Una determinazione gentile, ma sempre sicura e diretta all’obiettivo, caratterizza la complessione artistica e il percorso seguito sinora da Max Trabucco, musicista completo e batterista versatile, che a buon diritto iscrive il suo nome in una comunità jazzistica nazionale in fermento e in continua crescita. Operativo anche come leader da quasi dieci anni e con diverse incisioni al suo attivo, con il nuovo disco «Convergence» (Abeat) dimostra di aver raggiunto un punto di notevole maturità, che valorizza appieno il suo eclettismo. Nell’intervista che vi presentiamo, molti argomenti – non solo di carattere personale – vengono puntualmente passati in esame da Trabucco, offrendo l’occasione di ripercorrere la sua carriera, perfettamente inserita nel contesto del nuovo jazz italiano.
Max, a che punto ti trovi nel tuo percorso artistico e umano? Vuoi fare un bilancio?
Nel tirare le somme su ciò che ho fatto, posso dirti che oggi mi trovo in una situazione che si trova di gran lunga al di sopra delle mie aspettative. Sono felice e soddisfatto, sia sul piano lavorativo sia su quello umano. Per me, le due cose coincidono in gran parte, perché la musica, il mio strumento, sono ciò che da quando ho ricordo accompagnano la mia vita. Mi sento di aver appena chiuso una lunga parentesi aperta ormai una decina di anni fa, quando ho pubblicato il mio primo lavoro – sempre per Abeat – «Racconti di una notte». Posso dire di essere più consapevole di ciò che faccio, oggi: soprattutto di essere solo all’inizio di un nuovo e importante capitolo della mia vita. Da pochi mesi sono anche diventato padre e questo avvenimento ha generato un nuovo equilibrio, che mi sta riempiendo le giornate di un’energia diversa, oserei quasi dire più sana e positiva. Cambierei delle cose del mio percorso? Se le dovessi fare oggi, probabilmente le affronterei in maniera totalmente diversa, ma l’averlo fatto così, come le ho fatte, mi ha reso la persona e il musicista che sono oggi, quindi va bene così.
Come sei arrivato a concepire questo album?
Al contrario di altri lavori che ho pubblicato in passato, il disco è nato molto lentamente, cercando di unire i numerosi puntini che in questi ultimi anni hanno costeggiato il mio percorso. Ho scritto il materiale musicale in diversi momenti, ispirandomi a cose diverse; l’idea di base era quella di far intersecare melodie ed improvvisazioni, lavorando più sull’impatto sonoro del gruppo, che sulle composizioni in sé. In quest’ultimo periodo ho imparato che a volte ha molto più effetto un’idea forte e ben definita, magari non scritta su pentagramma, piuttosto che una composizione formata secondo dei canoni stilistici precisi. Lavorando in questa direzione mi sono accorto che non soltanto il mio modo di accompagnare cambiava radicalmente da un momento a un altro, ma che il tutto era reso molto più stimolante ed interessante. Ciò che successivamente ha messo a fuoco quello che poi è diventato «Convergence», è stato l’aver ascoltato – per almeno un centinaio di volte – il disco «Still Dreaming» di Joshua Redman – con Scott Colley, Ron Miles e uno dei miei batteristi preferiti, Brian Blade – che mi è stato davvero di forte ispirazione.
In che modo il concept ha influenzato la scelta dei musicisti? O piuttosto è avvenuto l’inverso?
