Ottantacinque anni e settant’anni di musica portati alla grande, tra Miles Davis, funk, sintetizzatori e filosofia buddista. Gli parli e ti rendi conto di trovarti di fronte a una mente libera in costante mutazione. Chi ha scritto che Herbie Hancock si è via via convertito a un funk commerciale che ha ben poco a che fare con il jazz, non ha capito nulla. E non solo di Hancock: non ha capito che lo spirito primigenio del jazz, e più in generale della Black music, è la contaminazione. E l’apertura mentale. Il grande pianista lo ha dimostrato da sempre, sin da quando – aveva undici anni – si esibì con la Chicago Symphony Orchestra per eseguire il primo movimento del Concerto K 537 di Mozart.
I suoi dischi Blue Note degli anni Sessanta – «Empyrean Isles» «Maiden Voyage», per citare solo i più famosi – sono autentici capolavori dell’idioma afro-americano. Hancock fa parte di quei (non pochi) musicisti che hanno raggiunto fama imperitura per essere stati scelti e, per certi versi, plasmati da Miles Davis. Il sestetto che, dopo aver lasciato Davis, diresse dal 1971 al 1973 (Mwandishi, con Eddie Henderson alla tromba, Julian Priester al trombone, Bennie Maupin alle ance, Buster Williams al basso e Billy Hart alla batteria) offrì una delle più interessanti soluzioni del cosiddetto jazz elettrico. Che Herbie fosse rimasto un jazzista anche durante gli anni della sua produzione funk lo si comprese quando, nella seconda metà degli anni Settanta, guidò il gruppo V.S.O.P. con Freddie Hubbard, Wayne Shorter, Tony Williams e Ron Carter (in pratica il quintetto di Davis 1964-1967 senza il suo leader). E la cosa divenne ancora più evidente quando, nel 1978, Hancock iniziò a esibirsi con Chick Corea in un format per due pianoforti: un avvenimento di portata planetaria, organizzato anche per quel pubblico che all’epoca avrebbe disertato un concerto completamente acustico e che invece fu attratto dai nomi di quei due pianisti, celeberrimi in quel periodo per le loro incisioni elettriche. Da allora Herbie Hancock si è diviso, con successo, tra l’ambito acustico e quello elettronico, come Dr. Jekyll e Mr. Hyde, sviluppando uno stile inconfondibile in entrambi i campi. Nel 1983, per esempio, scalò le classifiche mondiali con Rockit, l’ormai leggendario brano contenuto sul disco «Future Shock», le cui basi ritmiche erano state ideate dai Material, ovvero il bassista e produttore Bill Laswell e il tastierista Michael Beinhorn. Rockit, tra i brani strumentali di maggior successo della musica degli anni ottanta condizionò non poco la definitiva ascesa dell’hip hop e del suo versante techno. Tre anni dopo, nel 1986, Hancock vinse il premio Oscar per la colonna sonora del film di Bertrand Tavernier ’Round Midnight recuperando la sua dimensione jazz più ortodossa. Ci troviamo quindi davanti a un artista che ha imparato a esprimersi usando i più disparati linguaggi musicali, come forse nessun altro pianista prima di lui ha saputo fare. Oltre a essere stato uno tra gli autentici pionieri delle tastiere elettroniche, sulle quali stato il primo a dare forma a tessuti sonori che si incastrano con una tale potenza e raffinatezza da forgiare ritmi e grooves sino ad allora inauditi, Hancock si è rivelato, da questo punto di vista, uno dei musicisti più influente degli anni Settanta, grazie a una concezione così aperta dello spettro sonoro da influenzare anche nuovi generi di musica elettronica come la techno, il drum’n’bass e il cosiddetto nu jazz.
