Matteo Paggi, so che con i Furious Five siete da poco entrati in sala di incisione per il nuovo disco di Rava, per l’etichetta Parco della Musica, un disco atteso e che è un po’ un avvenimento, perché è dal 2021 di «Edizione speciale», live per la ECM, che il trombettista non pubblica un disco con un suo gruppo, e per registrazioni in studio credo occorra andare indietro fino a «Wild Dance» del 2015, quando era in formazione il tuo collega Gianluca Petrella e già c’era Francesco Diodati, che adesso è anche con i Fearless Five. Come e quando hai conosciuto Rava, e quando ti ha chiesto di entrare nel gruppo?
Ho sempre saputo chi fosse Rava, ma non avevo mai approfondito davvero la sua musica fino a quando, ad Amsterdam (dove ho abitato per circa quattro anni per i miei studi musicali), ho convissuto per due anni con Andrea, un carissimo amico trombettista, anche lui lì per studiare. Fu questo amico che mi fece conoscere per bene la musica di Enrico, essendone un grande appassionato. Mi ha fatto sentire un sacco di album e io ho detto: Mamma mia! Che bella musica! Fantastico! Allora, sapendo che Rava faceva dei seminari a Siena, e visto che mi piaceva così tanto la sua musica, mi sono iscritto a quelli che teneva i primi tre giorni di agosto del 2022. Mi sono trovato a suonare con lui assieme a un gruppo di ragazzi della mia età. Ha avuto subito un grande interesse verso di me, mi ha detto che è un grandissimo fan del trombone, mi faceva anche un sacco di domande. Così il secondo giorno, dopo aver suonato e improvvisato un pezzo suo che si chiama The Trial, brano che adesso col quintetto facciamo spesso dal vivo, mi dice: Matteo, che cosa hai da fare dopodomani? E io: Beh, se me lo chiedi tu, niente. Così mi prese a suonare con lui per un concerto a Medicina il 4 agosto 2022: mi aggiunse al previsto quartetto formato da Francesco Diodati alla chitarra, Francesco Ponticelli al contrabbasso che sostituiva Gabriele Evangelista ed Evita Polidoro che pure lei suonava per la prima volta con Rava, sostituendo Enrico Morello. Io ero ospite, molto emozionato, però è andata bene, abbiamo fatto proprio un bel concerto, e anche Rava era contento. Mi ricordo che disse a Livia, sua moglie: Ma lo sai che questo gruppo è proprio bello? E lei: Sì, secondo me dovresti proprio fare un quintetto con queste persone. L’ho visto convinto e da lì è iniziata l’avventura dei Fearless Five. Dapprincipio ci siamo dovuti fermare dopo il primo concerto perché purtroppo Enrico in quel periodo era stato male e fu costretto ad annullare molte date; ma dall’estate successiva, cioè del 2023, abbiamo ricominciato alla grande con diversi concerti e in programma molte date a venire.
E avete anche fatto il disco…
Sì, il disco, per me è stato l’avverarsi di un sogno. Rava sentiva l’urgenza di registrare la musica con noi, e aveva intenzione di farlo per ECM. Quindi abbiamo registrato un concerto ad Arezzo da mandare a Manfred Eicher che si facesse un’idea della musica; Eicher era molto interessato, ma subito avrebbe voluto fare con Enrico un disco in duo con Fred Hersch, perché il precedente era andato benissimo; e solo l’anno dopo un disco con noi. Per Enrico c’era troppo tempo da aspettare, mi ricordo che, quando abbiamo suonato il primo dell’anno a Orvieto per Umbria Jazz Winter, al soundcheck ci ha detto: Ho per voi una brutta notizia e una bella notizia. La brutta è che ECM ci vuole registrare, ma solo fra un anno; la bella è che, siccome ho l’urgenza di fare un disco con voi, andremo a inciderlo a febbraio per il Parco della Musica.
