Joe Lovano: la direzione artistica di Bergamo Jazz e il nuovo «Hommage»

Sta diventando una piacevole abitudine, quella di intervistare il grande sassofonista nel mese di marzo: anche stavolta in occasione del suo incarico come direttore artistico di Bergamo Jazz, ma non solo: c’è un nuovo disco ECM 

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A distanza di un anno dall’ultima volta, torniamo a intervistare il sassofonista di Cleveland. Questa volta abbiamo parlato della sua esperienza come direttore artistico del Bergamo Jazz Festival e dell’imminente nuova uscita discografica per ECM. Ecco com’è andata.

Ciao Joe, come stai? Grazie per averci concesso questa intervista.

Sono molto contento che siamo riusciti a metterci in contatto. Ho appena concluso una maratona di due settimane al Village Vanguard e sono molto soddisfatto. La prima settimana ho suonato con il mio Tapestry Trio con Marilyn Crispell e Carmen Castaldi, mentre questa settimana ho suonato con Jakob Bro, in un gruppo in cui suonano tre contrabbassisti (Larry Grenadier, Thomas Morgan e Anders Christensen) e due batteristi (Jorge Rossy e Eric Harland). Ci siamo divertiti molto, ho visto molta gente e la musica era molto ispirata. Era il novantesimo anniversario del Village Vanguard. La stessa famiglia gestisce il club dal 1935: una benedizione per tutti noi.

Volevo iniziare parlando della tua esperienza come direttore artistico del Bergamo Jazz Festival, carica che quest’anno ricopri per la seconda volta consecutiva. Ti era mai capitato in passato di affrontare questo ruolo?

Sì, era già successo per un festival organizzato vicino a New York, il Caramoor Jazz Festival. Ho iniziato nel 2004 e lo ho fatto per ei anni. È stato fantastico avere tre giorni d’estate per organizzare concerti ma anche per suonare. Ho partecipato io stesso con alcuni miei gruppi. Ho portato il Saxophone Summit (con Greg Osby e Dave Liebman), il progetto per orchestra «Celebrating Sinatra» e ho fatto un’ospitata nel gruppo di Kenny Garrett. È stato veramente bello. Ho potuto presentare McCoy Tyner e il suo gruppo Latin jazz dell’epoca. Abbiamo festeggiato anche gli 85 anni di Hank Jones che aveva suonato in alcuni miei dischi come «Joyous Encounter». Ero così orgoglioso di presentarlo assieme a Frank Wess in quell’occasione. È stata una bellissima esperienza. 

Ma ho avuto un incarico simile un paio di volte anche alla Knitting Factory di New York. Ogni tanto riuscivano a mettere in piedi un piccolo festival di due o tre giorni in cui presentare musica, e ricordo che portai il trio di Paul Motian. Ma sono stato chiamato anche dal San Francisco Jazz Festival per allestire delle serate in cui suonavano tre o quattro gruppi scelti da me. Insomma posso dire di aver fatto esperienza anche in questo ruolo. Bergamo però è speciale perché ha un festival dal respiro internazionale, uno dei migliori di tutta Europa e con una grande storia. Sono orgoglioso di farne parte. 

Pensi quindi che la scelta di affidare la direzione artistica a musicisti affermati come te, Enrico Rava o Dave Douglas possa essere la formula vincente?

Penso che sia qualcosa di davvero particolare. Hai l’opportunità di condividere le tue idee da artista che solca i maggiori palchi e festival internazionali. E solitamente puoi proporre cose più creative rispetto a programmazioni «più commerciali». Lavorare con Roberto Valentino e con tutto lo staff di Bergamo Jazz è stato ed è fantastico come lo sono le sedi dei concerti, l’una più bella dell’altra. 

Come hai scelto i gruppi da inserire nella programmazione? Ho notato che il programma è molto eterogeneo e offre al pubblico un’ampia scelta svariando fra più sottogeneri.

Sai, quando lavori con un’amministrazione fai le tue proposte ed esponi le tue idee. Alcuni concerti sono spettacoli che erano stati programmati in passato ma che alla fine non si sono potuti fare. Le tempistiche sono fondamentali. Bisogna capire quali gruppi sono in tour, e a fine marzo non ce ne sono molti disponibili. Perciò devi lavorare con agenti e manager, anche se molto spesso ci sono gruppi o musicisti che vorresti avere ma che non possono essere ingaggiati. Lavorare con Roberto è molto importante perché conosce molte persone e conosce la storia del festival. Ci sono ensemble che fanno il loro debutto quest’anno, come il supergruppo di Danilo Pérez con ospite speciale Ravi Coltrane. Sono davvero felice che Enrico Rava sia stato disponibile a suonare con il suo nuovo quintetto, ma anche la presenza dei Cookers mi inorgoglisce. Loro non erano in tour ma ci tenevo molto ad averli. La maggior parte dei gruppi che propongo è composta da musicisti che conosco personalmente e coi quali ho suonato in passato. Come per esempio è successo l’anno scorso con la band di John Scofield e quella di Bobby Watson. 