A sette anni Hancock, nato a Chicago, iniziò a studiare pianoforte classico. Frequentò poi il Grinnell College nello Iowa, e finì per innamorarsi del jazz: i suoi idoli si chiamavano Bill Evans e Oscar Peterson. Dopo aver deciso di intraprendere la professione del musicista, fu notato da Donald Byrd che lo fece entrare nel suo gruppo e, grazie alla visibilità datagli dall’allora popolare trombettista, firmò un contratto con la Blue Note, per la quale già incideva Byrd. Nel 1962, quindi, Hancock esordì come leader con «Takin’ Off», disco che conteneva quella Watermelon Man resa di lì a breve un successo internazionale dalla versione di Mongo Santamaría. Dopo un anno Miles Davis lo chiamò a far parte del suo secondo quintetto, insieme a Wayne Shorter, Ron Carter e Tony Williams. Quel gruppo fu un punto di svolta per il jazz post-bop. Furono incisi dischi epocali come «E.S.P.» (1965), «Miles Smiles» (1967), «Nefertiti» (1968), «Filles de Kilimanjaro» (1968). Verso la fine degli anni sessanta quel quintetto entrò in una fase di transizione: Miles cominciava a spingere verso una musica più elettrica e sperimentale – quella che poi sfocerà in «In A Silent Way» e «Bitches Brew» mentre Herbie era sempre più impegnato in progetti solistici. In più, nel 1968, il pianista si prese una breve pausa dal lavoro per andare in luna di miele in Brasile, con l’idea che si sarebbe trattato di una breve assenza. Quando tornò scoprì che Miles lo aveva sostituito con Chick Corea e allora lasciò il quintetto. Ma non ci fu rancore, era semplicemente che Miles era sempre in movimento e chi non riusciva a stargli dietro veniva lasciato al suo destino. Ma rimasero in buoni rapporti e Hancock ha sempre mantenuto un grande rispetto per Miles, definendolo un mentore fondamentale.
Lasciato il quintetto di Miles iniziò un periodo fondamentale per la sua maturazione artistica e per il prosieguo della sua avventura musicale. Si immerse nella sperimentazione elettronica e, nel 1970, mentre si trovava in studio per registrare «Crossings» con il sestetto Mwandishi venne presentato a Pat Gleeson, che gli mostrò il suo primo sintetizzatore. Ultimò la realizzazione dell’album e si trasferì a Los Angeles mettendosi alla ricerca di musicisti che fossero in grado di produrre una musica che supportasse la sua nuova passione per il sintetizzatore. Aveva in testa il suono di James Brown e di Sly Stone e voleva riprodurlo, però in una maniera leggermente diversa, più jazz. Voleva mettere il jazz nel funk e il funk nel jazz reclutando dei musicisti che sapessero farlo. Li trovò: erano Paul Jackson al basso, Bill Summers alle percussioni, Bennie Maupin (che aveva preso parte alle registrazioni di «Bitches Brew») al sassofono e al clarinetto basso, Harvey Mason alla batteria (che di lì a poco sarebbe stato sostituito da Mike Clark). Nacquero gli Headhunters che in seguito sarebbero stati arricchiti dalla presenza del chitarrista Dewayne «Blackbird» McKnight, un improvvisatore molto dotato la cui chitarra era in grado di diventare uno strumento elettronico a tutto tondo. Nel 1977 il chitarrista avrebbe preso a collaborare con i Parliament/Funkadelic di George Clinton.
L’ album di debutto del nuovo gruppo si intitolò «Headhunters» e cambiò improvvisamente il volto del jazz. Fu in particolare il brano d’apertura, Chameleon, a rappresentare il punto di svolta. Dura quindici minuti ed è caratterizzato da un martellante giro di basso (eseguito con il sintetizzatore) che, messo in sequenza, si ripete automaticamente per tutta la sua durata. Bennie Maupin suona frasi à la James Brown e il brano sfuma (dopo quindici minuti) su un assolo dello stesso Maupin supportato dal synth di Hancock. Il secondo brano è Watermelon Man ma in una versione diversa da quella contenuta in «Takin’ Off»: qui Bill Summers apre suonando uno strumento africano particolare, lo hindewhu, un tipo di flauto dal timbro acuto associato di solito ai Pigmei della tribù Ba-Benzelé che si trova nella parte occidentale della Repubblica Centrafricana e nel Congo nord-occidentale. In dissolvenza parte un andamento blueseggiante in cui Hancock usa il clavinet ad imitazione della chitarra. Il terzo brano (che poi è il primo della seconda facciata del vinile) si intitola Sly ed è un’evidente dedica a Sly Stone. «Headhunters» fu pubblicato nel gennaio del 1974 e ottenne un successo strepitoso. Da quel momento i giovani tastieristi americani di jazz abbandonarono il pianoforte acustico e si dedicarono all’approfondimento del Fender Rhodes o del clavinet. Il suono del sintetizzatore divenne la caratteristica principale di tutta la dance music dell’epoca. I puristi restarono scandalizzati. Herbie continuò imperterrito a percorrere la sua strada. Del resto cosa si pretendeva da uno che comunque percorreva nello stesso tempo la strada parallela del jazz acustico senza perdere mai un colpo dal punto di vista della creatività? Semplicemente Hancock stava precorrendo i tempi: si susseguirono in sequenza «Thrust» (1974), «Man-Child» (1975), «Secrets» (1976). Chameleon divenne un must nelle aperture delle scalette dei dj dell’epoca e venne ristampato su dodici pollici nel 1984, un anno dopo in cui venne pubblicato nello stesso formato Rockit, un misto di elettronica, hip hop (in quel periodo quel brano fu insieme a The Message di Grandmaster Flash & the Furious Five, il manifesto della musica del ghetto), scratch e campionamenti. Il videoclip di Rockit divenne un’icona di MTV. Herbie era perfettamente «dentro» il mood del funk. Il brano di apertura di «Man-Child», Hang Up Your Hang Ups, divenne il loop centrale di 100 Miles and Runnin’ degli N.W.A., nel 1992, in piena epoca gangsta-rap.
