida maggiore in questo senso: dall’intavolatura non troviamo ciò che vorremmo ed ecco che serve una nuova chiave di lettura. Qui subentra il processo artistico: l’associazione tra qualcosa oggi non più conosciuto unito a informazioni più attuali. Poi, sai, ho avuto la fortuna di avere un maestro e un amico importante come Jordi Savall, uno che ha una formazione di musicista catalano romantico, è una specie di Pablo Casals 2.0. Una delle sue grandi sfide è stata di prendere il repertorio rinascimentale e metterlo in una forma sinfonica e Savall svolge moltissime operazioni per arrivare a questo: toglie voci, mette bordoni, cambia le forme, ma nella testa mantiene una visione creativa che mi ha profondamente toccato come artista. Lo stesso accade con le musiche medioevali; in Italia, ad esempio, nel Trecento è nata l’Ars Subtilior (in opposizione alla c.d. Ars Nova, fu uno stile profano fortemente sperimentale di notazione, anche utilizzando colori diversi per ridefinire la durata delle note, o creando partiture a forma di cuore, di arpa, ecc., ndr), che è estremamente complessa, quasi contemporanea, piena di dissonanze; e ci sono stati musicisti contemporanei che hanno dato nuova vita a quell’Ars. A lato di tutto questo sopravvive l’ispirazione vastissima della musica popolare, ma è sempre un modello di musica che abbiamo già nelle orecchie e abbiamo nel cuore e ci consente di dare forma a qualcosa di sconosciuto. 

Uno dei sistemi per suonare in modo «nuovo» questa musica l’hai anche ottenuto lavorando sulle accordature degli strumenti. Per esempio, correggimi se sbaglio, nell’arciliuto hai cambiato il registro dei primi tre cori rispetto agli altri, spostandoli di un’ottava, per dare più suono e bassi più rotondi. 

Complimenti, proprio così. Allora, nella musica antica rischiamo di diventare dei conservatori. Ci limitiamo a dire che l’accordatura di un certo strumento è tale; ora ci sono tracce di nuovi esperimenti, che però seguono le logiche della musica del tempo. Non è così fisso e ovvio che l’arciliuto o la tiorba siano accordati nel modo che studiamo nelle Accademie; spesso i cori, cioè le corde doppie, hanno avuto diverse ottave. Poi nel Seicento gli strumenti di corda a pizzico diventano un’eccellenza, perché hanno le qualità nuove di essere strumenti che creano colori e superfici, che creano tappeti di suoni con colori nuovi, non strettamente vocali. La prima chitarra barocca grattava quattro accordi ed erano tutti felici di sentire quel nuovo impiego; noi fatichiamo a capirlo, perché ci sembra ovvio, ma fu una specie di rivoluzione. Nacque una specie di impressionismo come colore del suono, davvero moderno; non si può neanche scrivere secondo i principi della teoria barocca quello che facevano armonicamente le chitarre. C’è una famosa citazione di Robert de Visée, grande tiorbista francese, che nella prefazione del Manuale per chitarra scrive: «Se pensate che stia suonando un’armonia sbagliata, non preoccupatevi, è ciò che vuole lo strumento»: è una dichiarazione maestosa, con cui svicola da tutte le regole imposte, razionali dell’armonia. 

Rolf Lislevand Primo Libro

Il chitarrone e la tiorba poi hanno dinamiche molto complesse da governare, perché non ci sono i pedali d’espressione come nel piano, ma tutto è rimesso alla tecnica del pizzico.

Le testimonianze del tempo ricordano appunto che il bello della tiorba o del liuto è che sono strumenti che possono suonare forte e piano; è interessante perché molti strumenti barocchi, il clavicembalo o l’organo o il flauto dolce, hanno una sola dinamica. Gli strumenti a corda pizzicata sono famosi, ahimé, per essere un po’ deboli come quantità di suono prodotta e infatti in alcune situazioni mi si richiede di amplificare gli strumenti, perché in questo modesto volume possono essere valorizzati dinamiche e colori incredibili. Se l’acustica non corrisponde alle necessità dello strumento, perché alcune architetture contemporanee non possono tenerne conto, allora ci si amplifica per recuperare varietà. 

Se alcuni tuoi colleghi sentissero che usi gli amplificatori…

Lo so, lo so, ne sono consapevole, ma ognuno fa le sue scelte!

Parlando di acustica, hai registrato l’album ai Moosestudios, uno spazio molto bello a sud della Norvegia: quanto è importante la risonanza del suono per interagire con la musica? 

