Elio Martusciello: «AKOUSMA MOTHER-Umbilical cord»

La pubblicazione del nuovo album, registrato e suonato con Ossatura, ci ha offerto l’occasione per compiere con Elio Martusciello un’ampia e profonda riflessione sul suono e sulla musica

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(Versione integrale dell’intervista pubblicata sul numero di ottobre 2024 della nostra rivista)

Elio, qual è la tua storia?
Nella mia famiglia nessuno amava particolarmente la musica. Per un periodo ricordo che misero la filodiffusione, ma serviva solo come innocuo sottofondo. In casa c’era un mobile giradischi a radio (si portavano molto negli anni Sessanta), ma se mio padre lo usava per ascoltare qualche radiogiornale, mia sorella invece ci metteva le sue pile di 45 giri, per le feste da ballo con gli amici. Devo dire che tra quei 45 giri già qualcosa colpiva un po’ le mie orecchie e la mia immaginazione: Paranoid dei Black Sabbath, A Whiter Shade Of Pale dei Procol Harum, World dei Bee Gees, Non è Francesca di Lucio Battisti, Venus dei Shocking Blue, Something dei Beatles, Samba Pa Ti di Santana. Proprio quest’ultimo brano, che probabilmente già uno o due anni dopo suonavo con la mia Eko Rokes, produsse in me l’interesse per la chitarra. Per non parlare poi dell’intero repertorio di Lucio Battisti, che suonavo regolarmente sulla mia chitarra acustica. Qualche tempo dopo alcuni amici mi fecero conoscere i Pink Floyd (era appena uscito un disco in realtà pochissimo conosciuto: «The Dark Side Of The Moon»), i Genesis, gli Yes, i Gong, i Led Zeppelin. Insomma, la mia vita cambiò radicalmente e la musica divenne una passione travolgente. Suonavo regolarmente con diversi gruppi, e si faceva improvvisazione: notturne jam-session di musica rock (lo spirito era quello di Woodstock, con pubblico, falò, marijuana e vino) in quello che era un esteso spazio verde dove poi negli anni Ottanta è sorto il Centro Direzionale di Napoli. Già verso la fine degli anni Settanta, però, mi ero imbattuto – e ascoltavo molto intensamente – in Tangerine Dream, Klaus Schulze, Popol Vuh, Ash Ra Tempel, scoprendo così il mio lato più contemplativo, meditativo. Col mio telescopio amavo osservare costellazioni, pianeti, galassie, nebulose. Anche la mia strumentazione si era ampliata: avevo altri strumenti acustici, tastiere, sintetizzatori e registratori, anche un multitraccia a bobine. Potevo finalmente sovraincidere e realizzare le mie composizioni in piena autonomia. A quel tempo il mio interesse si spostò molto in direzione della composizione, che realizzavo usando tutto il mio strumentario, un po’ alla maniera di Mike Oldfield. Esattamente nel 1978 realizzai quello che potremmo considerare il mio primo album, composto di diversi brani pensati in un tutto coerente tra loro e che si intitolava «Betelgeuse». Una radio napoletana trasmise anche il brano che dava il titolo all’album, ma ovviamente non fu mai pubblicato e rimase solo un ingenuo sogno nel cassetto. Fatto sta che nonostante i tanti strumenti che possedevo, quello era un album di pura musica elettronica realizzato quasi interamente col mio sintetizzatore Korg MS10. Quindi, anche l’interesse per «il suono per il suono» evidentemente si faceva strada nella mia sensibilità. Rimane il fatto che non prendevo assolutamente in considerazione di studiare metodicamente quelle cose, intendo la musica, forse deluso dal fatto che anni prima i miei genitori avevano provato ad iscrivermi al Conservatorio di Napoli, cioè quando avevano notato il mio interesse per la chitarra, quando avevo circa 11 o 12 anni, ma non fui ammesso. Per una decina di anni continuai così, considerando la mia stanza come un laboratorio dove sperimentare da solo le cose che mi servivano per inseguire le mie fantasie musicali. Solo a partire dalla fine degli anni Ottanta iniziai a propormi in dei festival di musica contemporanea e a partecipare a concorsi di musica elettroacustica. Le cose funzionarono, e tra vittorie e premiazioni in importanti concorsi, commissioni in centri di ricerca, iniziai a credere alla possibilità di vivere di musica. A tutto ciò si aggiunse presto anche l’esperienza di Ossatura, la possibilità di un confronto costante con altre persone musicalmente preparatissime, intellettualmente brillanti come Luca Venitucci e Fabrizio Spera. Si mise in moto in me un evidente processo di crescita, di evoluzione, tutte cose che furono senza dubbio fondamentali anche per il mio accesso al ruolo di docente in conservatorio.

