L’hip-hop è nato come un sussurro tagliente nelle strade dimenticate di New York, un codice segreto che apparteneva solo a chi ne condivideva la fame, la rabbia, la marginalità. Un linguaggio underground, costruito con casse gracchianti, muri imbrattati e rime improvvisate sui gradini dei palazzi. Era la voce di chi non contava niente, di chi cercava riscatto trasformando il dolore in ritmo e la povertà in arte. Oggi quel linguaggio è diventato la lingua franca del mainstream. Non più grido di resistenza ma colonna sonora di spot pubblicitari, sottofondo da palestra, soundtrack di reality shows. L’hip hop, che un tempo rivendicava identità e libertà, è finito spesso a vendere sneakers e bibite energetiche, ridotto a immagine patinata di sé stesso. È il paradosso di una cultura nata per essere sotterranea, ribelle, e oggi esibita come spettacolo globale: dal linguaggio della strada a quello, troppo spesso, del conformismo più becero. In questo il rap non è diverso dal rock, che dopo aver incendiato generazioni con la sua forza ribelle è diventato esso stesso establishment, simbolo di un’industria che ne ha sterilizzato l’energia sovversiva per trasformarla in patrimonio rassicurante. La parabola è quantomai simile, e come sarebbe andata a finire si era già intuito quando, nel 1986, i Run-DMC vollero associarsi alla popolarissima band di hard rock Aerosmith per una cover hip hop di Walk This Way: ciò che nasce come rottura, spesso finisce come istituzione (o meglio: gli incendiari di un tempo diventano i pompieri di oggi). C’è stato un momento, però, in cui l’hip hop era polvere, sudore e rivolta. Nato nelle strade del Bronx nei primi anni Settanta come trait d’union tra la giovane comunità afro-americana e quelle caraibiche (molti dei più famosi esponenti della cosiddetta Old School avevano origini giamaicane o barbadiane) e Latin, era un codice di sopravvivenza, una cultura che univa danza (breaking), arte visiva (graffiti), parola (MC-ing) e manipolazione creativa del suono (DJ-ing). Non era soltanto musica ma una geografia alternativa dell’emozione, costruita per sottrarsi al silenzio imposto ai quartieri abbandonati, e grazie anche alla massiccia presenza femminile nell’hip hop delle origini: Roxanne Shante, MC Lyte, Queen Latifah, Monie Love, Angie B (ovvero Angie Stone, che prima di trovare il grande successo come diva del neo-soul era stata autrice e vocalist nel gruppo rap di sole donne The Sequence, firmando un brano celeberrimo come Funk You Up, uno dei pezzi più campionati della storia). Col tempo (e gli inevitabili compromessi) è riuscito a conquistare il mondo. Negli anni Novanta il rap di Nas, Tupac Shakur, Biggie Smalls, Snoop Dogg, Dr. Dre, il gangsta del Wu-Tang Clan aveva ancora l’odore dell’asfalto, anche quando vendeva milioni di copie. La cultura stava già diventando industria, ma il messaggio ancora resisteva. Oggi l’hip hop è musica popolare a livello planetario. Travis Scott riempie stadi con scenografie hollywoodiane, Drake domina classifiche e playlist, Kendrick Lamar vince il Pulitzer, segno di una legittimazione culturale un tempo impensabile. Ma dietro il trionfo si nasconde un paradosso: il linguaggio nato per resistere è stato ingabbiato nelle stesse regole del potere che voleva sfidare. Un esempio emblematico di questa contraddizione è Kanye West, rapper a suo modo geniale ma controverso, con un carattere in perenne bilico tra l’innovazione sonora e il culto della celebrità, e che ha dichiarato pubblicamente il suo sostegno a Donald Trump e al movimento MAGA. Kanye ha definito quel gesto una «libertà mentale», un modo per sottrarsi al controllo della società, ma agli occhi di molti fan e osservatori è stato uno strappo radicale: il rapper ribelle trasformato in testimonial di un potere politico che può soltanto essere la contraddizione in termini delle origini dell’hip hop. È il segno di come la cultura possa diventare veicolo di ideologie che tradiscono la sua stessa nascita. L’hip hop ha pagato la sua ascesa con la perdita di gran parte della sua autonomia. La logica dello streaming e delle major impone velocità e quantità: un singolo deve diventare virale in poche ore, un album deve produrre memes e trends, un artista deve essere brand prima ancora che autore. Molti artisti hanno accettato – o abbracciato – questa trasformazione, sviluppando un’estetica del lusso, dell’ostentazione e del personaggio «larger than life» (con felpe da 800 euro e giubbotti jeans da tremila). Da Cardi B a Rick Ross, la narrazione del successo ha sostituito quella della sopravvivenza. Il problema non è la commercializzazione (ogni genere passa, prima o poi, dalle sue forche caudine) ma il fatto che la ribellione sia diventata un’estetica vendibile. La protesta si riduce a slogan per campagne pubblicitarie, il dissenso a hashtags sponsorizzati. Roba da influencer, e «gli influencers» – come dice un simpatico post su Instagram di un fumettista di cui non ricordo il nome – «non esisterebbero senza i deficienters».