So che con Rava per i dischi non si fanno tante prove: le prove sono i concerti, durante i quali vi affiatate, vi affinate, trovate soluzioni, vi rodate, mettete a posto le cose…
Sì, quello che abbiamo registrato su disco è più o meno il live set messo a punto durante i concerti, che a loro volta non vengono preparati. Diodati e Ponticelli, che suonano con lui da decenni, mi hanno detto che con Enrico non hanno mai dovuto fare una prova per mettere su un repertorio. Lui, secondo me, lo fa in maniera molto cosciente quello di portare sempre pezzi nuovi e di non decidere la scaletta (o almeno non tutta). Al Blue Note di Milano, dove siamo stati due serate con due set per serata, ogni set era differente dall’altro, con brani diversi e un’energia diversa. Suonare live davanti al pubblico in un modo come questo, dove sei lì che sperimenti, improvvisi, ascolti, ti dà una grande freschezza creativa e impari davvero tanto. Io penso che Enrico faccia di questo il suo punto di forza: creare al momento, spesso cambiare le cose, e soprattutto non sprecarsi troppo nel dare indicazioni a voce; se davvero c’è qualcosa che non gli piace, allora te lo dice, ma di indicazioni ne dà veramente poche, proprio perché ha capito che più fiducia dai ai musicisti e più questi riescono ad esprimersi al meglio.

Foto di Davide Romeo
Tu, oltre che dare sfoggio di grande bravura come solista, hai modo anche di contribuire con delle tue idee a caratterizzare la musica del gruppo, nel suo insieme? Ho visto che nei concerti hai degli spazi tuoi in cui costruisci la musica anche con l’aiuto dell’elettronica e di effetti.
Sì, decisamente. Nei gruppi di Rava la musica la fanno tutti, lui porta la cornice del quadro, e noi tutti lo dipingiamo a nostro piacimento, ogni componente è compositore. Per quello che riguarda l’elettronica, ogni tanto la uso, ogni tanto no, perché a volte mi piace e altre no, dato che il suo apporto produce cambiamenti forti. Una delle volte più belle in cui l’ho usata è stato al festival di San Sebastián dove, nonostante qualche brano cambiasse fortemente rispetto a quando lo suonavamo senza l’uso dell’elettronica applicata al trombone, Enrico mi incitava a proseguire dicendomi: «Fa’ tutto quel che ti passa per la testa». Il pensiero che Rava si fidasse così tanto di me da permettermi di fare qualsiasi cosa e di sperimentare sulla sua musica, mi ha fatto provare una bella sensazione.
Sei andato ad Amsterdam per perfezionarti negli studi classici o per studiare jazz? Perché la tua formazione è accademica, hai studiato e ti sei laureato al Conservatorio Rossini di Pesaro.
Sì, sono andato ad Amsterdam proprio per studiare jazz, perché in Italia ho studiato classica; anche quando sono andato in America, alla Marquette University nel Wisconsin e alla Stanford University in California, solo studi classici, composizione e direzione d’orchestra; quindi ero molto dentro a quel mondo e il jazz l’ho sempre praticato per conto mio, con dei miei gruppetti. Quando ho deciso di studiare seriamente jazz sono voluto andare nel posto top in Europa, cioè Amsterdam. Ci sono conservatori di jazz di alto livello anche in altri posti, come a Parigi, anche Siena Jazz è eccellente, ma Amsterdam a livello europeo è molto rinomata, ha corsi in inglese (al contrario di Parigi) e per questo l’ambiente studentesco è estremamente internazionale. Ho chiesto l’ammissione solo ad Amsterdam, senza alcun piano B, perché poi se non mi prendono – mi sono detto – continuo con la musica classica, che amo. Mi ha preparato per l’ammissione il maestro Massimo Morganti che come trombonista, nelle Marche, è un’istituzione, e dato che non avevo una lira mi ha addirittura preparato gratuitamente, anche se non mi conosceva, per dirti che bella persona che è.
Dal punto di vista prettamente solistico, cioè delle improvvisazioni che si sviluppano in modo classico, su cambi di accordi, oppure modali, quale o quali trombonisti ti hanno influenzato?
A me piace moltissimo l’early jazz, e lo suono anche tanto qui in Olanda, quindi direi Tyree Glenn, che fu anche trombonista di Louis Armstrong negli anni Cinquanta e Sessanta. Poi mi piace molto Trummy Young, che pure ha suonato con Armstrong. Dei moderni adoro Gianluca Petrella, sia quando suona con Rava sia nei suoi dischi: l’ho ascoltato tanto e mi ha ispirato, anche se facciamo cose diverse.
A proposito di trombonisti del passato, quest’anno corre il centenario della nascita di J.J. Johnson. Cosa mi dici di tale altisonante figura?
