Oscar Jerome in Italia: intervista a una delle voci del momento

Parla il cantante e autore britannico, cui si devono alcuni dei più rilevanti successi degli ultimi tempi come la notissima «Abusey Junction» scritta per i Kokoroko. Jerome sarà in concerto ai Magazzini Generali di Milano mercoledì 14 maggio alle 21.

- Advertisement -

Ci sono diversi motivi per cui un musicista nato a Norwich, una piccola città della contea di Norfolk, possa sentire l’esigenza di trasferirsi a Londra. E sono tutti più che ovvi. La sua scena musicale incredibilmente ricca e variegata, le sue scuole, la possibilità di interagire con altri artisti, l’opportunità di suonare in club rinomati e di conseguenza acquisire visibilità, la sua enorme esposizione culturale. È successo a Oscar Jerome, che però – per sua stessa ammissione – ha vissuto l’esperienza londinese come una medaglia a due facce: da un lato l’adrenalina di una metropoli che ti permette di trovarti improvvisamente immerso in un ambiente creativo iperstimolante, dall’altro la difficoltà di una vita dai costi altissimi in cui la competizione spietata tra i musicisti, il problema di trovare uno spazio per esprimersi senza dover continuamente pensare alla sopravvivenza economica, ha alimentato una sensazione di isolamento che ha inevitabilmente influenzato la sua dimensione di songwriter. Chi conosce la sua produzione avrà ascoltato canzoni come Gravitate (contenuta nel suo album d’esordio pubblicato nel 2020 e intitolato «Breathe Deep») o Sweet Isolation (da «The Spoon» il suo secondo disco pubblicato nel 2022) in cui si parla proprio di queste emozioni. Oscar Jerome, oltre a scrivere canzoni, suona, dall’età di otto anni, la chitarra, ispirato da Jimi Hendrix e dal rap metal dei Rage Against The Machine. Ma oggi la sua musica è più evoluta grazie anche ai suoi studi completati in una delle scuole più rinomate di tutto il Regno Unito, il Trinity Laban Conservatoire dove ha avuto la possibilità di affinare le sue competenze con il jazz approfondendo l’influenza dei giganti dell’idioma afroamericano. La sua musica oggi risente di queste influenze, pur avendo una riconoscibilità ben precisa che il musicista ha consolidato grazie alle sue collaborazioni con alcuni dei collettivi più up-to-date del momento come Kokoroko (è lui l’autore di Abusey Junction, il loro brano più famoso che, secondo i più, ha totalizzato ben sessanta milioni di ascolti su YouTube) ed Ezra Collective. Alcuni dei membri di questi ultimi hanno collaborato alla realizzazione del suo album di debutto, «Breathe Deep», pubblicato nel 2020 e accolto positivamente dalla critica. Nel 2022 Jerome ha fatto uscire sul mercato «The Spoon» scritto durante un periodo di riflessione a Berlino durante la pandemia e in cui vengono esplorate tematiche personali e sociali, a testimonianza di una crescita artistica ormai riconosciuta che lo ha portato ad incidere un lavoro interamente autoprodotto con il quale è sul mercato dall’inizio di aprile. Si intitola «The Fork» e l’esplorazione di temi al limite con una sorta di auto-analisi (lasciar andare l’ego, connettersi con la natura e con gli altri) qui si accompagna ad un supporto musicale molto accattivante e moderno. «The Fork» contiene undici brani, è stato accompagnato da un cortometraggio che approfondisce le sue tematiche, alla sua realizzazione hanno contribuito artisti che si stanno facendo spazio nel Regno Unito come la poetessa MA.MOYO (Borrowed Other), il rapper Hak Baker (Worth Nothing) e la vocalist Anaiis (Smell The Daisies), ed è uno dei lavori più gradevoli che mi sia capitato di ascoltare nell’ultimo periodo. È il motivo per cui stiamo intervistando il suo autore.

Foto di Amber Chen

Mi racconti qualcosa di te?
Sono un chitarrista, un cantante e un produttore. Amo la natura. Da bambino ho trascorso molto tempo sul mare. Mi piace molto cucinare…

«The Fork» è il primo disco, tra quelli che hai inciso finora, totalmente autoprodotto. Ho ascoltato la tua musica, anche quella contenuta nei tuoi primi due lavori, molto attentamente. È un miscuglio di diverse influenze. Me ne parli? Quali sono le tue principali influenze musicali? Come chitarrista e come compositore…
Dovrei ritenermi un jazzista. Il jazz è un genere di musica che ho studiato e approfondito per molto tempo, ma sento molto anche l’influenza dell’hip hop, dell’r&b. Ho studiato anche per un po’ di tempo la musica africana, soprattutto quella della parte occidentale dell’Africa. Mi piacciono in particolare i chitarristi ovviamente: nel jazz George Benson, John Scofield, come compositori mi piacciono John Martyn, Joni Mitchell, Gil Scott-Heron, Yusef Lateef.

