Parlare di Roberto Gatto richiederebbe fiumi d’inchiostro: il batterista romano vanta una carriera professionale di oltre cinquant’anni che lo ha portato a suonare con i più grandi, scrivendo pagine fondamentali del jazz italiano – e non solo. Una peculiarità della sua produzione discografica è certamente l’eterogeneità, come lui stesso ha più volte riconosciuto.
In passato esisteva una corrente di pensiero secondo cui un jazzista non dovesse suonare altro che jazz: le incursioni in altri generi non erano tollerate. Gatto, pur formatosi e affermatosi in contesti prettamente jazzistici, ha assorbito e proposto linguaggi diversi e trasversali: dalle incisioni da turnista per il gotha del cantautorato italiano, agli interessi per la musica classica e le produzioni per orchestre d’archi, fino al rock, al progressive e ai nuovi orizzonti della musica contemporanea. Tutto questo bagaglio di esperienze rende difficile incasellare la sua produzione in un solo genere e fa di lui un musicista versatile, curioso e sempre pronto a scoprire nuovi territori sonori.
Un primo momento di notorietà nella carriera di Roberto Gatto risale al Festival Jazz di Nervi del 1978, quando prese parte al concerto del sestetto di Dino Piana e Oscar Valdambrini, completato da Franco Piana, Enrico Pieranunzi e Bruno Tommaso. Una formazione di altissimo livello, espressione di un linguaggio hard-bop raffinato e vigoroso, guidata da due protagonisti assoluti del jazz italiano: Valdambrini, dal suono nobile e impeccabile, e Piana, con il suo inconfondibile trombone a pistoni, ad infondere un sound unico all’ensemble. Il gruppo seppe conquistare il pubblico accorso in gran parte per ascoltare Ornette Coleman e i suoi Prime Time, imponendosi per intensità e qualità strumentale.
La stessa sezione ritmica sarà protagonista, negli stessi mesi, dell’incisione di «Hinterland» di Claudio Fasoli. Il sassofonista veneziano, reduce dall’esperienza jazz-rock dei Perigeo, avviava allora un percorso personale di ricerca – tuttora in corso – che lo avrebbe reso uno dei musicisti più originali della scena italiana. «Hinterland» è una delle prime testimonianze di quel cammino, un album seminale in cui Gatto offre un drumming già sicuro e maturo, nonostante la giovane età.

Il sodalizio con altri protagonisti della scena romana, in particolare Enrico Pieranunzi e Massimo Urbani, rappresenta un altro capitolo cruciale. Nel 1980 esce «Soft Journey», a nome di Chet Baker ed Enrico Pieranunzi, un quintetto romano impreziosito dalla presenza del “principe del cool”, che proprio con Pieranunzi firmerà alcune delle sue migliori produzioni degli anni Ottanta. Per Gatto fu una grande scuola: con Baker inciderà anche il postumo «Chet on Poetry», alcune incursioni brasiliane con Jim Porto e Rique Pantoja, e numerosi concerti dal vivo. Una di queste serate, a Torino, gli è rimasta nel cuore – come racconta più avanti – quando Chet gli confessò di essersi sempre trovato bene a suonare con lui, fatto non scontato per un batterista.

Gatto è presente anche in «Isis» (Soul Note, 1981), sempre con Pieranunzi, con Art Farmer e Massimo Urbani ai fiati. Ma il disco che più rappresenta il sodalizio con il leggendario sassofonista romano resta «Easy to Love» (Red Record, 1987), fotografia di uno stato di grazia collettivo: Urbani, Luca Flores al pianoforte, Furio Di Castri al contrabbasso e Gatto alla batteria. A giugno ricorreranno trentatré anni dalla scomparsa di Urbani – artista tormentato ma capace di lasciare un segno indelebile, la cui musica continua a vibrare nel tempo.
La collaborazione fra i due proseguirà su altri dischi e in innumerevoli esibizioni dal vivo: il drumming potente e multiforme di Gatto era la base ideale per l’urgenza espressiva di Urbani, una forza quasi unica nella storia del jazz italiano. È di recente uscita il docufilm Easy to Love. La vera storia di Massimo Urbani, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2025 e disponibile su RaiPlay: un bel tributo che ripercorre i luoghi e le persone che ne hanno incrociato il cammino.

Negli anni Ottanta e Novanta, Gatto sarà membro stabile del Roma Jazz Trio e dello Space Jazz Trio, con i quali accompagnerà la crème dei solisti americani di passaggio in Italia, dal vivo e in studio: da segnalare «Curtis Fuller Meets Roma Jazz Trio» (Timeless, 1987) e «Phil Woods & Space Jazz Trio – Live at the Corridonia Jazz Festival» (Philology, 1992).