Quanto peso hanno avuto, nella tua formazione, i tuoi ascolti e le tue passioni?
Tantissimo! Credo che l’ascolto e la curiosità per la musica in tutte le sue espressioni sia decisiva. Lo verifico da anni nel contesto didattico, c’è una proporzionalità quasi esatta tra cose ascoltate e capacità di pensiero musicale. In seconda battuta anche esperienze esterne allo specifico musicale possono avere ricadute importanti. Nel mio caso il senso della forma, delle proporzioni che ho sperimentato grazie alla mia seconda passione per le arti visive, ambito che ho anche studiato accademicamente, credo siano state estremamente utili. Se introiettiamo il senso del bello, della proporzione, dell’equilibrio, del ritmo, grazie a un qualsiasi tipo di esperienza, allora credo che esse possano irradiarsi agevolmente in qualsiasi altro campo si decida di operare. Certo, poi è necessario studiare e conoscere le logiche esatte che operano in quello specifico ambito. Direi di più: in una maniera più misteriosa e inafferrabile anche tutti quegli incidenti e limiti contro i quali ci siamo anche scontrati, perché in contrasto con le cose che desideravamo inseguire e fare, alla fine forgiano il nostro essere, smuovono la nostra anima, producendo in noi quell’incontro con un’alterità che diversamente forse non avremmo mai incrociato sulla nostra strada. Lo penso spesso ad esempio relativamente alla mia mancata ammissione in conservatorio: se fossi riuscito ad entrare, lo avrei fatto certamente in relazione alla chitarra e quindi con una certa probabilità oggi conoscerei bene la musica, la saprei leggere, avrei una tecnica adeguata per suonare la chitarra (immagino classica), ma che fine avrebbe fatto questo me di oggi? Forse sarei una persona migliore o peggiore, questo non lo so (anche se ho delle bizzarre teorie in proposito), ma di sicuro sarei una persona diversa.

Puoi raccontarci di Ossatura, di come vi siete formati e di come avete stabilito le vostre coordinate artistiche?
Era il 1992 e da Napoli mi ero trasferito a Roma perché pensavo che la città mi avrebbe dato più opportunità. Anche perché a Roma qualche anno prima si era trasferito mio cugino Maurizio, che già aveva trovato un certo terreno fertile, anche se in un ambito più jazzistico (lui a quel tempo suonava la batteria). A Roma girava anche un altro mio compaesano che già mi era stato tanto utile a Napoli in termini di stimoli musicali. Si tratta di Nicola Catalano che tutti conoscono circa il suo superlativo lavoro di proposta musicale che fa in RAI, ma che a Napoli tramite DEMOS mi aveva fatto conoscere gente come Coil, Asmus Thietchens, Nurse With Wound, Ralf Wehowsky, Roel Meelkop, Bernard Gunter, The Hafler Trio, e che appena arrivato a Roma mi presentò Fabrizio Spera. Intanto io già avevo messo su con mio cugino il duo «Martusciello». Io suonavo la chitarra elettrica con l’aggiunta di un trasduttore midi per il controllo di due campionatori, usavo anche dei lettori a cassette, mentre Maurizio usava una batteria espansa un po’ alla maniera di Tony Oxley. Un duo che aveva riscosso un certo interesse al mitico festival Controindicazioni di Mario Schiano (anche lui napoletano e con il quale successivamente formammo il Trio di Napoli). Quel duo aveva già anche pubblicato il suo primo album «Meta-harmonies» per l’etichetta olandese Staalplaat (anche questo un contatto di Nicola Catalano). Proprio alla fine del nostro concerto di Controindicazioni salirono sul palco Fabrizio e Luca Venitucci, che già collaboravano, proponendoci di formare tutti assieme un nuovo gruppo che di lì a poco, su proposta di Fabrizio, si sarebbe chiamato Ossatura. In realtà, circa lo stabilire le nostre coordinate artistiche faccio un po’ di fatica a ricostruirle, perché si è trattato di un processo in continuo divenire forgiato da lunghissime discussioni, spesso fatte a tavola o frutto di accese riflessioni post concerto. Chiaramente i punti fermi che non abbiamo neanche mai dovuto formulare sul piano del linguaggio, della comunicazione tra noi, sono la ricerca, la sperimentazione, la pratica radicale dell’improvvisazione, l’attenzione per le qualità spettromorfologiche del suono. Un contributo per me fondamentale è stata la vastissima conoscenza musicale che Luca e Fabrizio mi hanno messo a disposizione, fornendomi tantissimi consigli sui dischi da ascoltare a partire da qualsiasi ambito dello scibile musicale: ZGA, Umm Kulthum, Wolfgang Fuchs, Robert Wyatt, Carlos Chavez, Peter Kowald, David Toop, Juan Garcia Esquivel, Yannis Kyriakides, Iancu Dumitrescu, Radian e infiniti altri.

