Now Music Festival: un habitat musicale creativo

Segnalatosi dopo la fine della pandemia come una delle più interessanti rassegne estive italiane, il Now Music Festival - organizzato da Tobia Bondesan, Michele Bondesan e Giuseppe Sardina - giunge alla sua quinta edizione, festeggiando inoltre il decennale di BlueRing Improvisers, l’associazione che gli fa da contenitore. Abbiamo parlato di questa realtà indipendente, inclusiva e vocata al molteplice, accogliente e profondamente «umana», con Michele Bondesan.

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Link al programma del festival

Michele, come descriveresti il Now Music Festival? Per quanto mi riguarda è il progetto principale di BlueRing-Improvisers (link al sito), quello su cui abbiamo investito e continuiamo a investire più tempo, energie e risorse, anche concrete. È stato un progetto-pilota che, nel tempo, si è consolidato fino a diventare il cuore pulsante delle nostre attività. La piattaforma BlueRing-Improvisers si muove in tanti ambiti: dalla produzione alla programmazione, dalla discografia alla formazione. Diciamo che è una fucina, un collettore di attività artistiche. Non so se chiamarla «didattica» in senso stretto, io preferisco parlare di formazione, intesa come un lavoro continuativo e orizzontale con artisti, musicisti, persone con cui costruiamo progetti. Nel contesto di questo «ecosistema», il Festival rappresenta un momento cardine, perché non è solo un evento, ma un processo, un contenitore ampio che cerchiamo di espandere ogni anno in direzioni diverse.

Quindi credete ancora fortemente all’idea di un festival? La parola oggi ingloba significati molto diversi, dalla fotografia alla filosofia, dalla musica alla letteratura, fino all’economia. È un termine che porta con sé la complessità del presente e che noi proviamo a reinterpretare: per noi il festival è un processo creativo, una piattaforma di sperimentazione e contaminazione tra linguaggi. Nel nostro caso, il focus specifico è sulla musica contemporanea in senso ampio, o meglio sulla Now Music, la «musica di ora». Una definizione volutamente aperta e inclusiva, che tiene conto della pluralità di pratiche, stili, linguaggi e provenienze che caratterizzano il presente musicale. Parliamo di originalità, ricerca, ibridazione, sperimentazione. Parliamo anche di trasversalità, di intersezioni tra discipline: dalla danza al cinema, dalla performance alle arti visive. È un tentativo di tenere il passo con un mondo artistico sempre più inter-mediale, in cui i confini tra i linguaggi sono mobili, permeabili.

Come è strutturato? In concreto, si svolge in cinque giornate consecutive a Sovicille, nelle Terre di Siena, presso la Pieve di Ponte allo Spino, un luogo medievale che ogni anno cerchiamo di riattivare, far rivivere. Non soltanto nei suoi spazi interni (la chiesa, il chiostro), ma anche negli esterni, e progressivamente su tutto il territorio comunale, con cui vogliamo instaurare un rapporto osmotico: con la sua comunità, la sua storia, l’architettura, l’enogastronomia. Non è soltanto una successione di concerti, ma una vera e propria comunità temporanea: un luogo in cui le persone possono stare, vivere insieme, ascoltare, parlare, bere, mangiare. I concerti sono distribuiti lungo la giornata (mattina, sera, tarda notte), ma ci sono anche mostre, proiezioni, installazioni, momenti di confronto, presentazioni, workshop. E tutto questo gratuitamente. Circa trenta eventi in cinque giorni, ad accesso libero.

Quante persone lavorano al progetto? Abbiamo costituito una squadra con varie professionalità. Oltre a me, Tobia, Giuseppe e Marta Viviani, artista che si occupa degli aspetti «visuali», ci sono, principalmente, Tommaso Taurisano, che è il fotografo ufficiale, Damiano Magliozzi, che cura gli aspetti tecnici, Donatella Zalaffi, che si occupa dell’amministrazione e Costanza Rosa, addetta alla comunicazione.

Qual è il vostro orizzonte di riferimento? Fin dall’inizio, BlueRing ha lavorato su una contaminazione tra musica e arti visive – grazie anche alla presenza costante di Marta, curatrice di lungo corso del progetto – e questo si riflette naturalmente nella programmazione del festival. Ogni anno cerchiamo di allargare un po’ di più l’orizzonte: prima la musica, poi la danza contemporanea, poi il cinema e le produzioni video, poi la scrittura, le performance, le mostre e le installazioni sonore. Cerchiamo di essere attenti non solo a ciò che si presenta sul palco, ma anche a ciò che succede intorno: nei momenti informali, nei dialoghi, negli scambi tra artisti e pubblico, nei luoghi. La Pieve, in questo senso, non è solo uno spazio scenografico, ma una presenza viva, che si trasforma durante il festival, diventando a tutti gli effetti un organismo attivo.