Quando ho iniziato a lavorare a questo disco, ancora prima di sapere cosa sarebbe effettivamente diventato, ho pensato a un suono di gruppo. Sentivo la necessità di rinnovare il mio modo di comporre e di esprimere ciò che più mi piace con un impasto sonoro diverso dal solito. Ho scoperto la scrittura orizzontale – a più linee melodiche – e alcune soluzioni musicali di forte identità che non comprendevano uno strumento armonico. Una volta messo in chiaro il suono collettivo, ho iniziato a riflettere sulle personalità dei musicisti che mi sarebbe piaciuto coinvolgere. Primo tra tutti il contrabbasso. Ho conosciuto Federica Michisanti a Roma durante un mio concerto alla Casa del Jazz, ho ascoltato i suoi lavori e l’ho sentita suonare dal vivo. Una contrabbassista che già aveva lavorato senza strumento armonico ma anche senza batteria, e che quindi sapeva tenere in mano le redini della situazione. I due fiati sono arrivati un po’ per volta; prima ho fatto alcuni concerti in trio coinvolgendo, oltre che Federica, anche Federico Pierantoni al trombone, il quale si è dimostrato essere non soltanto un ottimo esecutore di temi ma anche un fantastico improvvisatore. Riascoltando alcune registrazioni sentivo però mancare alcune frequenze, ma anche un modo di improvvisare più agile, probabilmente a causa della natura dei due strumenti che avevo già coinvolto. Avevo suonato già una volta con Manuel Caliumi, e avevo un vivido ricordo della sua originalità al sax. La richiesta che gli ho rivolto di tornare a suonare insieme è stata accolta con entusiasmo e ricordo di essere tornato a casa quella notte, dopo averlo fatto, esaltato e con le idee chiarissime. Di lì a poco ho concluso la scrittura dei brani, che l’anno successivo abbiamo portato in studio. L’ho fatto pensando non soltanto al suono e al tipo di strumenti che avevo coinvolto, ma anche alle rispettive personalità dei musicisti che mi avrebbero accompagnato in questa nuova esperienza.

Mi sembra di poter dire che il disco bilanci un certo radicamento nella tradizione, anche dotato di robustezza e vigore, con uno sguardo sulla contemporaneità… Hai tenuto di vista qualche particolare fonte di ispirazione? Quali «metodi» compositivi hai seguito?
In questi ultimi anni mi è capitato di dover affrontare situazioni di diverso tipo. Partendo dalla residenza artistica Orchestra aperta – La Conduzione Chironomica, nel 2020 alla Casa del Jazz, dove ho scoperto un modo di comporre per me tutto nuovo, basato il più delle volte sull’improvvisazione, sono poi entrato a far parte dell’Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti diretta da Paolo Damiani. Ho avuto l’opportunità di suonare musiche originali di diverse derivazioni, accorgendomi delle peculiarità di una formazione così numerosa, arrivando ai due progetti che tutt’ora porto avanti: il trio Naviganti e Sognatori, con Luca Falomi e Alessandro Turchet e quello della violinista Anais Drago, assieme a Federico Calcagno. Le diverse sfaccettature di queste esperienze hanno allargato le mie vedute e credo che abbiano fatto maturare il mio modo di comporre, rendendolo, almeno per me, più fresco e nuovo. In «Convergence» c’è una mia personale rielaborazione della tradizione, dell’improvvisazione libera, ma anche una scrittura ponderata e indirizzata a questo tipo di formazione.
L’ispirazione – e la «visione» che ne consegue – ti derivano anche da fonti extra-musicali o si tratta, soprattutto, di fattori tecnico-musicali?
Entrambe le cose. Solitamente mi faccio influenzare, oltre che dal mio stato d’animo, anche dalla musica che sto ascoltando in quel determinato periodo. A volte mi capita di essere influenzato dall’ascolto di formazioni originali, le quali accendono la mia voglia di ricreare quel particolare tipo di sonorità, stimolandomi a comporre in modo diverso dal mio solito. Per esempio, nel brano Convergence ho cercato di stratificare la composizione su più linee, ispirandomi ad alcuni particolari momenti dei brani di Mark Guiliana, altro mio batterista prediletto. Su Evidology ho sperimentato la sovrapposizione di due standard che hanno fatto parte del mio percorso di studi – Evidence e Anthropology – prendendone dei tratti, rimodellandoli e sovrapponendoli. Ultimo, forse il più nascosto, ma sicuramente uno dei miei preferiti del disco, è Serendipity in cui ho voluto ispirarmi ad una delle frasi più celebri di Max Roach – contenuta nel brano For Big Sid del disco «Drums Unlimited», trasformandola in un tema a due voci. Comporre per questo quartetto è stato un po’ come giocare con dei mattoncini, provando a incastrarli, sovrapporli e separarli.