Come si pongono in confluenza pratiche improvvisative, più o meno radicali, e musica concreta?
Apparentemente sembrano due esperienze musicali agli antipodi, incompatibili fra loro. La Musica Concreta è una musica fissata su un supporto, quindi riproponibile all’infinito, sempre uguale a se stessa. Si tratta di una musica riproducibile solo tecnologicamente e impossibile da suonare, quindi esattamente l’opposto della musica improvvisata che opera in tempo reale, suonata in maniera estemporanea e che non può mai essere riproposta uguale a se stessa. Però, andando più a fondo alla questione si scopre un punto di contatto molto più foriero di potenzialità che non il contrario. Sia il compositore di Musica Concreta che l’improvvisatore non sono disposti a consegnare ad una terza persona (quella che solitamente chiamiamo «esecutore») la possibilità di esprimere il loro pensiero musicale attraverso il suono. Entrambi trovano necessario prendersi la responsabilità assoluta della produzione sonora concreta, non di una idea astratta, un po’ vaga di suono, ma esattamente quel suono preciso, così concretamente emesso. Questo, il suono «concretamente», è esattamente l’epicentro di questa straordinaria convergenza. L’improvvisatore, scoperto questo suo originario interesse per il suono lo espande grazie a delle tecniche estese. In questo modo approfondisce le ulteriori potenzialità che emergono nell’emettere suoni ancora più peculiari, espandendo così la propria tavolozza espressiva. In un certo senso note e ritmo sembrano ricondurre l’emissione sonora su criteri più formalizzati e standard, riconducibili alle qualità di ogni specifico strumento. Ipoteticamente, se uno strumentista fosse capace di eseguire perfettamente una sequenza di note esattamente così come scritte su una partitura particolarmente ricca di informazioni di espressione, finirebbe col somigliare a qualsiasi altro esecutore. Viceversa, più la sua ricerca implementa modi e tecniche di emissioni inedite, più emerge un proprio modo di interpretarle sul piano sonoro, più le sue qualità individuali emergeranno. Questo in definitiva significa avere uno spettro più ampio di espressività personale. Insomma, sostengo che la grammatica musicale tradizionale lasci meno spazio all’emersione del carattere personale rispetto alle qualità timbriche. Ad esempio, anche due semplicissime canzoni di autori diversi suonate con lo stesso strumento dallo stesso strumentista, rendono più difficile (intendo per un ascoltatore non musicalmente colto) riconoscere l’identità degli autori rispetto al sentirli cantare e suonare il proprio strumento (ad esempio David Bowie vs Robert Wyatt). Certo, se un brano è Rock o Jazz si percepisce immediatamente la differenza anche dalla sola grammatica musicale, ma è da considerare anche il notevole contributo timbrico dato dalle specifiche formazioni strumentali, ad esempio sax, pianoforte, contrabbasso e batteria per il jazz o voce, chitarra elettrica distorta, basso elettrico e batteria per il rock. Dicevo, al contrario, che il compositore di Musica Concreta chiuso nel proprio studio in un percorso solitario, scopre la possibilità di conversare musicalmente con altri musicisti in un contesto performativo a lui precedentemente precluso. Scopre che può passare da un tempo talvolta un po’ rigido misurato in minuti e secondi, da schematiche tacche e numeri presenti sul proprio editor musicale a un tempo vivo, a quello che Bergson chiama la «durata», che sente col corpo e del quale può finalmente fare una più profonda esperienza spirituale. Approfondisce le potenzialità tecniche che ha di operare con dei suoni estremamente complessi, sganciati dalle proprie fonti originarie, che può modellare in infiniti modi grazie alle tecnologie in tempo reale. Capisce che la pratica improvvisativa non è per nulla incompatibile col suo desiderio di esprimersi attraverso la propria e singolare produzione sonora.