Herbie Hancock ha ammesso pubblicamente di aver fatto uso di crack per un certo periodo della sua vita, a cavallo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, e fu proprio in quel periodo che si convertì al buddismo di Nichiren Daishonin aderendo alla SGI (Soka Gakkai International). Questo probabilmente contribuì alla sua disintossicazione, e lui oggi lo considera parte di un percorso di crescita personale e spirituale. Nella seconda metà degli anni ottanta collaborò con Foday Musa Suso, famoso griot del Gambia e grande maestro della kora: con lui ha inciso «Village Life» nel 1985 che produsse insieme a Bill Laswell, un bassista di New York molto attivo in quegli anni – qualcuno di voi si ricorda dei Material e dei Golden Palominos? – e «Jazz Africa» registrato dal vivo al Wiltern Theatre di Los Angeles nel 1986 con un ensemble che includeva Armando Peraza alle percussioni e Hamid Drake alla batteria. Foday Musa Suso è morto pochi giorni fa, il 25 maggio, in Gambia. Aveva 75 anni e ha lasciato un’eredità musicale significativa.
In tempi recenti Hancock ha collaborato con artisti pop e rock, con Carlos Santana (andatevi a vedere il dvd di Hymns for Peace, un progetto speciale del Festival di Montreux del 2004 con Carlos Santana che raccoglieva intorno a sé sul palco personaggi come Wayne Shorter, Ravi Coltrane, Chick Corea tra gli altri, sentite gli assolo di Herbie Hancock, totalmente fuori dalla struttura ma così musicali e coinvolgenti), ha inciso «River: The Joni Letters» nel 2007, omaggio a Joni Mitchell che gli fece vincere il Grammy come album dell’anno, ha fondato nel 2011 l’International Jazz Day che si festeggia il 30 aprile di ogni anno dal 2012, ha reso il jazz danza, esperienza sonora, laboratorio futurista, ha lavorato con nuove stelle (e suoi discepoli) come Terrace Martin e Robert Glasper dimostrando di essere sempre sulla cresta dell’onda, riceve in continuazione premi e riconoscimenti (gli è appena stato conferito il Polar Music Prize, praticamente il Nobel della musica), ha pubblicato un’autobiografia nel 2014, Possibilities, (edita in Italia da Minimum Fax), titolo indicativo della sua apertura mentale, è il presidente del Thelonious Monk Institute di Los Angeles (che oggi si chiama Herbie Hancock Institute of Jazz). A luglio sarà in Italia per un piccolo tour (il 13 a Perugia, il 14 a Roma all’Auditorium Parco della Musica, il 16 a Udine, il 18 a Bergamo e il 21 a Napoli): con lui Terence Blanchard alla tromba, alla chitarra Lionel Loueke, al contrabbasso James Genus, alla batteria Jaylen Petinaud.
A pag 240 della sua autobiografia si legge: «Alla fine degli anni Settanta io e Stevie Wonder avevamo una specie di piccola competizione. Non appena vedevamo il prototipo di un nuovo sintetizzatore dicevamo al produttore: “Te ne compro due se mi dai il n. 1”». Un bambino con gli occhi rivolti al cielo.