Credi nella musica come rappresentazione e veicolo di narrazione, o piuttosto pensi che debba mantenersi circoscritta ad aspetti di autosufficienza?
Sicuramente l’aspetto narrativo della musica è un aspetto fondamentale. Quando una musica raggiunge l’orecchio dell’ascoltatore può suscitare in lui ricordi, sensazioni ed emozioni collegate a quel particolare tipo di composizione. La cosa che da sempre mi affascina di questo aspetto è proprio la percezione completamente soggettiva. Al mio orecchio un brano può suscitare un ricordo, o un’emozione di un qualche tipo, mentre lo stesso brano alle orecchie di un’altra persona può scatenare una reazione diametralmente opposta. Di sicuro però il coinvolgimento emotivo, seppur soggettivo, è quasi del tutto inevitabile.
Naturalmente, in tutto questo, il raggiungimento dell’obiettivo si rende possibile nel lavoro con i tuoi compagni di viaggio… Come si sono stabiliti gli equilibri tra voi?
Il tutto si è sviluppato in maniera molto naturale, partendo dal coinvolgimento di Federica, con la quale ho avuto modo di lavorare anche in altri progetti, potendo quindi conoscere la sua forte personalità. Federico e Manuel sono due musicisti di una grande maturità, i quali sanno modellare il loro modo di suonare in base alla situazione. Uno dei loro pregi è quello di essere al servizio della musica, e questo ci ha permesso di far fluire i brani senza eccessivo sforzo. Sicuramente durante le prove ho esposto le mie idee su come avrei voluto sviluppare la musica scritta, ma non ho mai avuto dubbi sul fatto che le loro personalità non avrebbero potuto far altro che migliorarne il risultato finale.

Che leader pensi di essere? Vorresti cambiare qualcosa in questo?
A dir la verità non mi sono mai sentito un vero e proprio leader. Quello che faccio è semplicemente coinvolgere dei musicisti per realizzare dei progetti che nella mia testa potrebbero farmi divertire. Una volta organizzati i primi incontri, lascio che la cosa faccia il suo corso naturale. Quando però vedo che dall’altro lato non c’è interesse o coinvolgimento, lascio perdere. Per me è importante che all’interno del gruppo ci sia qualcuno che tenga le redini della situazione, ma è altrettanto importante che ognuno partecipi, oltre che con il proprio talento musicale, anche con il coinvolgimento umano. Mi piacerebbe avere in un futuro le possibilità di far girare di più miei gruppi, probabilmente dovrei migliorare il mio modo di promuoverli, è un aspetto sul quale sto lavorando. Al momento però, dando un veloce sguardo a quello che ho costruito negli anni da «leader» – e ci metto volutamente le virgolette – posso dire di essere pienamente soddisfatto.
Come ti sembra la nuova scena musicale italiana? Stanno cambiando le cose? Condividi il punto di vista secondo cui si sta affermando una nuova coesione, un nuovo senso di comunità, tra i musicisti?
Mi sembra di vedere che la scena musicale italiana sia in pieno fermento. Ci sono molte realtà sparpagliate per la penisola che nascono in continuazione. Il problema principale secondo me, sono le possibilità di sviluppo. Tanta offerta, ma pochi spazi per poterla sostenere. I musicisti – probabilmente anche dopo la pandemia – hanno capito che insieme avrebbero potuto ottenere qualcosa in più e che il nostro, oltre ad essere una forte passione è anche un lavoro. Sono nate molte realtà associative – come per esempio MIDJ – che creano coesione, comunità ma anche chiarezza sui lati più complicati del lavoro del musicista. Quando ho iniziato il mio percorso, questo tipo di associazioni ancora non esistevano, ora vedo che sono un grosso aiuto per le giovani leve. Ho notato inoltre che i musicisti più giovani, sono molto più attenti alla collettività che all’individualità e questo è davvero ammirabile. Sono convinto che di questo passo i musicisti di jazz – ma non solo – otterranno grandi risultati.
Cosa si dovrebbe fare per evitare la dispersione del talento giovanile che fiorisce? E anche per ricreare un equilibrio inter-generazionale?