Nonostante si collochi in un tipo di musica che seguo poco, ugualmente l’ho ascoltato e studiato, tirando giù diversi suoi assoli: mi piace tantissimo per come li costruisce e per l’eleganza del suono che qualche jazzista considera un suono «alla classica», molto robusto e centrato, mai fragile, tecnicamente sempre a posto. È un punto di riferimento, non a caso è considerato uno dei migliori trombonisti di sempre e penso che qualsiasi trombonista prima o poi debba passare da J.J.
Per costruirsi un proprio stile e per arrivare a fare musica contemporanea, adeguata ai tempi, secondo te è importante, o perlomeno può servire, ascoltare il jazz di questi grandi del passato?
Premesso che ognuno si ricerca il proprio stile come meglio crede, per me l’aggancio col passato è importantissimo, esattamente come conoscere la storia dell’umanità, avere coscienza del nostro inizio e nel nostro percorso. Poi dipende sempre da che direzione uno vuole prendere, nel senso che, per la mia esigenza artistica, rifare e studiare qualcuno del passato e sempre ripetere quel tipo studio alla fine non mi porterà a suonare quello che mi rappresenta; secondo me la modernità sta nel pensiero e nel concetto, nelle ideologie che uno ha, ideologie che poi nutre con gli strumenti che ritiene più opportuni. Io non mi sono mai trovato nell’esigenza di dover dire: «Adesso per suonare bene devo trascrivere tutti gli assolo di questo e di quest’altro». A me piace ricercare uno stile personale attenendomi a dei concetti e delle visioni che vengono fuori da me stesso, un me stesso che pian piano conosco sempre di più, perché sono in continua ricerca. Questo alla fine è il punto focale, la ricerca di te (come musicista sì, ma anche come essere umano). Con il trombone mi piace più cercare di riprodurre la voce, non un altro trombonista, mi piace cercare di imitare una musica che potrebbe essere la techno, oppure il metal, quindi ricercare articolazioni, timbri, linguaggi diciamo nuovi che non si rifanno necessariamente alla tradizione jazzistica. Per me adesso la ricerca non sta tanto nel copiare i dischi – non trascrivo assolo da un po’ – ma sta più nel cercare di concepire, anche solo a livello intellettuale/sensitivo, un qualcosa di nuovo e poi di riprodurlo con le competenze tecniche che ho dello strumento.
Sai che ci sono dei grandi del jazz contemporaneo che sono partiti dalla tradizione, ma hanno saltato pari pari il bebop? Uno di questi è proprio un trombonista, Roswell Rudd, che dal dixieland è passato direttamente al free.
Ah, vedi, un percorso molto simile. Una scelta che capisco e rispetto. A volte, soprattutto nel mondo degli studenti, mi sono sentito un pesce fuor d’acqua perché la linea generale del pensiero era quella di dover trascrivere e studiare quel tipo di jazz di quel periodo. E se non lo facevi non eri rispettato diciamo. Io di quegli assoli me ne sono trascritti pochi, solo quelli che mi interessavano davvero. A trascrivere tanto poi ti fai un bagaglio culturale eccezionale, però dopo riesci a ritrovare veramente te stesso? Non lo so, io non ci riuscirei, probabilmente perché non mi identifico con nessun genere musicale o con nessun musicista in particolare.
Come è stato il tuo primo approccio alla musica? E perché hai scelto il trombone?
Ho avuto l’influenza della famiglia. Zio Cesare era un dottore e un musicista. Per farti capire quanto sia stato importante nella nostra vita, mio fratello è un dottore e io sono un musicista. L’altro mio zio, Eugenio Pistolesi, suona il trombone nella banda cittadina. Io vengo da un paese delle Marche, Fiuminata, in provincia di Macerata, dove, come in molti paesi, la banda è importante. E poi c’era mio fratello che aveva iniziato a suonare la tromba, anche se poi ha lasciato perdere. Vedendo tutti nella famiglia che suonavano mi sono detto: Cavolo! Voglio suonare anch’io. Così a otto anni sono entrato nella banda a suonare il flicorno tenore, e mi piaceva tantissimo. Nel 2010, a tredici anni, andai in conservatorio, ma la classe di flicorno non c’era, così ripiegai sul trombone di cui ben presto mi sono innamorato, per la sua flessibilità d’impiego nei diversi stili musicali.
L’esperienza con la banda è quindi stata importante per te?
Molto, ci ho suonato per tanti anni e quando capita che torno in paese ci vado sempre a suonare, perché per me la banda è una famiglia. Il mio maestro era Sergio Giuli, clarinettista che per vivere lavorava in cartiera, la cartiera di Pioraco, penso sia la più antica d’Italia. È dalla banda che è nata per me sia la passione per la musica in generale sia per il jazz in particolare.