Come leader, i primi due dischi a suo nome – «Notes» e «Ask» (Gala, 1987) – restano fondamentali per la fusion italiana di quegli anni, anche grazie a cast stellari. In Notes compaiono, tra gli altri, Danilo Rea, Antonio Faraò, Umberto Fiorentino e Rita Marcotulli, ma la vera perla è la presenza di Michael Brecker, allora nel pieno della sua parabola artistica. In «Ask», invece, il contributo di John Scofield aggiunge un valore inestimabile, in un periodo di massimo splendore per il chitarrista.

A cavallo tra la fine dei Novanta e l’inizio dei Duemila, Gatto collabora con Franco D’Andrea, Enrico Rava e Paolo Fresu, fino ad arrivare a «Roberto Gatto Plays Rugantino» (CAM Jazz, 2000), personale rilettura della celebre commedia musicale di Armando Trovajoli, con un organico allargato e archi della Roma Sinfonietta.

Nel 2008 pubblica per Emarcy «The Music Next Door», un quintetto stellare con Paolo Fresu, Stefano Bollani, Daniele Tittarelli e Rosario Bonaccorso: una delle pietre miliari della sua carriera, ritratto del potenziale del jazz italiano di quegli anni. Seguono «Now!» (2017) e «My Secret Place» (2021), lavori che raccolgono sotto la sua guida il meglio della nuova generazione di jazzisti italiani – Alessandro Presti, Matteo Bortone, Alessandro Lanzoni – a testimonianza di un artista che continua a rinnovarsi senza perdere autenticità.

In occasione dell’imminente tour europeo del Jed Levy & Phil Robson International Quartet – equamente diviso fra Regno Unito e Italia – abbiamo raggiunto Roberto Gatto, protagonista di una delle sue ormai rare apparizioni da sideman, per parlare di questo progetto e ripercorrere le tappe di una carriera straordinaria.
Come è iniziata la collaborazione con Jed Levy, Phil Robson e Mark Hodgson? Che repertorio presenterete in questa serie di concerti?
Per raccontare la genesi del gruppo bisogna tornare ai miei anni newyorkesi, tra il 2010 e il 2018, quando comprai casa lì e iniziai a frequentare assiduamente la scena locale. Fu allora che conobbi Jed Levy, un ottimo sassofonista con cui nacque subito un bel rapporto di amicizia. In quegli stessi anni anche il chitarrista inglese Phil Robson era attivo a New York, e ci capitò spesso di suonare insieme. Ora sia io che Phil siamo tornati in Europa, ma quando se ne presenta l’occasione è sempre un piacere ritrovarci. L’anno scorso abbiamo fatto un primo tour europeo e sono felice che si riesca a replicare anche quest’anno. Oggi preferisco concentrarmi sui miei progetti personali, ma suonare con Jed e Phil è sempre una gioia. Mark Hodgson, invece, non lo conosco ancora: non abbiamo mai suonato insieme, ma rimedieremo presto. Per quanto riguarda il repertorio, proporremo musica originale, con brani scritti da ciascuno di noi.
Se dovessi consigliare ai lettori alcuni ascolti tratti dalla tua discografia da leader, quali titoli indicheresti?
Ho inciso molta musica, sia come leader che come sideman, ma se dovessi scegliere alcuni titoli direi «Notes» (1986), il mio primo disco. Ci sono molto affezionato perché partecipano musicisti che stimo profondamente, in particolare Michael Brecker. All’epoca far suonare un gigante come lui su una produzione italiana era quasi fantascienza, ma ci riuscii e ne sono orgoglioso. Anche il successivo «Ask» (1987) è molto significativo, con John Scofield come ospite speciale.
Tra i dischi più recenti, sono molto legato a «Roberto Gatto Plays Rugantino» (2000), omaggio alle musiche di Armando Trovajoli, un lavoro di grande respiro con la Roma Sinfonietta. E poi «The Music Next Door» (2008), in quintetto con Paolo Fresu e Stefano Bollani, di cui sono davvero soddisfatto. Ma la lista potrebbe continuare a lungo.