È talmente essenziale che si può tranquillamente dire che l’acustica fa parte dello strumento. Quello studio lo abbiamo progettato con un po’ di amici una decina d’anni fa, è tutto di legno, seguendo l’architettura norvegese, ma ha la stessa forma di un grande liuto, per il modo di svilupparsi a doghe. Per una registrazione, ovviamente, si può manipolare il suono a posteriori, ma l’importante è ciò che tu senti mentre suoni ed è lì che inizia il dialogo con l’acustica. Negli ultimi dieci anni ho fatto un po’ anche il tecnico del suono in quello spazio per aiutare alcuni amici (anche questo è un lavoro molto creativo e che amo) e mi rendo conto che, quando cerco un suono, voglio registrare quello che io sento, non quello che sente il collega o l’ascoltatore che ho di fronte. Qui si fronteggiano opinioni diverse: c’è chi sostiene che la registrazione debba avere molta naturalezza, ma io dico che non c’è nulla di naturale in una registrazione, a partire dal fatto che ascolti con due altoparlanti che aggiungono un’acustica a un’altra acustica, ed è lo stesso utilizzando le cuffie. 

Il suono dei tuoi album ECM: anche in «Libro Primo» sembra che tu ed Eicher condividiate la stessa precisa idea di suono. Cioè, se io dovessi indicare a qualcuno com’è il «suono ECM» forse consiglierei l’ascolto dei tuoi album.

Siamo completamente affini! Per me lui è stato sempre un ideale, come musicista sono cresciuto con i suoi dischi ed è la cosa che da subito mi ha catturato il cuore. In tanti amiamo questa tecnica, che ha avuto un ruolo importantissimo nella storia della musica. Manfred riesce, da un punto di vista estetico, a registrare del mio strumento tutto quello che io sento come musicista; ogni tanto mi rendo conto che, per chi non conosce i liuti, può sembrare un effetto poco naturale, perché si ha la memoria acustica di spazi più grandi e con maggior distanza. Ma, vedi, se c’è qualcosa di essenziale nel suono, è la sua carica sensuale: nel senso che un suono fatto bene significa gusto, fisicità, sensualità, vibrazione e quello per me è irrinunciabile, tanto che tutte le volte che si può recuperare è una specie di miracolo. Pensa alla musica leggera: perché alle volte si usano amplificatori enormi, megaschermi, volumi alti? Si fa per recuperare l’intimità perduta in quegli spazi enormi: la musica è intimità per essere sentita a livello emotivo. Spesso per motivi commerciali, questa intimità va persa, perché c’è troppa gente e si resta troppo lontani… e così si recupera per via digitale il processo perduto. 

Cos’è successo nel corso della storia al ruolo del musicista, da faro etico delle società alla scarsa considerazione di oggi? 

Diciamo che la musica dell’epoca era tutta contestuale, nel senso che aveva una funzione nella società. Poi, con il Romanticismo, è nata l’idea del musicista come personaggio eccezionale, che fa tutto ciò che vuole. Così, anche nel Novecento, il compositore era uno che scriveva qualcosa che nessuno capiva o che era complessa da capire. Questa è una figura sconosciuta nel Seicento o nel Settecento, dove si era artisti importanti, ma mai geni individualisti; gli artisti svolgevano una funzione, spesso ristretta al servizio di persone privilegiate, le Corti, per allietare la vita quotidiana. Poi la riproduzione elettronica e i corrispondenti cambi nelle strutture sociali hanno affievolito ulteriormente la funzionalità della musica. 

Restiamo su un discorso storico. Ciò che è ammirevole da parte tua e di altri tuoi colleghi è recuperare materiale destinato diversamente all’oblio, un vuoto nella testimonianza di civiltà… Questo rischio di perdita esiste? 

Certamente: anzi, purtroppo, si presume che la maggior parte del materiale sia andata persa. Ma, ancora una volta, la musica non è la partitura, almeno nella sua forma antica diciamo che fornisce un venticinque per cento delle informazioni per fare musica e quindi, da un lato si recupera e si crea qualcosa, dall’altro lato si entra in una tradizione viva e attuale. 

Rolf Lislevand

Ci sono nuovi compositori di musica per liuto? 

Sì, ogni tanto mi vengono anche proposte opere da eseguire. È interessante come fenomeno; diciamo che molto di ciò che mi arriva non suscita il mio interesse e non vi trovo nulla di eccezionale. Il che è quasi sorprendente: la chitarra moderna ha sei corde di plastica e tasti di metallo, un liuto ha corde doppie accordate in mille modi diversi e tasti mobili in budello che consentono l’uso di microtonalità. Sarebbe un invito ghiotto perché racchiude tutti gli elementi tipici della musica contemporanea, eppure non avviene. Personalmente, però, mi interessa più l’aspetto improvvisativo che la nuova composizione, questo ormai è chiaro. Come nel jazz, gli elementi di comunicazione, di spontaneità, di totalità di esperienza musicale possono essere restituiti solo da una buona musica improvvisata. 