Puoi spiegare meglio ai lettori in cosa consiste la composizione elettro-acustica basata su materiali concreti?
Ci provo, ma la questione è piuttosto lunga e richiede la rimozione di qualche ostacolo di natura culturale e perfino linguistica che investe questa specifica arte. Inizierei col dire che parlare di materiali concreti rischia di produrre notevoli fraintendimenti, perché la Musica Concreta col termine «concreto» non si riferisce ai materiali, bensì all’attività compositiva. Infatti, nella tradizione musicale occidentale l’attività del comporre richiede due tempi diversi. La prima viene definita di natura astratta, cioè il compositore pensa la sua musica e magari la scrive su una partitura in vista di una possibile esecuzione. Quindi, la musica in questa fase ancora non esiste concretamente se non, più o meno vagamente, nella mente del compositore o come una serie di segni impressi su dei fogli di carta pentagrammata. Solo in una successiva fase, in un secondo tempo, un’orchestra esegue concretamente quella composizione. Insomma, una serie di strumentisti emettono concretamente dei suoni che le orecchie degli ascoltatori possono fisicamente apprezzare. La musica, l’arte dei suoni, prima di questa seconda fase di fatto è tutto tranne che un’arte dei suoni, essa è al limite molto più vicina ad un oggetto da contemplare visivamente. Fatta questa premessa è facile comprendere che le tecnologie musicali hanno consentito di superare questa logica astratta del comporre musica, infatti hanno permesso ai compositori elettroacustici di operare direttamente sul suono così come uno scultore o un pittore opera sulla propria materia. Cioè, di farlo senza dover attendere un secondo tempo esecutivo, cosa che infatti non ha senso per uno scultore o un pittore. La stessa cosa vale esattamente anche per un produttore di musica techno, house o drum’n’bass. L’opera, per così dire, esce direttamente dalle proprie mani. Rispetto a questo inedito capitolo della storia della musica Michel Chion asserisce che nessuna arte tradizionale è stata così potentemente trasformata dall’uso delle tecnologie. Di questa rivoluzione il registratore è il dispositivo fondativo. Grazie ad esso il suono da fenomeno immateriale, transitorio, ineffabile si è trasformato in un oggetto sonoro da cui si ricava un’impronta concreta, che è possibile ascoltare e riascoltare tutte le volte che lo si vuole. Il suono viene così fissato, fermato, impresso su un supporto esattamente così come si può fare con un fulmine grazie alla fotografia. Questa qualità fenomenologica è sicuramente una delle componenti che ha contribuito a far credere che la parola «concreto» presente nella formula Musica Concreta sia riferita ai materiali sonori. Questa ovviamente non è l’unica ragione che ha prodotto questo equivoco, ce ne sono altre. Un’altra è il fatto che il registratore, dispositivo fondamentale per la Musica Concreta, ha sdoganato l’utilizzo di suoni di altra natura che non fossero necessariamente quelli strumentali. Ovviamente, questo uso di suoni di altra natura rispetto a quelli strumentali non è un inedito, la storia della musica ci offre tanti esempi, ma il più eclatante di tutti è quello della musica futurista di Luigi Russolo prodotta con gli intonarumori. Inoltre, c’è anche una precisa vicenda storica che ha ulteriormente contribuito ad acuire l’equivoco; essa risale ai primi anni Cinquanta, quando una sorta di disputa si accese tra i due centri di ricerca musicale di Parigi e di Monaco. In realtà, i diversi materiali utilizzati dai due centri erano solo funzionali alle loro rispettive ricerche, ma anche per molti degli attori principali di quella stessa vicenda, in maniera un po’ semplificatoria, scambiarono i mezzi con i fini: suoni concreti vs suoni sintetici. In realtà gli orizzonti di senso fondamentali verso cui si proiettavano quelle due scuole erano: «creare con i Suoni» vs «creare i Suoni», «Tempo Differito» vs «Tempo Reale». In realtà basta ascoltare attentamente tutta la produzione musicale storica di quelle due scuole per capire che la questione dei materiali è una fantomatica questione. Cosa può interessare a noi se quel piccolo sbuffo di suono è stato ottenuto soffiando in un flauto di grande valore, se proviene da uno spiffero di vento che attraversa una vecchia finestra o da un costosissimo sintetizzatore modulare grazie a una interazione complessa di diversi oscillatori?