Il tema del festival di quest’anno è Sounds of Joy, l’amore e la passione nei suoni della musica e nei suoni delle persone, voglio che sia di ispirazione. Volevo mettere giù un programma con la convinzione che il pubblico potesse venire a sentire tutto. Questo è un punto importante per me. Avere Dianne Reeves è bellissimo e speciale. Abbiamo suonato molto in trio con Chucho Valdés ma quello che fa lei con la sua band è fantastico! Inoltre ci sarà Lizz Wright, che considero un’erede della legacy musicale creata da Dianne. Liz è molto contenta di dividere il cartellone con uno dei suoi maggiori riferimenti musicali. E sono sicuro che Dianne apprezza la musica di Lizz. Penso che creare questo tipo di atmosfera sia importante.

Verrai a Bergamo come l’anno scorso, anche se il tuo nome non compare fra gli artisti che si esibiranno?

Certo che sì, verrò a salutare tutti e vedere i miei amici. Magari suonerò come ospite in qualche gruppo qua e là, vedremo come andranno le cose. 

Mi ricordo di te fuori dal teatro dove si era esibito Dave Burrell in solo.

Certo! Avevo voluto fortemente quel concerto, così come quello di Abdullah Ibrahim. 

Vorresti aggiungere altro sul festival?

Posso solo dire di essere già fiero di come andrà. Sto pregustando la bella energia e la gioia della musica.

Sarai direttore artistico anche l’anno prossimo?

Devi fare questa domanda a Roberto, ma sembra che ci siano tutte le intenzioni di continuare assieme. Non abbiamo un accordo pluriennale ma ogni anno si decide per quello successivo. Ho buone sensazioni per la prossima edizione, sto già pensando a qualcosa. L’anno prossimo ricorrerà il centesimo anniversario della nascita di Miles Davis e John Coltrane, ho già delle idee in testa per celebrare al meglio queste ricorrenze. Penso che sarà un tema che farà il giro del mondo.

Credo che anche la Impulse! abbia in programma qualche pubblicazione ad hoc.

Sì, dai nastri di Frank Tiberi, che è stato mio collega nella big band di Woody Herman. Per il centenario credo proprio che qualcosa sarà pubblicato.

Ora passiamo a parlare del tuo nuovo disco «Homage» che uscirà ad aprile per ECM.

Sono felicissimo di poter lavorare con ECM. In questo disco presento il mio quartetto featuring il Marcin Wasilewski Trio, una formazione fantastica che suonava spesso con Tomasz Stańko. Abbiamo suonato spesso assieme e documentato questa collaborazione su disco per la prima volta nel 2019 con «Arctic Riff». Abbiamo fatto alcuni tour in Europa e poi li ho fatti venire a New York per suonare una settimana al Village Vanguard, circa un anno fa. Durante quei giorni decisi di prenotare lo studio Van Gelder per incidere la musica del quartetto, non volevo che fosse una registrazione dal vivo. Così il sabato pomeriggio ci siamo diretti lì dopo aver suonato fino a notte tarda di venerdì e abbiamo messo insieme il disco. Successivamente Manfred ha ricevuto i brani e li ha mixati e masterizzati in Europa. È una raccolta di brani scritti da me, alcuni nuovi e altri che suonavamo già, più alcuni momenti di solo sassofono, ma suono anche gong, percussioni e tárogató in questo disco. L’unico brano che non ho firmato io è Love in the Garden di Zbigniew Seifert, una scelta di Marcin che ho apprezzato molto. La title track Homage è una composizione che ho pensato specificamente per essere suonata ad Amburgo all’Elbphilarmonie in occasione di una celebrazione di Manfred Eicher e dell’ECM avvenuta lo scorso anno. 

Quindi Homage è dedicato espressamente a Manfred?