Eppure, con un po’ di sorpresa, ho notato che nei Conservatori italiani ed europei dove sono stati attivati i corsi, c’è un boom di iscrizioni dei ragazzi per studiare il liuto e gli altri strumenti antichi a corda pizzicata.

Mi rendo conto che gli strumenti antichi hanno qualcosa di affascinante, magico, perché resistono a una certa standardizzazione. Vedi, ormai uno strumento «classico» si fa fatica a immaginarlo in modi non conosciuti, mentre i nostri hanno la caratteristica propria delle musiche popolari e, perché no, del jazz. Quando tu amplifichi un liuto o la tiorba coi suoi bassi, se vogliamo suonare per nostro piacere, trovi subito soluzioni molto moderne e poco classiche, che ti portano ad altre direzioni. Questo capita anche a me: insegno in Francia e in Germania, ogni tanto arrivano anche bravi liutisti che sono molto poco interessati alla musica antica, ma amano lo strumento e vengono quasi esclusivamente per quello. Lo trovo un modo sano come atteggiamento culturale e un buon viatico per costruire il proprio percorso. 

Continui a lavorare con Hendrick Hasenfuss per costruire i tuoi strumenti? 

Ah, lo conosci! Sì, ho molti suoi strumenti. Li discutiamo per arrivare ad una prima idea; tuttavia, esiste un aspetto che non si lascia definire: la sensazione, cosa provi con lo strumento tra le mani, come reagisce fisicamente. Questi parametri sono complicati, quasi sciamanici e qui arriva l’istinto del bravo liutaio, che senza aver razionalizzato il fine, realizza oggetti che regalano sensazioni belle a chi suona. Poi, c’è qualcosa di più prosaico, meno esoterico: uno strumento deve avere una bella dinamica acustica e deve avere una voce che non sia troppo sottile. Nella storia della liuteria moderna le cose sono cambiate spesso; oggi, direi, i liutai italiani o spagnoli sono molto attenti a fare strumenti più potenti e i liutai inglesi o tedeschi sono più attenti al timbro; qui nasce una specie di conflitto tra i due livelli. Potenza e timbro possono sacrificarsi vicendevolmente, per lo spessore del legno e altri fattori, che cambiano l’attacco del suono. Può esserci un attacco potente e poi il suono cade immediatamente; volume e timbro hanno davvero molte variabili. 

Negli scorsi mesi hai contribuito al debutto discografico della brava liutista Albane Imbs con i Capricci di Castaldi e Pellegrini o al Fandango di Boccherini con Ophélie Gaillard. È importante lavorare con giovani musicisti?

Albane, non è un segreto, è la mia compagna da anni: ci siamo conosciuti a Lione dove insegno. Lavorare con i giovani, in generale, è importantissimo. In Francia ci sono giovani liutisti che arrivano al Conservatorio superiore con una tecnica e una cultura impressionanti di liuto e conoscenze vaste di musica antica. Negli ultimi anni, ho lavorato con studenti che a sedici anni erano già in fase di specializzazione, non so se mi spiego: hanno la stessa conoscenza stilistica che noi avevamo a trent’anni. 

Una curiosità prima di salutarci: hai una tonalità preferita in cui suonare? 

Ah, dipende dallo strumento: sull’arciliuto il Do minore, sulla chitarra barocca, direi, il Re minore o Re maggiore. Poi devo dirti che l’accordatura della chitarra barocca o moderna non è il massimo per la fisionomia dello strumento; non so se hai presente quella chitarra, fatta da un liutaio norvegese, Øivin Fjeld, ma venduta soprattutto negli Stati Uniti, si chiama G-sharp guitar ed è accordata in Sol diesis, il che ricalca l’idea del liuto rinascimentale e infatti ha una risonanza incredibile. La chitarra barocca soffre di questo suono un po’ «muto» determinato dalla accordatura in Mi. Aggiungo che, come saprai, a differenza degli archi, i liuti non migliorano col tempo; mi spiegano che è proprio la tensione della costruzione a non essere vantaggiosa nel tempo, la bombatura del legno si perde e un liuto anche di trenta o quarant’anni suona meno bene. Infatti, in epoca antica cambiavano la tavola armonica ogni venti o trent’anni. 

Grazie, Rolf, per questo viaggio appassionante tra antico e moderno, estetiche e improvvisazioni. Ti aspettiamo presto in Italia. 

Non vedo l’ora! Grazie a Musica Jazz.

 

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