E il suono acusmatico?
Questa è un’altra questione, che pure tocca su un altro piano l’argomento e che credo sia fondamentale da tener presente per il compositore di Musica Elettroacustica (questo sì che si più ritenere un termine abbastanza utile per comprendere tanto il Tempo Differito quanto il Tempo Reale). Dal concetto di Akousma, deriva la Musica Acusmatica. Si intende e ci si riferisce al fatto che spesso si tratta di musiche dove si ascoltano i suoni, ma non si vedono le sorgenti che li generano. Dal punto di vista cognitivo accadono cose molto interessanti. Se ascoltiamo un suono e non vediamo la causa che lo produce (tra l’altro questo ascolto acusmatico è di gran lunga quello che facciamo di più quotidianamente) la nostra mente opera immediatamente secondo dei modi che gli studiosi chiamano di «immaginazione ricostruttiva». Si intende che con l’immaginazione proviamo a visualizzare cosa produce quel suono. Ad esempio, sento una voce di qualcuno fuori dal mio campo visivo e allora ecco che la mia mente prova ad immaginare se coincide con la sagoma di qualcuno che già conosco, oppure se appartiene al sesso femminile o maschile, se è di una persona di pochi anni o di un’anziana, e così via. Ovviamente, grazie alle tecnologie che possediamo oggi, non possiamo neanche essere certi se quella voce è reale o se si tratta di una voce prodotta sinteticamente, ma per l’orecchio ciò è tutto sommato indifferente. L’orecchio e di conseguenza la nostra mente vogliono solo orientarsi nel mondo, comprendere cosa sta accadendo, se siamo al sicuro o in pericolo. Il suono qui è solo funzionale all’esistenza. Cosa succede se invece ci colpisce un suono del quale non riusciamo a ricostruire la sorgente? Bene, l’immaginazione inizia a galoppare e il punctum qui si esprime al suo massimo livello. La nostra storia emotiva ci indicherà le strade possibili. Molti miti sembrano essere nati da suoni acusmatici, suoni che un’intera comunità ascoltava provenire da una caverna o dal sottosuolo, ma che non era in grado di ricostruire immaginativamente. Quindi, i suoni senza mondo sono suoni che tendono alla trascendenza, all’immaginifico. A questa riflessione va aggiunto che un ulteriore passo cognitivo, rappresentato dal fatto che il contesto artistico inserisce questi fenomeni in un quadro rassicurante, ma noi siamo consapevoli che questi impulsi primari invadono continuamente questo livello. La consapevolezza sulle condotte uditive nell’ambito musicale ci induce ad un Ascolto Ridotto, un ascolto che appunto prova a seguire gli oggetti sonori non in quanto portatori di significato, ma in termini di spettromorfologie, che si articolano tra loro, che si dispongono secondo logiche compositive ben precise. Ecco, questa è una parte significativa della tavolozza con la quale deve operare il compositore di musica elettroacustica.

Non credi che un simile metodo possa determinare il rischio di un eccesso di procedimentalizzazione?
Al contrario! Un’attenzione profonda in direzione del suono rompe con la struttura un po’ astratta e matematizzante che la grammatica musicale tradizionale invece tende a promuovere non poco. Si tratta quindi, di qualcosa di molto istintivo, per certi versi primitivo. La musica elettroacustica si connette maggiormente alla nostra originaria interazione col mondo. Pensiamo ad esempio a tutta l’esperienza del soundscape, dove gli autori più radicali ci immergono direttamente in un ambiente in cui il loro intervento è spesso talmente rispettoso da risultare quasi nullo. Mi viene in mente, ad esempio, Presque Rien di Luc Ferrari del 1964. Mi sembra evidente che qui, così come in 4’33” di John Cage del 1952, l’invito agli ascoltatori è quello di scoprire che la musica non fa riferimento necessariamente all’intenzionalità di un autore, ma che prima di tutto la musica risiede in una precisa postura uditiva che ogni soggetto può assumere autonomamente di fronte a qualsiasi evento sonoro. Ne parlavamo nella risposta precedente: o ascoltiamo i suoni in funzione del nostro orientamento esistenziale, oppure ascoltiamo i suoni con un’intenzionalità estetica. Quando per un qualche motivo, si spera per un desiderio contemplativo, ci poniamo in un contesto dove nei limiti del possibile poniamo sullo sfondo l’ascolto funzionale, allora ogni suono si presta ad essere inseguito nel suo farsi e disfarsi, nel suo emergere, nel suo imporsi, nel suo nascondersi, allontanarsi, ritornare, nel suo immergersi lontano nel silenzio… insomma, nella sua originaria musicalità.