Pensi che il trombone, come strumento in sé, ti rappresenti, come persona?
Sì, alla grande, infatti mi sono innamorato subito perché secondo me mi rappresenta alla perfezione. Il trombone ha la possibilità di essere uno strumento altamente esplosivo, e io ho una parte di me che è estremamente esplosiva ed estroversa, e allo stesso tempo riesce ad essere morbido, molto timido e fragile, grazie alla flessibilità timbrica e dinamica che hanno pochi altri strumenti, e questo rappresenta un’altra parte di me, molto più introversa e riflessiva. E mi è congeniale per il fatto che non è a macchina come il flicorno e la tromba, ma ha la coulisse, quindi abbisogna di molta energia per essere suonato, sia perché ci vuole tanta aria, sia perché è il corpo che deve muoversi.
Però il trombone è come la tromba e il flicorno, nel senso che non può essere mai abbandonato, bisogna sempre fare pratica altrimenti si possono perdere dei colpi.
Beh, la tromba è veramente una testa di cazzo, se la lasci due giorni quando la riprendi lo senti. Rava considera la tromba sua nemica, e lo capisco. Anche il trombone non puoi mai lasciarlo, ma per quello che mi riguarda penso di avere una fortuna genetica, nel senso che la conformazione della bocca mi rende abbastanza facile suonarlo. Poi fin da adolescente ho studiato molto, ho fatto tanto lavoro, tantissime ore solo a studiare la tecnica, a come produrre il suono, note lunghe, esercizi in sé noiosissimi che però a me piacevano perché mi piaceva moltissimo ascoltare quella voce, è stato tanto di quel lavoro che adesso me lo porto dietro, tutto mi viene ripagato. Così se sto anche due o tre giorni senza suonare posso andare a fare un concerto tranquillamente, mi torna molto utile ora che nella mia vita è entrato a gamba tesa Sabatino, il mio bellissimo e piccolo figlioletto.
Qual è il tuo trombone? Che bocchino usi? Perché queste scelte?
Ho diversi tromboni, anche vintage, li colleziono. Quello che uso di più è uno Yamaha, modello 891Z abbastanza nuovo. Nel trombone ci sono tre canneggi, grande, medio e piccolo: il grande si usa per la classica, il medio anche per la classica, se devi fare il Bolero o assolo particolari in orchestra, mentre il piccolo si usa per il jazz. Sto generalizzando, perché poi ognuno usa quello che gli pare: Roberto Rossi, per esempio, usa il canneggio grande. E sul canneggio piccolo ci stanno a loro volta quattro diversi canneggi: grande, medio, piccolo e piccolissimo. Il piccolissimo, con la campana piccola, lo uso per l’early jazz, ho un Conn 4H del 1925, chiamato «Naked Lady» per la decorazione sulla campana: quanto mi carica! Il grande della serie piccola lo uso con Rava, ed è lo Yamaha, che a Enrico piace tantissimo, con la campana grande come piace a me, perché vibra di più e dà più flessibilità timbrica, almeno per quello che ci ho capito io, poi ognuno sul trombone ha idee diverse.

E il bocchino?
Uso un AR Resonance di Antonio Rapacciuolo, un artigiano che ha il laboratorio a Torino, dove andai circa sette anni fa a provare tutti quelli che aveva, trovando il AR Resonance costruito con una combinazione di materiali che per me funziona: una tazza in bronzo anziché in ottone e la penna in ottone. Di bocchini ne ho cambiati centinaia, perché mi piace tanto sperimentare, ma da quando ho questo non l’ho più mollato. È fantastico, lo uso per tutti i generi.
Le sordine le usi?
Ne ho tantissime, sono un collezionista anche di sordine, ne ho molte d’epoca, anni Cinquanta e Sessanta. Un bel numero di plunger e pixie le uso con il gruppo dixieland. Tyree Glenn, te l’ho nominato anche perché usa la plunger in un modo che, mamma mia, sembra uno che emette delle urla, fantastico. Con Rava invece non le uso, o poco, solo in rari casi adopero la plunger, cioè lo sturalavandini, perché in un mio immaginario di suono la sordina mi riporta a una fase antica del jazz. Con Rava mi piace più sperimentare direttamente con il mio suono, con il timbro, con le dinamiche, cerco sempre di trovare sonorità diverse senza l’uso di sordine o dell’elettronica.