Come ti descriveresti come musicista? Che periodo artistico stai attraversando in questa fase della tua carriera?
Ho iniziato da autodidatta, da bambino, ma in casa si respirava aria di musica grazie a mio padre e a mio zio. Frequentavamo concerti jazz e non solo – ricordo di aver visto Jimi Hendrix, i Beatles e James Brown da piccolissimo, perché mio zio, batterista professionista, suonava spesso come apertura dei loro concerti romani. Sebbene frequenti la scena jazz da cinquant’anni, la definizione di “batterista jazz” mi va un po’ stretta: negli anni ho sviluppato interessi trasversali verso altri generi, dalla classica contemporanea al rock sperimentale.
Sono convinto che l’improvvisazione resti un elemento vitale della musica: in un momento storico in cui sembra sia già stato detto tutto, essa continua a offrire nuovi stimoli e spunti di originalità. In questo periodo mi piace frequentare i concerti di musica contemporanea a Santa Cecilia, ma seguo anche progetti come quello di Tom Skinner – il batterista dei Sons of Kemet – che ha formato The Smile con Jonny Greenwood e Thom Yorke dei Radiohead. Mi affascinano le sonorità che esplorano, dimostrando come la ricerca possa vivere anche lontano dal jazz.
Tutto questo si riflette nella mia musica: nella mia discografia convivono lavori più classici, aperture verso il jazz elettrico e la fusion, fino a progetti con orchestra d’archi come Rugantino. Cerco di mantenere sempre questa apertura mentale, attingendo a più fonti d’ispirazione.
Recentemente è venuto a mancare Jack DeJohnette, che hai sempre considerato, insieme a Elvin Jones e Tony Williams, tra i tuoi riferimenti principali. Hai avuto modo di conoscerlo?
È vero, Jack per me è sempre stato un mito. Da ragazzo ho consumato i suoi dischi. Non ho mai avuto occasione di studiare con lui, ma ci siamo incontrati più volte ed è sempre stato speciale. Era un uomo riservato, apparentemente schivo, ma in fondo anch’io sono così, e forse per questo ci siamo trovati bene.
Hai condiviso il palco con giganti come Chet Baker, Lee Konitz, Pat Metheny. Che ricordi conservi di quelle esperienze?
Mi ritengo molto fortunato: sono state esperienze formative, una scuola impagabile per un giovane musicista. All’epoca era più facile: il livello dei colleghi era altissimo e le occasioni per suonare insieme più numerose. Oggi molti di quei grandi non ci sono più, e le opportunità di esibirsi dal vivo sono più limitate. Per questo sono grato per tutte le esperienze che mi hanno fatto crescere.
Lee Konitz era un personaggio unico, un grande intellettuale della musica. Da lui ho imparato molto. Anche aver suonato in sette-otto concerti con Pat Metheny è per me motivo di orgoglio: l’ho sempre stimato, e trovarmi al suo fianco fu un sogno. Lavorare con Chet, poi, è stata un’esperienza che non dimenticherò mai.
Sia Chet che Lee erano noti per la loro severità verso i batteristi. È vero?
Sì, soprattutto Chet. Dopo aver perso i denti aveva avuto difficoltà a suonare la tromba, e di conseguenza la dinamica della sua musica era cambiata: i batteristi dovevano stare molto attenti a non coprirlo. Personalmente non ho mai avuto problemi, anzi, ti racconto un aneddoto.
Uno degli ultimi concerti di Chet fu a Torino. Durante l’esibizione un brano non venne come avremmo voluto. Anche se la colpa non era solo mia, decisi di prendermi la responsabilità e ne parlai con lui a fine concerto. Mi ascoltò, sorrise e mi diede un buffetto sulla spalla: “Non preoccuparti, Roberto, con te non ho mai avuto nessun problema”. Mi fece un enorme piacere – e custodisco ancora oggi quel ricordo con affetto.
Jed Levy & Phil Robson International Quartet – LE DATE DEL TOUR
ITALIA dal 21 al 30 Novembre
21 Nov – Duke Jazz Club, Bari https://www.instagram.com/dukejazzclub
22 Nov – Jazz in Andria – Auditorium Monsignor Di Donna, Andria https://www.facebook.com/profile.php?id=100089953206898
23 Nov – Lampus Jazz, Santa Maria di Leuca https://www.facebook.com/lampus.it https://www.instagram.com/lampusinjazz
26–27 Nov – Rome (New Album Recording + Concert TBA)
28–29 Nov – Jazzino Club, Cagliari CA https://www.jazzino.it/
30 Nov – Vecchio Mulino, Sassari SS https://shorturl.at/0B5G5
UK dal 5 al 13 Dicembre
5 Dec – Dubrek Studios, Derby Jazz https://mjazz.co.uk/whats-on/8l-levy-robson-international-quartet/
6 Dec – The Vortex Jazz Club, London https://www.vortexjazz.co.uk
7 Dec – SoundCellar, Poole https://soundcellar.org/event/levy-robson-international-quartet/
10 Dec – Frank and Mark’s, Oxford https://www.frankandmarks.com
11 Dec – Leicester Jazz House https://mjazz.co.uk/whats-on/8p-the-levyrobson-international-quartet
12 Dec – Birmingham Jazz https://www.birminghamjazz.co.uk/gigs/2025-12-12/levy-robson-international-quartet
13 Dec Additional bonus duo concert! – The Shoe Factory, Rushden, Northants https://www.jazzschool.co.uk/ – Jed Levy/Phil Robson plus friends!)