Probabilmente bisognerebbe oltre ad aumentare il livello di preparazione nei conservatori, anche offrire molte più opportunità di crescita e sviluppo per i giovani. Molto lentamente vedo dei miglioramenti, ma in confronto ad altri Paesi europei siamo in netto svantaggio. La dispersione dei talenti italiani all’estero purtroppo non riguarda solo la musica, ma anche moltissimi altri ambiti e per questo bisogna al più presto trovare un rimedio.
Per quel che riguarda l’equilibrio inter-generazionale sono contento di vedere che i grandi musicisti che hanno contribuito allo sviluppo della storia del jazz italiano, si stiano sempre più spesso affiancando a giovani talenti – vedi ad esempio The Fearless Five di Enrico Rava. Questo consente un «passaggio di consegne» diretto, il quale crea continuità e dimostrazione di unità. Ovviamente alcuni bandi indetti per il reclutamento di musicisti spesso sono divisi per età, ma se così non fosse i giovanissimi si ritroverebbero a concorrere con veterani di esperienza e quindi probabilmente esclusi.

Cosa pensi delle attuali forme di produzione (bandi, Centri di produzione)? Aiutano i giovani musicisti o no? Cosa cambieresti?
Il mondo dei bandi è come un vortice in continua evoluzione. Queste nuove realtà permettono ai musicisti di poter promuovere il proprio talento in vari ambiti, ed è proprio grazie a essi che in prima persona ho potuto vivere delle bellissime esperienze. La residenza Vette e Dopo nel 2019, oltre Orchestra aperta e Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti, di cui ho già detto, sono esperienze che ho potuto fare tramite bandi nazionali. Questo mi ha permesso di confrontarmi con musicisti di altissimo livello e di conoscere miei coetanei di forte talento. Se non fosse stato per queste belle opportunità, probabilmente non avrei conosciuto i musicisti con i quali ho realizzato «Convergence», o non avrei incontrato Anais Drago, con la quale collaboro ormai da qualche anno.
Certo è che il lavoro di ricerca e di compilazione di questi bandi toglie parecchio tempo; il risultato che a volte si può ottenere però, ripaga degli sforzi impiegati. I centri di produzione sono un’altra realtà importante. Con il trio di Anais – Relevé – siamo sostenuti dal centro di produzione piemontese We Start, il quale ci ha permesso di affrontare una residenza di una settimana di preparazione del repertorio, oltre che di suonare in alcuni tra i più importanti festival italiani. Come dico spesso, unire esperienze, mezzi e conoscenze è l’unico modo per ottenere degli ottimi risultati e i centri di produzione fanno esattamente questo. Mettendo a disposizione la loro esperienza organizzativa, oltre alla rete di conoscenze per la promozione sul campo dei gruppi prodotti, sono di grande aiuto per noi musicisti. Siamo solo all’inizio, sicuramente ci sono delle cose da migliorare, ma mi sento di dire che ci troviamo sulla buona strada.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Al momento, come già accennato, ho all’attivo diversi progetti: Il trio Naviganti e Sognatori in co-leadership con Luca Falomi e Alessandro Turchet, con i quali ho già pubblicato due dischi. Il progetto di Anais Drago, con il quale stiamo costruendo un fitto calendario di concerti di presentazione del disco «Relevè Live». Con loro, oltre a essere stati selezionati per l’European Jazz Conference che quest’anno si è tenuta a Bari, abbiamo in programma un concerto in collaborazione con l’Istituto italiano di cultura del Cairo. Il mio quartetto Convergence, invece, sarà ospite a novembre della trasmissione RAI «Piazza Verdi», mentre da marzo terremo una serie di concerti di presentazione. Una cosa che mi piacerebbe fare in futuro sarebbe, oltre che continuare con la mia attività concertistica e di ricerca musicale, anche quella di sviluppare, come docente, l’aspetto didattico della batteria nel jazz. Ho pubblicato diversi metodi sullo studio dello strumento, e non ti nascondo il desiderio di poter approfondire anche questo lato.