Lei ha attraversato generazioni di jazz e sperimentazione. Qual è il suo segreto per mantenere viva la sua curiosità?
Sono una persona curiosa. Assolutamente. Lo sono sempre stato, fin da bambino. La curiosità fa parte del mio codice genetico, è il meccanismo che ha regolato in qualche modo la base della mia vita. Quindi non ho segreti. È solo il mio modo di essere.
La sua autobiografia, «Possibilities», inizia con queste parole: «Stoccolma, metà anni Sessanta, sul palco con il Miles Davis Quintet». Questa è una domanda consueta immagino per lei, ma cosa ha imparato da Miles, al di là della musica?
Ricordo molto bene quel concerto. Suonai una nota completamente sbagliata, mi preoccupai moltissimo di quell’errore, pensai di aver rovinato tutto, era un concerto molto importante. Se non sbaglio stavamo suonando So What? Era il momento in cui il pezzo sale musicalmente. Guardai Miles con terrore, ma lui non si scompose, iniziò a suonare alcune note che di colpo resero la mia nota giusta. Fu un errore reso musicale da Miles. Tutte le note che prese a suonare dopo fecero funzionare anche la mia. Ero sotto shock, non compresi immediatamente cosa fece, ci ho messo anni per capirlo, ma il fatto è che Miles non percepì quella nota come un errore, sentì semplicemente che era accaduto qualcosa e rispose a tono facendo funzionare una situazione in cui un altro sarebbe probabilmente andato nel panico. Da quel momento ho pensato «è questo quello che voglio fare, voglio sempre riuscire a far funzionare le cose». Praticando il buddismo di Nichiren Daishonin ho imparato davvero tanto sulla capacità che tutti abbiamo nel far funzionare le cose a prescindere dalla situazione in cui ci troviamo. Probabilmente è stata la più grande lezione e anche il più grande incoraggiamento che Miles mi ha dato.
Come è nato Chameleon? Sapeva che stava scrivendo un pezzo che sarebbe diventato un classico?
Ovviamente no. Non avevo assolutamente nessuna idea del destino di quel pezzo. Come avrei potuto immaginare il successo che ebbe quel brano? Era una cosa nuova, diversa da quello che veniva inciso fino ad allora.
Cosa significa per lei oggi il concetto di «innovazione» nella musica?
Oggi accadono molte cose. Nella tecnologia innanzitutto, viviamo in un’epoca dominata dalla tecnologia. Un’epoca dura di solito molti anni, anche un secolo, ma io credo che il mondo tecnologico così come si sta delineando ai nostri occhi durerà molto di più. Duecento, trecento anni, chissà! Va’ a saperlo.
Saprà certo che pochi giorni fa è scomparso Foday Musa Suso. Che ricordo ha di lui?
Per me è stato molto bello lavorare con lui. Era un musicista di talento che mi ha anche raccontato tante storie interessanti – era un griot – sulla sua tribù. La sua era una famiglia che davvero si interessava delle persone che la circondavano, dei propri cari. Ho avuto anche la possibilità di conoscere la sua città di origine in Gambia, anche se lui si era trasferito negli Stati Uniti. Il nostro incontro fu un po’ strano: un giorno – stavo lavorando attorno ad un progetto che riguardava il Muppet Show – mi accorsi di questa persona che stava correndo verso di me, lo riconobbi, ci abbracciammo. In quella occasione, parlo del Muppet Show, lui mi aiutò tantissimo.
Lei è stato tra i primi jazzisti ad abbracciare il sintetizzatore e la tecnologia. Oggi che rapporto ha con il digitale?
Come posso rispondere? È una delle cose che mi tengono sveglio la notte. Mi attira tutto quello che è novità, nuovi strumenti che compro in continuazione per imparare ad utilizzarli. Oggi siamo sopraffatti dalle novità e io non sono certo il tipo che se ne sta lì fermo a guardare. Fossi matto! Ci sono così tante cose interessanti da imparare. Sono costantemente in modalità di apprendimento. Questo mi rende felice e contento, ma anche perennemente su di giri. Le novità mi fanno scorrere il sangue più in fretta. Mi sento un ragazzaccio sempre alla ricerca di qualcosa da scoprire, anche se la mia età dice il contrario. Mi definirei un vecchio discolo, ecco.
In «Possibilities», il suo disco del 2005, lei ha collaborato con molti artisti del pop e del rock. Cosa cerca in una collaborazione al di fuori del mondo del jazz?