Quindi oltre alla collaborazione con Rava hai altri gruppi con cui suoni.
Ho due miei gruppi da leader. Il primo è WORDS, che dà il nome anche all’album uscito da poco, con cui suono musica estremamente contemporanea e molto intima nella sua essenza. L’altro si chiama Matteo Paggi and The Giraffes, con cui suoniamo spesso anche in Italia, che rappresenta il mio lato metal, rockettaro, duro, un po’ arrogante. WORDS è il mio progetto di musica totalmente improvvisata; le Giraffes è quello di musica scritta.
E il dixieland?
Lo suono con The Fried Seven, sarebbe «i sette fritti», ricalcando il nome degli Hot Seven di Armstrong. È un gruppo di Amsterdam che sta andando molto bene. Abbiamo anche registrato il nostro primo disco, «Late to the Party», uscito a febbraio con un’etichetta americana, la Rivermont, una delle più importanti fra quelle che fanno early jazz. Suoniamo in maniera filologica anche con strumenti e sordine d’epoca, studiamo il genere per fare assoli che siano credibili in quello stile. Gli strumenti originali li troviamo in America, ma anche in Inghilterra e in Olanda, dove c’è una tradizione molto radicata dell’early jazz. Città come Breda al sud e Enkhuizen al nord hanno un loro importante festival di jazz tradizionale; e ognuna di esse, che conta solo qualche decina di migliaia di abitanti, ha quattro o cinque band amatoriali che suonano questa musica talmente bene che vengono chiamate nei vari festival europei, come quello di Dresda.

Come è formata la band, e che repertorio avete?
Siamo due olandesi, quattro spagnoli e un italiano, e fra gli olandesi c’è il sassofonista Pepijn Mouwen, che viene da Breda e sta diventando parecchio conosciuto in Europa. Lui scrive tutti gli arrangiamenti e noi li suoniamo a memoria. Facciamo King Olivier, Jelly Roll Morton, il primo Duke Ellington, il primo Louis Armstrong, tutti quelli importanti di quel periodo li suoniamo. Ed è una bella scuola: per il mio modo di esprimermi è più importante studiare l’early jazz che il bebop.
E l’elettronica?
Qui a Rotterdam ho un gruppo denominato Nothing to Hide dove uso l’elettronica, oltre al trombone e al flauto, e con cui ho registrato un EP e suono in posti molto underground. Faccio parte anche di un progetto di un mio conterraneo, Matteo Stella, che ha registrato il disco «Anello del Monte d’Aria» con musica estremamente contemporanea e minimale dedicata alle nostre montagne, dove siamo cresciuti in mezzo alla natura.
Parlami ora del gruppo WORDS, di cui è da poco uscito il bel disco omonimo per la AUT Records. Un disco di ricerca, di sperimentazione, che rimane ai confini del jazz.
Quando stavo ad Amsterdam ho sentito la necessità di creare un gruppo con musicisti che non fossero tutti jazzisti. Infatti i componenti di WORDS sono Iara Perillo, flautista che suona musica da camera e in gruppi Latin; Irene Piazza, violinista che suona in orchestra sinfonica; Anja Gottberg, contrabbassista jazz dai modi intimistici, un po’ scuri; Anton Sconosciuto, batterista di jazz ma anche di punk e rock, oltre che interessantissimo cantante. Nel disco applichiamo il metodo di improvvisazione e composizione di mia creazione, chiamato pure esso Words, messo a punto per la mia tesi di laurea ad Amsterdam. Il mio scopo è quello di creare musica che abbatta le barriere di genere musicale, creare un ambiente dove musicisti di diversi background possano trovare un suolo comune ed esprimere degli angoli molto intimi e nascosti delle loro preziose e colorate personalità.
Il metodo l’hai spiegato filosoficamente nelle note di copertina dell’album. Cosa puoi dire di più specifico?