Sì, a Manfred Eicher, all’ECM e alla musica prodotta da questa etichetta, alla bellezza senza tempo dei dischi pubblicati negli anni. Sono orgoglioso di far parte di questa storia, di suonare la mia musica e sperimentare nuove soluzioni espressive con compagni di viaggio fantastici. Questo è un quartetto davvero speciale per me. Ho incontrato i ragazzi in Europa nel 2009 o giù di lì, dieci anni prima del nostro primo disco, grazie a Tomasz Stańko. Negli anni il gruppo si consolidato ed evoluto. Nel primo disco praticamente ero un ospite del trio di Marcin e suonavamo principalmente sue composizioni, mentre per quello che uscirà ho composto un repertorio specifico. Abbiamo creato una bella interazione e a luglio saremo in tour in Europa nei festival più importanti, fra cui Roma. Insomma abbiamo un po’ di cose in ballo e sono sicuro che collaboreremo ancora. 

Stai lavorando ad altri progetti?

Ho appena finito di registrare con il mio Paramount Quartet assieme a Julian Lage, Santi Debriano e Will Calhoun. Eravamo nel sud della Francia presso gli studi La Buissonne e Manfred ha presenziato alla seduta di registrazione. Una volta concluso il nostro tour con undici date europee, ci siamo trovati per registrare. Penso che uscirà tra un anno, all’incirca. 

Più o meno mi hai già risposto, ma vorrei chiederti nello specifico quanto sia importante lavorare per un’etichetta come ECM, che mette al primo posto la qualità sonora delle proprie produzioni, mentre altre etichette sembrano più orientate al marketing o alla ricerca dell’ospite «giusto» per ottenere un ritorno commerciale. 

Non è solo un fatto di qualità del suono, ma intendo il tuo suono di musicista, il tuo modo di suonare. Manfred cerca sempre di far emergere il tuo suono. Ha il suo approccio a mixing, mastering e post-produzione e in questo è un maestro assoluto, un genio. Ma il vero suono, per me, è quello della musica quando i musicisti la fanno. Manfred lo sa e cerca di catturare questo aspetto. Se ascolti «Conference of the Birds» di Dave Holland, puoi notare un certo tipo di suono ripreso dalla registrazione, ma alla fine è come suona la musica a contare. La mia esperienza con Manfred è iniziata nel 1981 per il disco «Psalm» del Paul Motian Group. Io e Bill Frisell abbiamo suonato da quel momento in avanti con Paul per trent’anni, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2011, e abbiamo inciso diversi dischi in trio. Il suono che puoi sentire è dovuto alle indubbie qualità tecniche di Manfred ma la sua dote fondamentale è quella di catturare ciò che noi musicisti possiamo offrire. Anche per quest’ultimo disco con Marcin non era presente alla seduta di registrazione ma ha lavorato i files musicali per renderli adatti a una pubblicazione ECM. Ha preso la nostra musica e l’ha resa viva alla sua maniera. Alla Buissonne invece era in studio e potevi avvertire la sua presenza: è ben più di un produttore, è parte stessa della musica. Ha molte idee su come costruire la sequenza dei brani, è fantastico quando ci può essere anche lui. Quando ho registrato a New York il nuovo disco ho immaginato un repertorio musicale che sapevo sarebbe potuto piacere a Manfred. Ho adottato un approccio specifico per registrare un disco ECM e questo ha stimolato le mie idee. ECM del resto è salita alla ribalta quando avevo circa vent’anni, e io ho consumato i dischi di Jan Garbarek, Chick Corea, Gary Burton, per esempio «Crystal Silence» o  anche «Facing You» di Keith Jarrett.

Nella mia carriera ho registrato più di venti album per Blue Note dal 1991 al 2015, ma dal punto di vista musicale non avrebbero mai potuto essere dischi ECM. Sono molto orgoglioso di aver inciso per Blue Note: lavorare con Bruce Lundvall è stato incredibile, è uno dei produttori esecutivi più importanti della storia, un po’ come Manfred. 

Ci sono un sacco di fattori decisivi quando si parla di suono, e tutto questo io lo ho imparato con gli anni. 

Joe Lovano

Ti è mai successo che Manfred bocciasse un tuo brano o qualche tua idea musicale?

No, perché non gli ho mai instillato il seme del dubbio. La direzione che ho dato alla mia musica è tutta basata sull’improvvisazione creativa, cerchiamo di stimolarci a vicenda con le nostre emozioni e suonare con espressività. Ciò che potrebbe non piacere a Manfred è qualcosa suonato senza espressività, soltanto note, gente che suona nello stesso momento ma non suona davvero assieme. Io non appartengo a questa categoria, anche se ho sentito suonare molti gruppi così: suonano contemporaneamente ma non succede nulla. Non ho mai avuto problemi con Manfred per via del modo in cui suonavamo, né quando facevo parte del trio di Paul Motian né quando ero leader di miei gruppi. 