In realtà sono sempre alla ricerca di musicisti con i quali non ho mai lavorato, diciamo con persone con le quali uno come me non verrebbe di solito accomunato. Questo per me rappresenta uno stimolo e mi dà la possibilità di provare delle nuove emozioni. Mi raffiguro un puzzle che devo capire come far funzionare. E considero questa mia tendenza qualcosa di molto forte, di trainante.
Il Buddismo ha avuto un ruolo importante nella sua vita. Come ha influenzato la sua musica?
Sai, il Buddismo non ha influenzato la mia musica ma ha cambiato la mia vita, il modo in cui guardo a me stesso, in cui mi definisco. Prima di incontrare Budda ero solito presentarmi alla gente come un musicista, oggi mi presento come un essere umano. Certo, faccio musica, continuo a farla e continuerò a farla, ma non faccio quello che sono. Io sono un essere umano come tutti gli altri. Capisci bene che in questo modo c’è una differenza di approccio nella quotidianità.
Se potesse tornare a parlare con il giovane Herbie, quello che ha registrato «Maiden Voyage» e che ha composto Watermelon Man, cosa gli direbbe?
Ah, ah, ah! Per favore, continua ad esplorare, continua ad imparare, non smettere mai di farlo, non smettere mai di fare domande e neanche di provare cose nuove, E, soprattutto, non avere paura… E un’ultima cosa: non ti arrendere. Mai. È molto importante.
Nella sua autobiografia, Possibilities, c’è scritto: «Improvvisare significa esplorare ciò che non sai. È un obiettivo al quale continuo a lavorare ogni giorno: imparare a togliermi di mezzo». Nell’epoca dell’intelligenza artificiale e della musica generata dai computer, che posto ha ancora l’improvvisazione umana?
Penso che la capacità di improvvisare per un essere umano sia un grandissimo valore. Forse in futuro avremo delle band che saranno composte da esseri umani e da robot o da androidi. Chissà! Però una cosa la voglio dire: arriverà il momento in cui noi umani potremo comunicare con gli animali e forse ci saranno delle band composte da esseri umani e da animali. Chi può dirlo? Non so che tipo di strumento potrebbe suonare un animale… Ci sono così tante possibili connessioni che non possiamo al momento, secondo me, neanche immaginare. Di certo non mi sorprendo di nulla
Qual è il consiglio più importante che darebbe oggi a un giovane musicista che vuole trovare la propria voce?
Sii te stesso, perché la competizione è con te stesso, con nessun altro. Possiamo imparare reciprocamente, uno dall’altro e dovremmo apprezzarci uno con l’altro. Quello che voglio dire è che rapportarsi a sé stesso non significa chiudersi al mondo, semplicemente avere consapevolezza di sé ma sempre rapportandosi agli altri, al mondo esterno. Credo che siamo tutti parte di un’unica grande famiglia, quella degli esseri viventi. Prevedere quello che ci riserva il futuro è difficile ma io mi aspetto solo cose buone.
Lei è una persona famosa e immagino abbia molti amici e conoscenti. Ma io so che ha avuto due grandi amici nella vita, Miles Davis e Wayne Shorter. Chi dei due ha avuto una maggiore influenza su di lei?
Ma come faccio a rispondere a questa domanda? Da ciascuno dei due ho imparato qualcosa. Entrambi hanno fatto, a loro modo, delle cose molto importanti e ritengo di essere stato molto fortunato ad aver avuto la possibilità di essere un loro amico.
Lei non incide dischi da parecchio tempo. Ha in programma di inciderne uno nel prossimo futuro?
Ci sto pensando. Mi capita di avere del materiale su cui lavorare, poi lo riascolto e non mi piace più, così lo metto da parte e dopo un po’, lo riprendo in mano. L’unica certezza è che ho sempre delle idee. Non preoccuparti, ci saranno sicuramente altri dischi da pubblicare nella mia vita. Non so se quest’anno o l’anno prossimo o tra tre anni. Non saprei proprio dirlo, forse da qui a tre anni, chissà.
Ma ha già pensato a un titolo?
Fammi prima scrivere la musica! Però, in effetti, partire da un titolo potrebbe servirmi da stimolo per costruirci sopra della musica. Non resta che stare a vedere cosa accadrà in futuro, perché non lo so neanche io…