Jacopo, al secondo album, vuoi provare a raccontare il tuo percorso artistico ai lettori?
Suono la tromba perché da piccolo ho visto Roy Paci suonare la sigla di Zelig in tv, ma come molti musicisti e in particolare trombettisti mi sono avvicinato al jazz con Chet Baker. Avevo una decina d’anni e i miei genitori mi regalarono il disco «She Was Too Good To Me». Ero completamente innamorato del brano It’s You Or No One e studiai l’assolo per alcune settimane. Al Liceo Musicale di Firenze, col benestare di due insegnanti illuminati, organizzammo musica d’insieme jazz autogestita: i docenti ne sapevano poco, ma vista la serietà, ci organizzarono un gruppo dedicato e poi una masterclass di Nico Gori (il professor Teobaldelli, purtroppo scomparso, era un suo compagno di studi), che si concluse con un doppio concerto nell’auditorium della scuola. Lì al Liceo ho conosciuto Francesco Panconesi, che per me è un secondo fratello: ha uno dei suoni di sax tenore più espressivi e personali che abbia mai sentito e ha sempre delle ottime intuizioni in fatto di musica. Poi ho suonato nella Wonderful Youth Orchestra del M° Igor Coretti-Kuret, un progetto patrocinato dal Parlamento Europeo con cinquanta musicisti under 18 provenienti da tutta Europa: un’esperienza intensa e formativa che mi ha profondamente segnato. Significativo anche il triennio a Siena Jazz. Ho incontrato moltissime figure fondamentali, in primis Fulvio Sigurtà, musicista e persona straordinaria, dotato di una grandissima sensibilità umana e artistica, che mi ha dato tanto in un bellissimo rapporto di amicizia e stima reciproche che dura tutt’ora. Fra gli insegnanti, non posso non ricordare Franco D’Andrea, che ci ha impartito insegnamenti essenziali. Soprattutto a Siena sono nate alcune esperienze preziosissime: penso all’ottetto di Francesca Gaza, Lilac For People che è stato un vero e proprio banco di prova delle mie capacità espressive, un organismo dal suono unico e complesso. Sempre a Siena, Federico Nuti, pianista dallo stile molto personale, mi ha accolto nel suo quintetto, InFormal Setting, dove ho conosciuto Mattia Galeotti e Amedeo Verniani, oggi con me in Dialogue. Nello stesso periodo ho incontrato quel fenomeno pianistico di Nico Tangherlini. Nel 2019 abbiamo vinto il Premio Marco Tamburini come duo e successivamente abbiamo realizzato il nostro primo album «Bilico». Devo molto a due docenti del biennio di tromba classica: Nicola Santochirico e Piergiuseppe Doldi. Con loro ho imparato a leggere e interpretare sul serio una partitura e come suonare la tromba nel modo più efficace possibile, inoltre grazie al percorso classico ho anche guadagnato un nuovo amico: il trombino, con tutte le sue potenzialità timbriche ed espressive. Con Funk Off di Dario Cecchini ho suonato a Umbria Jazz, al Blue Note di Milano, in Europa e in Giappone. È stato straordinario portare la loro musica in mezzo alle persone. Infine, qualche anno fa ho collaborato per la prima volta con l’Accademia Chigiana di Siena, aprendo il mio campo di esperienza alla musica colta del Novecento, suonando brani di Nono e di Ligeti in due anni consecutivi.

Come ti sei trovato a essere tu il leader? Come trovi una sintesi tra il momento «verticale» della decisione e quello «orizzontale» della coralità?
Nel gruppo c’è sempre una discussione corale che porta a una decisione «verticale» condivisa. Da quando ho smesso di cercare di impormi e ho iniziato ad ascoltare gli altri faccio molta meno fatica a prendere decisioni – o meglio ad accogliere la decisione migliore per la musica -. Sono accanto a musicisti con uno stile molto personale e dotati di grande sensibilità. Davide ha un suono di chitarra tra i più belli che abbia mai sentito, comprendendo anche la parte di elettronica che usa in modo molto personale. Mattia è una specie di supereroe. Con la batteria mette in musica tutta la sua energia dirompente e propulsiva e riesce a legare insieme le diverse anime del quartetto, sempre con un tocco personale. Amedeo se non ci fosse andrebbe inventato. Ha un suono bellissimo con l’arco ed è capace di notevoli prodezze tecniche anche grazie alla sua solida formazione classica.
Esistono materiali e fonti extra-musicali alle quali ti ispiri?
Sì, decisamente. Tutta la musica che scrivo nasce a partire da fonti extra-musicali. Cerco di essere una persona attenta al mondo in cui vive e fare musica significa «parlare» di come mi sento rispetto a ciò che mi colpisce: libri, esposizioni fotografiche, manifestazioni di protesta e molto altro. Da un paio d’anni mi sono avvicinato ad ambienti di musica e di arte contemporanea, ho la fortuna di vivere vicino al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, che insieme a Nub Project Space organizza eventi e performance molto interessanti.
Quali sono i tuoi progetti in corso e nuovi?
Senza dubbio suonare il più possibile con Dialogue. Poi, con Nico Tangherlini stiamo sperimentando un suono nuovo, aggiungendo l’elettronica e scrivendo nuova musica. A febbraio, invece, avrò l’occasione di esibirmi in diversi concerti con un quartetto di Simone Alessandrini tra Lazio e Toscana. Ho un nuovo quartetto in elaborazione, con Giulia Barba, Stefano Calderano e Francesco Panconesi, che ha come focus principale l’opposizione tra l’espressività del timbro dei fiati e la ritmicità della chitarra. Da poco ho intrapreso una collaborazione con Burçin Cingöz, cantante di origine turca con una voce meravigliosa, che suona anche il bağlama. Ultimamente, ho avuto infine l’opportunità di salire sul palco con Emma Nolde, una cantante pop che ha già una forte identità e che non si nasconde dietro artifici stilistici: è una rarità nel suo ambiente. È il tipo di linguaggio che mi interessa in ogni genere musicale, per questo sento molto affine il suo modo di intendere la musica.
Qui la recensione del disco «Dialogue»
(Anticipazione dell’intervista di prossima pubblicazione sulla rivista)