Oggi il rap è tecnicamente più raffinato che mai: i beats di Metro Boomin o Hit-Boy sono laboratori di sound design, MC come Kendrick Lamar, J. Cole o Little Simz portano la scrittura a livelli di poesia. Ma la fame di dire qualcosa di nuovo si è trasformata nell’ossessione di restare virali. I social hanno accelerato il ciclo vitale della musica: un brano dura «in trend» poche settimane, poi bisogna sostituirlo. È la logica della musica «veloce», in cui l’arte diventa contenuto e il contenuto diventa rumore. Eppure, nonostante tutto, esiste un’altra scena. Kendrick Lamar, con «To Pimp a Butterfly», «Mr. Morale & The Big Steppers» e «GNX» ha dimostrato che si può fare musica concettuale, politica e complessa dentro il mainstream. Little Simz, indipendente fino al midollo, mescola rap, soul e jazz senza cedere al cliché del rap commerciale. Mick Jenkins e Noname rifiutano le logiche promozionali tradizionali, puntando su testi profondi e circuiti indipendenti, Kota the Friend distribuisce direttamente su Bandcamp e piattaforme alternative mantenendo il controllo creativo del suo prodotto, il collettivo dei Sault sfugge alle regole del mercato, pubblicando album interi in blocco, spesso gratuiti.
E non possiamo dimenticare Kassa Overall con il suo nuovo progetto, «CREAM», un disco in cui il batterista-producer reinterpreta una serie di classici dell’hip hop – da Notorious B.I.G a Wu-Tang Clan, Outkast, A Tribe Called Quest – e un brano seminale della scena jazz (Freedom Jazz Dance di Eddie Harris) trasformandoli in terreno per l’improvvisazione jazzistica da un lato e per la riflessione sonora dall’altro. Non un omaggio nostalgico ma un atto di resistenza che restituisce a quei brani la libertà di cambiare forma, sottraendoli alla serialità del consumo. In un’epoca di format e algoritmi, «CREAM» è un manifesto di creatività fuori gabbia. E in Europa si assiste a qualcosa di simile: in Francia Gaël Faye fonde rap, poesia e memoria coloniale, in Italia artisti come Claver Gold o Murubutu (non Geolier o Clementino o qualsiasi altro rapper sponsorizzato dalla televisione di Stato) lavorano su concept-albums narrativi, ben lontani dalle playlist radiofoniche. La fuga dalla gabbia non passa per un ritorno nostalgico al passato – nessuno pensa di voler ritornare al Bronx del 1978 – ma per la ricostruzione di spazi autonomi.
Questo significa: etichette indipendenti vere, reali, non sussidiarie delle major, distribuzione diretta (Bandcamp, vinile, concerti autogestiti), collaborazioni interdisciplinari (teatro, arti visive, attivismo), per riportare l’hip hop alla sua dimensione culturale più autentica e infine un’educazione culturale del pubblico per ricostruire un ascolto critico e consapevole. Perché l’hip hop è nato come linguaggio della sopravvivenza e può rinascere come linguaggio della complessità. Ma per farlo deve ascoltare le periferie del mondo: Lagos, Nairobi, Marsiglia, Napoli, San Paolo. Perché la domanda oggi non è «chi ha il flow migliore?» ma «chi ha ancora qualcosa da dire?». E la risposta, se ci guardiamo intorno, c’è già. Solo che dobbiamo imparare ad ascoltarla lontano dai riflettori, dalle felpe di Palm Angels e dai giubbini di Yves Saint Laurent.