Isaiah Collier Parallel Universe apre il Firenze Jazz Festival

Il facile richiamo della Black Music

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Firenze, Anfiteatro di Villa Strozzi

2 settembre

Evento di apertura della quinta edizione del Firenze Jazz Festival, l’acclamatissimo concerto di Isaiah Collier, alla guida del gruppo Parallel Universe, impone delle necessarie riflessioni sullo stato dell’arte. Musicista in rapida ascesa, il ventottenne sassofonista e compositore di Chicago si propone come degno erede di una linea genealogica di tenoristi che comprende idealmente Sonny Rollins, John Coltrane, Archie Shepp, Albert Ayler e David Murray. Un ruolo comprovato dalla sua attività in seno al quartetto The Chosen Few, recentemente documentata dall’incendiario disco-manifesto «The World Is On Fire», che rinverdisce i fasti del jazz afroamericano degli anni Sessanta con esiti efficaci.

Isaiah Collier e Fly Guy Bird – Foto di Alessandro Botticelli

Invece, con Parallel Universe – nome tratto dal disco eponimo – Collier parte da un presupposto totalmente diverso: tentare di esplorare altre aree del patrimonio afroamericano. Impresa tutt’altro che facile, nonostante la consonanza con la propria eredità culturale. Parallel Universe è un ensemble composito formato da Corey Wilkes (tromba, percussioni e voce), Jimetta Rose (voce), Sonny Daze (percussioni e voce), Fly Guy Bird (chitarra), Richard Gibbs (tastiere), Conway Campbell (contrabbasso e basso elettrico), Warren Trae Crudup (batteria). Per parte sua, Collier affianca al tenore il flauto traverso, il piano elettrico Fender Rhodes, un MiniMoog e percussioni varie, ritagliandosi anche degli spazi per alcuni interventi vocali.

Per chi scrive la riprova dal vivo conferma e rafforza le perplessità emerse dall’ascolto del disco. Collier sembra essere rimasto (felicemente) invischiato in una trappola in cui sono recentemente caduti altri esponenti della nuova generazione di jazzisti afroamericani. Ovvero, la tendenza ad attingere ad altre espressioni della musica nera con poco criterio e senza il necessario acume critico. In altre parole, un conto è inglobare certi elementi nella propria poetica, come aveva fatto trent’anni fa Steve Coleman con Metrics, inserendo il rap nel proprio complesso sistema poliritmico. Un altro è riprenderli pari pari e scimmiottarli, come purtroppo avviene nel caso di Parallel Universe.

Isaiah Collier e Jimetta Rose -Foto di Alessandro Botticelli

Nel materiale proposto, esclusivamente basato su composizioni di Collier, abbondano i richiami al soul degli anni Sessanta e al funk dei Settanta. Nel primo caso, affiorano richiami a Sly & The Family Stone, Marvin Gaye, The O’Jays e Isaac Hayes (con tanto di chitarra ritmica con wah wah, sulla scia della colonna sonora di Shaft). I pur discutibili tentativi di commistione fatti da Archie Shepp nei primi anni Settanta con album come «Things Have Got To Change» e «Attica Blues» si collocano parecchie spanne al di sopra. Non mancano poi riferimenti agli aspetti più commerciali della musica popolare nera, come in Open The Door, sdolcinato duetto vocale tra Collier e Jimetta Rose, che in altri frangenti risulta essere un pallido epigono di Chaka Khan. Quanto alle influenze del funk, nel groove monotono e a tratti davvero pesante si colgono echi di Ohio Players e Funkadelic, ma anche di Gil Scott-Heron per il contenuto sociale di certi testi, specialmente riscontrabile nella spoken word di Sonny Daze. In questo contesto Collier limita l’impiego del sax tenore ad alcuni sanguigni assolo in stile rhythm’n’blues, per dedicarsi prevalentemente al Fender Rhodes.

Isaiah Collier e Sonny Daze – Foto di Alessandro Botticelli

Al di fuori di questo ambito si segnalano alcune digressioni in stile afrocaraibico, solcate da un flauto leggiadro e guizzante; effetti prodotti dal MiniMoog che inseguono vanamente l’universo di Sun Ra in Eggun; echi africani ancestrali in Village Song, tramite l’impiego di m’bira e djembé, e con l’ausilio di versi in un idioma dell’Africa subsahariana, probabilmente wolof. Niente di nuovo sotto il sole neanche qui, dato che si trattava di una prassi già in uso negli anni Settanta in alcuni ambiti dell’avanguardia afroamericana.

Corey Wilkes e Jimetta Rose – Foto di Alessandro Botticelli

La Black American Music – riassumibile nell’acronimo BAM coniato anni addietro dal trombettista Nicholas Payton – qui si annacqua e si perde in un mare di luoghi comuni. Collier sembra convinto di questa sua iniziativa. Tuttavia, farebbe bene a sfruttare le sue doti non comuni per sviluppare una sua poetica, invece di adagiarsi su un terreno confortevole ma sterile.

Enzo Boddi

Foto di Alessandro Botticelli

 

 

 

 

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