So che credi all’idea di un ascolto come esegesi, che riporta comunque ad un’esperienza completamente soggettiva… L’assunto mi pare del tutto ragionevole, ma ammettere questo comporta anche che non possa esistere una realtà oggettiva della musica?
L’unica realtà oggettiva credo sia quella di un oggetto fisico che ne colpisce un altro. Ora, se questo evento avviene in un contesto dove questi due oggetti sono immersi in una materia fluida o gassosa, che ne subisce l’interferenza e che a sua volta trasporta questa perturbazione nello spazio circostante, fino a colpire un orecchio connesso a un cervello capace di decifrarne le vibrazioni, allora anche il suono è una fatto oggettivo. A seguire, se questo orecchio e questo cervello appartengono a una persona che condivide con altre persone un’esperienza estetica con i suoni, che convenzionalmente chiamiamo «musica», allora forse anche la musica a mio avviso è una faccenda oggettiva. Però non dimentichiamo che non tutte le esperienze sonore che una parte del mondo è disposto a chiamare musica trovano un corrispettivo in altre culture. Insomma, alcune culture sembrano proprio non possedere un termine che possa essere ricondotto al nostro concetto di musica. In tutti i casi credo molto nella suddivisione che propone Roland Barthes tra «studium» e «punctum». Anche nell’esperienza musicale c’è una parte che potremmo definire oggettiva, data da tutta la storia della musica, dalle sue regole, dai modi, dalle tecniche. Dall’altra, c’è l’esperienza emotiva personale che in maniera molto soggettiva può letteralmente, in casi estremi, far saltare l’intera costruzione.

Rimane sempre un problema di confronto tra il musicista e la forma, come sintesi di tutto?
Direi di sì, credo che la forma sia una sorta di asserzione metalinguistica, dove anche ciò che non ha forma viene risucchiato. Un po’ come avviene nella comunicazione umana, anche chi non comunica viene interpretato come colui che comunica di non voler comunicare. Allo stesso modo, anche chi non desidera occuparsi della forma rimane comunque intrappolato in un qualche tipo di forma. Anche a me capita spesso mentre improvviso di immergermi nella produzione sonora vivendola come un flusso, come un processo di natura essenzialmente informe, però alla fine la sensazione è che una forma comunque si sia impossessata dell’informe.

Ci poniamo spesso in una prospettiva di musiche «altre», ma la musica «questa» qual è?
Direi che con «questa» musica, nonostante il singolare, si intenda essenzialmente riferirsi a qualcosa di plurale, e cioè alle categorie convenzionali o dominanti della musica occidentale e popolare. Musiche che hanno invaso e condizionato l’intera produzione e percezione globale della musica. Lo sperimento costantemente quando ci riuniamo in commissione in conservatorio per le prove d’esame per le ammissioni ai corsi di Musica Elettronica. Tanti candidati neanche immaginano che possa esistere una musica fuori dagli schemi (sistemi tonali, profili delle altezze, strutture ritmiche, regole armoniche) che l’intero apparato mediatico offre loro. Ecco, con loro diventa inevitabile parlare di «altre» musiche quando si parla di musica sperimentale, musica acusmatica, improvvisazione elettroacustica, ma anche quando ci si riferisce semplicemente alle musiche tradizionali di culture diverse o a quelle primitive.

Nel «recuperare» i materiali di «AKOUSMA MOTHER» in fondo hai compiuto il tuo processo di esegesi?
Senza alcun dubbio. Materiali realizzati per seguire un certo tipo di discorso di fatto sono stati decontestualizzati e reinterpretati all’interno di un altro discorso. Quindi, ora, anche quegli episodi più formati ed autoconclusi riflettono una nuova luce che l’intero nuovo contesto dona loro. Per estremizzare basta pensare ad una stessa nota, che cambia continuamente il suo valore e slancio in rapporto al contesto di note che un compositore gli cuce intorno. Quindi, anche se in questo caso parliamo di aggregati decisamente più complessi rispetto alla natura ipersemplificata di una nota, il processo rimane identico. D’altro canto si tratta del cuore pulsante della pratica Plunderphonics, fondamentale per un qualsiasi DJ.