Rimasi spiazzato durante una seduta che feci con Steve Kuhn per un disco ECM dal titolo «Mostly Coltrane», con David Finck e Joey Baron. Steve aveva suonato con Trane nel 1960 e Manfred lo ha sempre stimato molto come pianista. Per l’occasione venne a New York per assistere alla seduta di registrazione che prevedeva esclusivamente brani di Coltrane e fu molto stimolante affrontare quel repertorio cercando un nuovo suono, diverso dell’originale. Per me quella fu una seduta davvero sorprendente e Manfred la apprezzò molto. Aveva avuto la fortuna di sentire Coltrane dal vivo, ne abbiamo parlato più volte. Tutto ciò che ha ascoltato prima di fondare l’ECM nel 1969 è stato fondamentale per lo sviluppo estetico dell’etichetta: Coltrane, Miles Davis, Bill Evans, Paul Motian… Manfred ha delle radici profonde e credo di poter dire di averle anch’io. Questo condiziona la tua musica e il modo in cui suoni con gli altri. I dischi di Don Cherry, Ed Blackwell, gli Old and New Dreams, Codona furono una fonte di ispirazione allora e lo sono tuttora. Ma anche i lavori di Charles Lloyd sono bellissimi, senza dimenticare Kenny Wheeler e Tomasz Stańko.

Insomma è un onore ed un privilegio far parte di questa legacy. 

Certamente, è proprio da qui che nasce l’idea per il brano eponimo Homage, riguarda esattamente tutta questa storia.

Cosa riserva il futuro a Joe Lovano? Ci hai già accennato alcune prossime uscite nella nostra chiacchierata.

Continuerò il tour mondiale del mio nuovo gruppo, il Paramount Quartet. Siamo appena stati in Europa, mentre tra marzo ed aprile ci attendono quattordici concerti negli States e una settimana al Vanguard prevista per agosto. Ho alcune date anche con il mio Trio Tapestry, col quale abbiamo inciso tre dischi per ECM, una musica molto espressiva, a mio modo di vedere. Inoltre abbiamo in programma con Jakob Bro di continuare a collaborare nel nostro ensemble. Per il centenario della nascita di Coltrane ho in mente un repertorio di sue composizioni che mi piacerebbe presentare.

Mi ricordo del tuo concerto ad Orvieto con Chris Potter, Lawrence Fields, Cecil McBee e Johnathan Blake per il cinquantesimo anniversario di «A Love Supreme»: sarà ancora con la stessa formazione?

Oh! Quello sì che fu divertente! Chissà? Forse potremmo ridare vita a quella formazione. Suono spesso con Chris, di recente ci siamo ritrovati per una serie di concerti con Antonio Sánchez, Larry Grenadier e Joey Calderazzo: un bellissimo gruppo. In fin dei conti devo dire che vivere nel mondo del jazz e della musica è una benedizione, ci sono molte opportunità di poter presentare le proprie idee. Al momento sono concentrato sui gruppi che ti ho citato, ma ognuno fa storia a sé e ha il proprio specifico repertorio. 

Vorresti aggiungere altro?

Vorrei citare il mio gruppo con Dave Douglas, col quale abbiamo registrato «Sound Prints», dedicato a Wayne Shorter. La band si è formata nel 2012 e ha fatto molti tour. Stiamo preparando un nuovo repertorio, perciò credo che si farà qualcosa anche con questo gruppo. Insomma, contando questo e il quartetto con Marcin posso dire di avere cinque progetti attivi, tutti diversi e con le proprie peculiarità. È questo ciò che amo del jazz: creare «un suono», proprio quello di cui si parlava prima. Mi ritengo un uomo molto fortunato.

Grazie mille, Joe, per averci concesso quest’intervista.

Grazie a voi per il sostegno. Da quando ho scoperto Musica Jazz, è sempre stata molto stimolante. Negli anni si è affermata come una delle migliori riviste musicali. E non parlo degli articoli che negli anni mi avete dedicato, ma da fan della rivista ogni volta che mi capitava di suonare in tour in Italia mi procuravo una copia da riportarmi a casa. La prima volta che venni in Italia fu nel 1977 con la big band di Woody Herman per un concerto a Torino. Da allora non ho mai smesso di prenderla e anche i cd sono fantastici. Ha uno sguardo sul presente ma sempre proiettato al futuro. Se questa intervista verrà pubblicata in tempo, ricordati di portarmene una copia a Bergamo!

 

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