Vuoi brevemente ripercorrere la vostra storia? Volentieri, credo che faccia comprendere le scelte artistiche e le direzioni che stiamo prendendo adesso. Il festival è nato da un’esigenza concreta e personale: siamo musicisti, e come tali abbiamo sentito la necessità di creare uno spazio dedicato alla musica creativa, di ricerca, che in Italia fatica ancora a trovare circuiti performativi strutturati e riconosciuti. Il nostro intento iniziale era (e rimane) duplice: da una parte, colmare una lacuna nel panorama culturale e musicale; dall’altra, creare un punto di incontro e di scambio tra artisti, una rete che generi nuove collaborazioni, nuovi progetti, nuove opportunità. Proprio per questo, già dalle prime edizioni, abbiamo cercato di andare oltre la semplice «programmazione», attivando produzioni originali e incontri che favorissero la nascita di nuove formazioni musicali. Alcuni esempi ne sono le produzioni condivise a partire dalla seconda e terza edizione: piccoli laboratori creativi che hanno unito artisti di generazioni e percorsi diversi. Inoltre, uno dei principi fondativi del festival è l’inter-generazionalità: l’equilibrio tra figure già affermate e giovani artisti emergenti. Fin dall’inizio abbiamo dato spazio a nomi di riferimento della scena italiana e internazionale – Giovanni Maier, Roberto Ottaviano, Marco Colonna, Silvia Bolognesi, Roberto Dani, Pasquale Mirra – accanto a nuove voci della scena creativa italiana, come Stefano Grasso, Luca Perciballi e altri artiste e artisti anche completamente sconosciuti al grande pubblico, ma di grande valore. Non è solo una questione di rappresentanza generazionale: è anche un’azione di supporto concreto. In alcuni casi il festival ha avuto un ruolo attivo nella produzione o co-produzione di nuovi progetti, contribuendo alla professionalizzazione e all’inserimento di giovani artisti e artiste in circuiti di maggiore visibilità. La nostra programmazione si basa quindi su una reale esperienza diretta della scena, con un occhio attento a ciò che emerge, si muove, fermenta nei contesti locali e nazionali.

Possiamo dire che siete radicati nel territorio, ma avete uno sguardo aperto? Pur essendo aperti a collaborazioni internazionali, finora abbiamo mantenuto un forte focus sulla scena creativa italiana. Questo non per una scelta nazionalista, ma per una questione di responsabilità culturale: riteniamo che in Italia esista una scena musicale viva, originale, di altissimo livello, che però non trova sempre il giusto riscontro in termini di circuiti performativi. In questo senso, il nostro festival vuole essere anche una forma di ricognizione annuale della musica di ricerca prodotta in Italia: un luogo in cui poter ascoltare ciò che accade, oggi, nel nostro paese. Inoltre, cerchiamo di essere sempre attenti all’impatto sociale: il nostro non è soltanto un festival per addetti ai lavori, ma un evento pensato per essere accessibile. L’esperienza del festival deve essere anche questo: socialità, incontro, comunità. Abbiamo iniziato a introdurre elementi che vadano in questa direzione, dai laboratori alle passeggiate sonore, dalle mostre alle attività diffuse. L’intento è quello di creare un vero e proprio contatto con il territorio, generare impatto, opportunità, dialogo, anche per chi non è parte del mondo della musica contemporanea.

E la musica? Essendo un festival inizialmente musicale, pensato da musicisti, il nostro obiettivo iniziale ha coinciso con l’ambito in cui noi stessi operiamo: l’improvvisazione, con una certa derivazione jazzistica. Quindi si è partiti dal jazz per spingersi verso forme di improvvisazione meno codificate. Col tempo, però, ci siamo resi conto che il concetto di «musica di ora», con cui avevamo provato a definire il nostro approccio, era in realtà molto più ampio. Era una definizione abbastanza flessibile da contenere anche gli sviluppi futuri del nostro lavoro. Questo ci ha permesso di aprirci a esperienze musicali provenienti da altri mondi stilistici: pop, elettronica, rock e così via. Abbiamo capito che ciò che ci interessava davvero non era l’appartenenza a un genere specifico, quanto piuttosto la presenza di una certa attitudine alla ricerca, alla sperimentazione, all’originalità. Questo ha portato naturalmente a includere progetti ibridi, dove si mescolano linguaggi e tecniche diverse. In un contesto come quello attuale, così influenzato dalla globalizzazione, è quasi inevitabile che i confini tra i generi si sfaldino. E infatti, nei nostri programmi, si trovano gruppi che spaziano dal jazz al rock, dal folk alla musica elettronica, passando per minimalismo, improvvisazione e molto altro. Insomma, una proposta sempre più «interstiziale». Parallelamente, abbiamo cominciato a riconoscere e valorizzare, come ti dicevo, anche le relazioni con altre discipline artistiche: mostre d’arte, eventi legati alla danza, proiezioni di film, e così via. Ad esempio, l’anno scorso abbiamo ospitato una mostra fotografica di Tommaso Taurisano, quest’anno esporremo foto di Pietro Bandini; sarà proiettato anche un film realizzato da Christian Pouget, che l’anno scorso ha anche girato un documentario proprio sul festival. Con il tempo, è diventato evidente che la direzione stava cambiando: stava diventando più Now che Music, per così dire. Questo ci ha stimolati a pensare a uno sviluppo futuro, in cui la prospettiva del festival si allarghi, diventando sempre più contemporanea, pur mantenendo la musica – o meglio, la musica dal vivo – come fulcro centrale. Non tanto il suono in senso astratto, quanto la performance musicale come esperienza viva, incarnata, condivisa. Questo è il primo anno in cui iniziamo a concretizzare questa direzione. Stiamo introducendo nel programma alcuni semi di quella che ci piacerebbe diventasse l’identità futura del festival: un insieme di eventi che si muovono ai confini della musica, ma che aprono anche a forme diverse di cultura e socialità. Presentazioni di libri, talk, incontri, workshop, passeggiate sonore – attività che coinvolgono il suono ma che allargano la nostra idea di festival e di arte contemporanea.

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