Come hai salvaguardato il valore, in termini puramente «umanistici», degli apporti di Luca Venitucci e di Fabrizio Spera?
Il fatto di considerare l’altro sempre come un’opportunità di crescita personale tende naturalmente a salvaguardarne l’autonomia, la direzione, i desideri. Non viene di annetterli a sé, di renderli simili a se stessi. Anzi, si è più disposti a rinunciare a qualche propria prerogativa pur di mantenere questa tensione verso l’alterità che l’altro rappresenta. Questo rispetto reciproco, questo mutuo nutrirsi l’uno dell’altro, ha reso questo mio rapporto d’amicizia con Luca e Fabrizio tra i più intensi e affettivamente profondi dell’intera mia esistenza. Il fatto che ci sia la musica e in particolare il gioco dell’improvvisazione musicale a fare da atmosfera, da rete di connessione e sostegno per questa nostra relazione, credo sia un fatto decisivo. Il loro contributo è andato molto oltre lo specifico della musica, ha trasformato in meglio, molto meglio, tutta la mia esistenza. Per quello che riguarda il disco «AKOUSMA MOTHER» è stato sufficiente conservare in maniera quasi integrale i loro apporti, mentre viceversa ho realizzato delle elaborazioni solo nei modi che già altre volte abbiamo sperimentato assieme, sia in ambito improvvisato che in quello compositivo. Con quest’ultimo termine mi riferisco al delicato lavoro che abbiamo sempre fatto per realizzare i nostri dischi. In tutti i casi, prima di finalizzare «AKOUSMA MOTHER»  l’ho sottoposto a loro e solo dopo aver apportato le relative modifiche suggeritemi il disco è andato in stampa. Insomma, qualsiasi aspetto di questo disco è stato condiviso con loro. Abbiamo addirittura discusso se dovesse uscire a nome Ossatura o nella versione che poi abbiamo scelto.

E come si riesce, più in generale, in un procedimento compositivo di tipo formale, che agisce su elementi discreti (comunque dati e discontinui), a garantire un’analoga corrispondenza ?
In realtà il lavoro, in questo senso, risulta essere alquanto semplice nel caso di Ossatura. Perché in tutti i dischi di Ossatura, compreso questo a nome mio, il materiale deriva dalle nostre sedute di improvvisazione. Quindi, il materiale originario è già il risultato di un’interazione libera tra noi, dove l’azione di ognuno di noi influenza quella dell’altro in un processo continuo di feedback collettivo. Nella fase successiva in post-produzione il nostro gesto compositivo, e di conseguenza anche il mio in «AKOUSMA MOTHER», è di tipo estrattivo. Con questo termine si intende l’opposto di una ricerca di una sintassi astratta, cioè quella dove il compositore si impone forme e strutture indipendenti dai materiali. Nel nostro caso le forme e le strutture sono estratte dai materiali stessi, è come dire che agevoliamo, accogliamo, favoriamo forme e strutture che il materiale ci indica, ci suggerisce. Ecco perché nel nostro caso è abbastanza facile costruire il tutto mantenendo e rispettando il «sentire» di ognuno.

Questo ha a che fare anche con il portato soggettivo dal lato dell’autore? Si riesce realmente a creare un canale di comunicazione con l’ascoltatore, fatta la tara a quanto dicevamo prima? Chiaramente esiste sempre un piano soggettivo che non sapremo se potrà mai essere comunicato. Però è altrettanto evidente che esiste un ambiente tanto naturale quanto culturale in cui tutte le persone sono immerse. Questo ci rende simili, e probabilmente per analogia è facile supporre che anche le nostre vite interiori si somiglino per tanti aspetti. Questo piano generale più oggettivo è quello che ci consente di sperare che una parte del nostro «sentire» possa essere condiviso, perché relativamente stabile e simile per tutti gli esseri umani. Insomma, per esempio, se è probabilmente impossibile comunicare ed esprimere il particolare amore che provo per il mio specifico partner, è altresì probabile che quel tipo di sentimento possa essere condiviso perché ognuno lo trasfigurerà in relazione al proprio partner. Credo che la musica tocchi corde comuni a patto che quella comunità sia immersa in un contesto culturale relativamente simile.