So che sei anche un cantautore. Da questo punto di vista chi ti ha influenzato?
Mi devo ripetere. John Martyn, Gil Scott-Heron, Jeff Buckley. Sono quelli che mi vengono in testa immediatamente. Ce ne sono tanti altri.

Dove vivi?
Nella parte sud di Londra.

Ricordo che Londra era una delle mie città preferite per quel che riguarda la musica. Ma era molto tempo fa, ero molto giovane e ricordo uno straordinario melting pot in cui il rock, insieme al reggae, svolgeva un ruolo molto importante – frequentavo abitualmente il Carnevale di Notting Hill – e molta gente mischiava queste cose tra loro infarcendole di un sacco di altre influenze. Era tutto molto eccitante. È ancora così? Che accade ora?
Sì. È ancora così. Molti generi musicali si mischiano tra loro e la sua scena musicale è ancora molto influente. Londra è un posto in cui arriva gente da tutto il mondo, molti sono musicisti, molti altri sono artisti di altro tipo e le varie forme d’arte si influenzano a vicenda. È inevitabile. Credo che oggi siamo arrivati ad un punto di tale equilibrio e maturità che tutto è bilanciato. La musica che si fa in studio viene riprodotta dal vivo con gli stessi dettagli e la stessa meticolosità, e questo nel jazz si percepisce maggiormente che negli altri generi musicali.

A sentire il tuo disco si percepisce il profumo del jazz, ma c’è anche molto altro. Mi piacerebbe conoscere la tua connessione con l’hip hop (anch’esso presente nel tuo disco) e con altri differenti tipi di musica…
Sono da sempre molto interessato alla musica nelle sue diverse espressioni. Sono cresciuto ascoltando molto hip hop, ma anche il reggae ha avuto un forte impatto su di me. Da ragazzino ascoltavo prevalentemente rock. E in tutto questo ho subito forte l’influenza di mio padre che aveva un gusto musicale variegato, molto eclettico. Il jazz, come ti ho già detto, è stato molto importante per me in termini di approfondimento e di studio, ma se mi guardo dall’esterno devo ammettere che non mi considero un jazzista a tutto tondo, bensì un musicista aperto a diversi tipi di influenze e tra queste il jazz svolge un ruolo di primo piano. Ma non è l’unico.

Foto di Amber Chen

Tra i musicisti con cui hai collaborato, chi ha lasciato una traccia importante dentro di te?
Il lavoro svolto con i Kokoroko è stato molto importante per me. Con loro ho imparato tanto in termini di poliritmia: come sai, nel loro modo di suonare c’è molta Africa, quella occidentale di cui ti parlavo prima. Con loro ho suonato molto dal vivo e quello mi ha insegnato moltissimo a tenere il palco. Poi ho un amico, Maxwell Owen, un incredibile produttore e dj, che oltre ad avermi influenzato mi ha insegnato i trucchetti della sala di registrazione. È un po’ difficile rispondere alla tua domanda, però. Sono davvero tanti quelli che dovrei nominare: Beni Giles, per esempio, che ha collaborato al mixaggio del mio disco, ma anche del precedente, «The Spoon». Con lui ho lavorato moltissimo e lui mi ha dato una grossa mano in termini di stimolo, aiutandomi a prendere fiducia in me stesso per decidere di auto-produrmi il lavoro.

Credi che il jazz al giorno d’oggi svolga un ruolo importante nello sviluppo della musica moderna?
Credo di sì. Il suo status di forma d’arte non verrà mai meno e soprattutto la sua attitudine ad affrontare gli stili più disparati e a mischiarli, a metterli insieme, continuerà a svolgere una influenza molto rilevante nella musica.

Qual è il sogno che ti piacerebbe realizzare?
Ho trentatré anni. Il mio sogno è quello di avere una vita equilibrata e raggiungere un punto in cui il mio modo di suonare mi faccia sentire davvero libero. E anche un bilanciamento tra la mia vita privata e quella professionale. La vita del musicista, soprattutto di quello che va in tournée, è dura e molto difficile. La celebrità e la ricchezza possono anche essere importanti ma non sono la mia priorità.

Nicola Gaeta

- Advertisement -

Iscriviti alla nostra newsletter

Iscriviti subito alla nostra newsletter per ricevere le ultime notizie sul JAZZ internazionale

Autorizzo il trattamento dei miei dati personali (ai sensi dell'art. 7 del GDPR 2016/679 e della normativa nazionale vigente).