Firenze
Museo dell’Opera del Duomo e Belvedere di Villa Bardini
12-14 giugno
Con questa sesta edizione la rassegna I Poeti del Piano Solo ha consolidato il proprio ruolo di documentazione delle varie tendenze che animano l’attuale panorama del pianismo di matrice jazzistica. La meritevole opera delle associazioni Something Like This e Musicus Concentus, nelle persone dei direttori artistici Stefano Maurizi e Fernando Fanutti, ha messo a confronto tre generazioni e tre differenti estrazioni culturali.
Ormai affermatosi sulla scena internazionale in virtù del suo legame con l’etichetta ECM, il 38enne israeliano Shai Maestro ha definito una poetica in cui confluiscono il retaggio della sua preparazione classica (di stampo prevalentemente post-impressionistico), spunti melodici e armonici che alla lontana lo apparentano a Keith Jarrett, richiami a Paul Bley nel disegno sulle ottave basse. A questi si aggiunge un gusto melodico che da una parte gli deriva dalle origini sefardite, dall’altra dalla lunga militanza nel trio del contrabbassista Avishai Cohen.
Nell’acclamato concerto eseguito nella Sala del Paradiso del Museo dell’Opera del Duomo Maestro ha evidenziato la tendenza e la propensione per lunghe improvvisazioni, concepite come flussi di coscienza, sostenute da capienti impianti armonici, fluenti arpeggi e una notevole dialettica tra le due mani. Ne scaturiscono efficaci sovrapposizioni e stratificazioni, condite da alcune dissonanze, dalle quali emergono richiami – ora allusivi, ora palesi – a temi arcinoti. È il caso di Hallelujah di Leonard Cohen, sottoposto a variazioni e ornamentazioni. Quanto a uno standard frequentatissimo come ‘Round Midnight, Maestro lo affronta in modo disinibito: dapprima, scandendone le cellule; poi, distribuendo cupi accordi sulle ottave basse; infine, imprimendo inusitati sussulti ritmici che lo spingono a uscire da un terreno armonico fin troppo familiare. Comunque sia, l’esempio più illuminante di questo approccio risulta il tema di You and the Night and the Music, camuffato in una lunga sequenza di gusto post-impressionistico, dalla quale riaffiora qua e là sotto forma di frammenti. Parafrasando il titolo dell’ultimo lavoro, «Solo: Miniatures and Tales», si può affermare che nella musica di Maestro si colgono da un lato il gusto per la ricerca del dettaglio, la miniatura appunto; dall’altro, l’amore per la narrazione.
Se proprio si deve muovere un appunto alla brillante esibizione di Maestro, un difetto può essere individuato nel limitato spettro dinamico adottato nella costruzione dei crescendo. Questo accade anche nell’esecuzione della sua When You Stop Seeing, un’accorata preghiera composta una quindicina d’anni fa come esortazione al dialogo israelo-palestinese. Come sottolineato dallo stesso Maestro in sede di presentazione, mai avrebbe potuto immaginare di riproporre questo pezzo in uno scenario di guerra che lui stesso ha definito, con amarezza, inaccettabile e segno di disumanizzazione.
Protagonista del secondo concerto, ambientato sulla spettacolare terrazza del Belvedere di Villa Bardini che domina il centro storico di Firenze, Fergus McCreadie ha offerto una prova generosa e, tutto sommato, convincente. Il 28enne scozzese possiede un linguaggio scorrevole, sostenuto da un’ottima tecnica, e uno stile che compendia l’eredità del pianismo jazz e l’influenza della musica popolare celtica. Quest’ultima si avverte chiaramente in certe melodie evocative, normalmente dalla struttura diatonica, o nell’uso del 6/8, metro distintivo della jig, la danza tradizionale scozzese e irlandese equivalente della giga. McCreadie vi costruisce intorno capienti impianti armonici, possenti contrafforti ritmici e scattanti linee improvvisate, senza peraltro mai perdere di vista l’elemento melodico.
Che si sia impadronito di buona parte del vocabolario jazzistico, lo dimostra anche un’incisiva versione di Eronel di Thelonious Monk, i cui segmenti geometrici e sghembi servono da spunto per l’elaborazione di figure ritmiche sulle ottave basse e di gustose ornamentazioni. L’unico, evidente limite – comunque tipico di molti musicisti delle giovani generazioni – consiste nel lasciare pochissimo spazio a frasi più meditate, a pause espressive e a un efficace rapporto con il silenzio.
Alla soglia dei sessant’anni, Jacky Terrasson – protagonista del concerto conclusivo al Belvedere di Villa Bardini – si colloca di diritto tra le massime espressioni del pianismo jazz contemporaneo. La profonda conoscenza della tradizione, assimilata e interiorizzata, la padronanza assoluta della tastiera, la capacità di coniugare forme diverse nell’ambito di una stessa esecuzione e l’abilità nel controllo delle dinamiche gli consentono di trasformare ogni brano (anche il più apparentemente scontato) in un autentico caleidoscopio di sorprese. Un obiettivo che il pianista franco-americano raggiunge con relativa facilità proprio in virtù della sua duplice matrice culturale.
A proposito di standards in passato oggetto di migliaia di rivisitazioni, vale la pena di citare alcuni esempi. Terrasson spezzetta l’introduzione di Autumn Leaves in frammenti e segmenti, per poi sconfinare in territorio afro-latino grazie a pulsanti figurazioni ritmiche accentuate da un tocco percussivo sferzante. Un approccio riscontrabile anche nel trattamento di La vie en rose, in cui salta dalle ottave basse a quelle alte, alternandole in una sorta di call and response, chiamata e risposta, di matrice palesemente africana. Non è da meno, in tal senso, l’articolato impianto ritmico destinato a Besame mucho. Addirittura, in Caravan – scritto dal trombonista Juan Tizol in collaborazione con Duke Ellington – l’approccio percussivo si sposta sul corpo sonoro ligneo e sulla cordiera del piano, a dimostrazione di una simbiosi anche fisica con lo strumento.
Per contro, in un altro celebre standard come Over the Rainbow Terrasson distilla e centellina le cellule tematiche ricorrendo a pause significative ed efficaci interlocuzioni con il silenzio. Un criterio applicato con successo anche ad un blues di propria composizione, Just a Blues, arricchito da ornamentazioni sanguigne ma anche, in alcune battute vuote, dal semplice battito del piede. L’essenza blues viene estrapolata anche da Misty di Erroll Garner, in cui il pianista varia continuamente le dinamiche utilizzando anche i block chords (le armonizzazioni per blocchi di accordi) tanto cari all’autore.
L’arte di alludere sottilmente, di camuffare e nascondere il tema per poi farlo riemergere, trapela pure dalla versione di You’ve Got a Friend di Carole King, in cui Terrasson produce armonizzazioni capienti anche mediante i block chords, ornamentazioni della linea melodica e martellanti figure ritmiche.
Logico e inevitabile il caloroso apprezzamento del pubblico per una prova di lucida e rara creatività, nonché per il notevole (dato anche il clima torrido) sforzo fisico.
Enzo Boddi
Foto di Luca Segato