Words significa parole, attraverso le quali ho pensato a un modo evocativo di creare l’improvvisazione, ogni parola crea un evocazione in noi. Questa evocazione può avvenire a livello intellettuale (sfera della mente, dell’immaginario), corporeo (le sensazioni cinestetiche, quello che si tocca o le sensazioni interne) e spirituale (potrebbe essere il cuore, i sentimenti, ma anche lo spirito, un qualcosa di più alto che sentiamo che ci appartiene e allo stesso modo ci è distante). Per mettere in gioco queste tre sfere ho scelto cinque categorie di parole, che sono: colori, forme, azioni, modi di essere e luoghi/cose. Ognuna di queste parole evoca qualcosa principalmente in una sfera piuttosto che un’altra, anche se ogni parola le mette in gioco tutte e tre. Per esempio rosso, o una forma, appartiene più alla sfera mentale; un’azione, camminare, cucinare, parlare, appartiene più alla sfera corporea; un luogo come la casa di mia nonna, che è per me una evocazione potentissima, mi dà delle sensazioni forti, emozioni, ricordi, sentimenti, quindi potrebbe appartenere alla sfera spirituale. Così usando queste parole su un grande pezzo di carta (che fa da spartito) i musicisti improvvisano ispirandosi ad esse. Nel pezzo di carta scrivo queste parole posizionandole in diversi punti e collegandole da segni e transizioni (frecce, due linee appaiate, cerchiature, rettangoli, piramidi), venendo a costituire una indispensabile forma nella quale eseguire diciamo «dell’improvvisazione free». I segni servono per dire: «Qui suonate insieme ascoltandovi e interagendo, qui suonate senza ascoltarvi, qui aspettate il violino, qui prendete iniziativa e portate la band nella prossima sezione.» La forma per me è importantissima, il fatto che ci sia rende naturale l’improvvisazione free. I musicisti, che vengono da background totalmente diversi (anche questo per me è importante), s’incontrano non con qualcosa di scritto ma con qualcosa che devono letteralmente creare seguendo le sensazioni suscitate in loro da parole, perciò esprimendo qualcosa di assai intimo.
Quindi niente melodia, armonia, centri tonali, centri di gravità…
Tutto questo non può mancare, perché è sempre presente nella musica, ma sicuramente non è argomento di discussione fra noi. L’unica cosa a cui pensiamo è la parola e il tipo di energia che vogliamo trasmettere in quel momento del brano. E ovviamente, sempre orecchie aperte per creare un qualcosa che abbia spessore.

Ma pensando a una determinata parola ed esprimendola tutti insieme ognuno in modo diverso, i musicisti non sono indotti a influenzarsi a vicenda e a venir meno alla propria idea musicale che traduce quella parola?
Certamente, l’influenza c’è. È proprio quello il bello, è quello che ci permette di creare. La creatività è dettata sempre (o quasi) dai limiti che ti si pongono.
Ci potranno essere ulteriori sviluppi di questo metodo di creazione musicale?
Assolutamente, stiamo già lavorando sodo per implementare del video mapping alle nostre performance. Gli strumenti acustici saranno collegati tramite un microfono a contatto ad un software che genera video random. Ogni strumento creerà parti diverse del video, ed il video cambierà scena di sezione in sezione. Ci sarà interplay tra video e musica, e una storyline interessante per più di un senso percettivo.
Due domande finali: suoni per il pubblico, per i musicisti, per te stesso o per i critici?
Diciamo un po’ per tutti e un po’ per nessuno. Se faccio l’artista è perché sento di avere qualcosa da dire, e voglio dirla al pubblico. Questa cosa la voglio anche condividere con i musicisti e gli artisti con cui creiamo arte insieme, loro sì che mi possono dare una grossa mano a consegnare questo messaggio, e ogni volta lo arricchiscono e lo rendono così prezioso! E sicuramente suono sempre per me stesso, perché sento il bisogno di sfogare ed esternare le pluralità che mi compongono. Non penso di aver mai pensato di suonare per i critici in effetti, penso che un’artista debba fare il suo, poi i critici criticheranno, ed è sempre interessante e utile per pubblico e artista. Io concepisco la musica come un fatto sociale, che viene dall’umano intimo e arriva all’umano della collettività.
I tre dischi che ti sono più cari o che ascolti con più piacere?
«Historically Speaking» di Duke Ellington pubblicato dalla Bethlehem nel 1956: un capolavoro che ho ascoltato fino all’esasperazione; «Blackstar» di David Bowie pubblicato dalla RCA nel 2016: super connubio fra il cantante e la giovane generazione jazzistica di Los Angeles; «Esco di rado e parlo ancora meno» di Adriano Celentano pubblicato dal Clan nel 2000: con le parole di Mogol e arrangiamenti veramente ben fatti, mi piace tantissimo.
Aldo Gianolio