Jack DeJohnette, 1942-2025

Un ricordo «trasversale» del grande batterista appena scomparso, autentico figlio di un'epoca – i tardi anni Sessanta – in cui il jazz si lasciava rimescolare da tante altre musiche

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Appena qualche mese fa, sulla sua pagina Facebook, Jack DeJohnette ricordava come uno dei momenti determinanti della sua crescita musicale fosse stato l’ascolto dal vivo, nel 1969, di Sly & the Family Stone («Sly is an innovator who influenced so many artists like Miles, myself, Prince, Herbie Hancock… just to name a few of the musicians he touched so deeply. Sly changed the sound and shape of new music!!!»).

DeJohnette è stato sì uno dei grandi maestri della batteria jazz, ma spesso le sue imprese strettamente jazzistiche finiscono per far dimenticare che anche lui, come tanti colleghi della sua generazione (era nato nel 1942, tre anni prima di Tony Williams cui lo legano non poche analogie) ha vissuto in diretta, e in prima persona, i mutamenti tellurici della scena musicale di metà-fine anni Sessanta. Per questo ha potuto rivelarsi uno degli elementi chiave del cambio di prospettiva di Miles Davis, come ampiamente dimostrano le sue partecipazioni a «Bitches Brew» e ai successivi gruppi del trombettista, che culmineranno nella leggendaria band del 1970, quella con Gary Bartz e Keith Jarrett.

Per meglio entrare nel variegato mondo musicale di DeJohnette è necessario quindi mettere da parte i compartimenti stagni tanto cari agli appassionati del «vero jazz» e rendersi conto che il batterista (nonché pianista, percussionista, vibrafonista, cantante, compositore e tante altre cose) è figlio di un’epoca che aveva mischiato le carte a colpi di free jazz, di rock, di r&b, dando ai musicisti più aperti e avventurosi la possibilità di attingere agli elementi più disparati anche se apparentemente incongrui. Per intendersi, DeJohnette discende da Miles Davis tanto quanto da Jimi Hendrix e dall’appena citato Sly Stone, ed è assai velleitario e limitante cercare, nella sua musica, la prevalenza di questa o quella figura rispetto alle altre.

Questo, assai più che nelle sue pur prestigiose collaborazioni in gruppi altrui – da John Coltrane a Charles Lloyd, da Miles Davis a Keith Jarrett, per non citare decine e decine di altri – si può notare benissimo nell’attività da leader di DeJohnette, che è stata assai intensa e ha prodotto una buona trentina di dischi a suo nome, tutti contrassegnati da un eclettismo mai di maniera (e che purtroppo spesso è stato travisato dalla critica) bensì sinceramente radicato in un imprinting mai vissuto come un peso e invece coltivato come un dono.

Ecco perché ci fa piacere ricordare la figura di Jack DeJohnette con un brano assolutamente insolito ma coerente con quanto abbiamo detto fin qui, inciso nel 1982 per ECM su uno dei suoi album più trascurati e cui dà il titolo («Inflation Blues»), che recupera e aggiorna la versione originale del 1971 apparsa sul disco «Compost» della Columbia. «Compost» non era solo il titolo dell’album ma anche il nome della band, che ebbe breve vita discografica con due sole incisioni e che comprendeva Bob Moses alla batteria, Harold Vick ai sassofoni, Jack Gregg al basso e Jumma Santos (ovvero Jim Riley) alle percussioni. Santos/Riley, tra l’altro, era a sua volta «alunno» delle sedute di «Bitches Brew». La cosa singolare è che nel primo album dei Compost DeJohnette non suonava la batteria bensì il vibrafono, il prediletto clavinet e, soprattutto, cantava. Inflation Blues è per l’appunto da lui cantata e, nella prima versione, nasce come un brano rock-blues con forti influenze soul.

Una decina d’anni dopo, invece, la sentiamo completamente trasformata in un pezzo reggae-dub nel quale Rufus Reid e DeJohnette giocano a fare gli Sly & Robbie della situazione, il batterista canta e sovraincide la parte di clavinet mentre Baikida Carroll, John Purcell e Chico Freeman si occupano della sezione fiati. Non era questa la prima volta in cui DeJohnette si cimentava con i ritmi giamaicani: lo aveva già fatto qualche anno prima con la veramente bizzarra (fin dal titolo) Malibu Reggae sul disco «Untitled», sempre ECM, con Alex Foster, Warren Bernhardt, John Abercrombie e Mike Richmond. Lì il risultato era stato un po’ grottesco, una sorta di lounge music volutamente traballante e non molto dissimile dagli analoghi esperimenti di Carla Bley e Steve Swallow di metà anni Ottanta («Heavy Heart», «Night-Glo» e «Sextet») tra satira e night-club. Qui, invece, DeJohnette fa sul serio e ci lascia capire come, per lui, la black music sia sempre stata un corpo unico, da qualunque parte avesse origine.

Ed è forse per questo che la foto di copertina (i musicisti che suonano su un marciapiede e accettano l’elemosina da una passante) è una voluta citazione da quella di un famoso disco del 1971 dei Crusaders (diventati tali proprio in quell’occasione: fino ad allora si erano chiamati Jazz Crusaders), «Pass the Plate». L’unica differenza è che la passante del disco di DeJohnette elargisce, seppur di corsa, il suo obolo; l’arcigna vecchiarda del disco dei Crusaders non ha intenzione di mollare neanche un centesimo.

Luca Conti

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