Credi che la musica debba rispondere a delle logiche di tipo narrativo, o piuttosto che debba rimanere un procedimento creativo conchiuso, a sé bastante?
Non credo esista una regola definitiva in tal senso. Dipende dalla sensibilità e dalle intenzioni del compositore. Abbiamo pagine meravigliose che la storia della musica ci restituisce e che operano in un senso o nell’altro. Circa il piano narrativo,  «transcontestuale» se ci si riferisce all’ambito della musica elettroacustica, abbiamo l’esempio, già citato in precedenza, di Presque Rien di Ferrari, da lui stesso definita «musica aneddotica». Al contrario, come esempio di musica elettroacustica a sé bastante o di tipo «intertestuale», come amiamo dire noi che operiamo in ambito elettroacustico, citerei Klangfiguren II composto da Gottfried Michael Koenig nel 1955-1956. Per quello che riguarda le mie preferenze, unicamente dal punto di vista del comporre e non in quanto ascoltatore di musica, evito in maniera metodica di servirmi di una qualche forma di programma da vestire poi con la musica. Per me il suono è troppo importante. Amo la dimensione narrativa, ma intesa unicamente dal punto di vista dell’organizzazione, della disposizione dei diversi suoni sul piano orizzontale, cioè sulla linea del tempo. Privilegio il racconto di una storia delle forme, dei richiami, delle sovrapposizioni, dei moti, delle tensioni e delle distensioni. Per quello che riguarda il mio modo di comporre preferisco che una composizione abbia un inizio, uno sviluppo e una fine. Preferisco che la forma venga estratta dai materiali sonori, esattamente come raccontavo precedentemente circa il modo di comporre di Ossatura. Il suono per me è il centro poetico dell’intera composizione. Spesso, invece, quando provo a seguire una sorta di idea precostituita, mi capita di sentire che in qualche modo limito, reprimo il naturale fiorire di un suono. Alla fine, pur di inseguire quell’idea un po’ astratta, il risultato finale mi sembra sempre alquanto artificiale, anche il procedere del tempo mi sembra morto, rigido, meccanico. Altra cosa invece è se mentre lavoro inseguo una suggestione emotiva. Allora questo discorso di costrizione scompare e ogni singolo suono mi sembra che invece trovi come una sorta di atmosfera emotiva ben disposta ad accoglierli.

Qual è, in questa dimensione, la storia di «AKOUSMA MOTHER»?
È prima di tutto un racconto di forme, di vuoti e di pieni che si inseguono. Ma ad accogliere questa storia, come dicevo prima, ci sono stati dei campi affettivi. Si tratta delle diverse tonalità del mio «sentire» dalle quali scaturivano le atmosfere che avvolgevano la stanza dove lavoravo, il mio ascoltare: gli avvenimenti dolorosi, la memoria, la mia giovinezza, le mie passioni musicali, quelle per l’astronomia, le letture, la chitarra elettrica, Ossatura… in questo senso è un lavoro autobiografico. Ma ovviamente si tratta di una sorta di autobiografia per nulla inseguita con metodo, razionalmente, per certi aspetti neanche troppo coscientemente. Alcune relazioni le ho scoperte addirittura alla fine di tutto il lavoro. Ad esempio, il mio amore per l’astronomia, per il fantastico telescopio che possedevo da ragazzo, l’ho percepito solo dopo aver disegnato la copertina in tutte le sue parti. Solo il brano dileguando, posto in coda al disco, ha un più preciso riferimento allo scomparire, al lento e inesorabile addio materno. Direi che il disco contiene quasi tutta la musica da me amata. Quindi si presenta con un cordone ombelicale che mi connette ancora e misteriosamente con tutto quello che sono stato, compreso l’esperienza acusmatica che attraversa in profondità, come un fiume carsico, tutto il disco. Anzi, verso la fine ho lavorato su alcuni dettagli perché l’immagine del grembo materno, del liquido amniotico si è insinuata nel mio «sentire». Questo perché pensavo che in quella fase prenatale la dimensione acusmatica già avvolge il nostro essere, in quanto non abbiamo alcuna possibilità di vedere quale sia l’origine di tutti quegli enigmatici e misteriosi suoni che ci colpiscono.

Credi che nella scena musicale italiana si vada formando una nuova sensibilità, trasversale a molti generi, che può apportarvi degli elementi creativi prima non presenti?
Ovviamente questo è un tema che mi tocca molto da vicino. Perché al mio interesse per la musica, alla mia curiosità per tutto quello che riguarda questo mondo si aggiunge il mio lavoro d’insegnante all’interno del conservatorio. Questo mi consente di essere in contatto con tanti giovani e di avere un polso costante su cosa essi ascoltano, ricercano e producono. Personalmente sento che l’attuale mondo della musica, mi riferisco anche al contesto italiano, che per ovvie ragioni conosco meglio, sia particolarmente stimolante e variegato. Anche gli attuali strumenti che i più giovani utilizzano per scambiarsi ed ascoltare musica renderà magari un po’ disordinato e talvolta anche un po’ superficiale il loro rapporto con specifici autori, ma di certo non li irrigidisce su stili e generi che forse ai nostri tempi era un po’ inevitabile subire. Tutto ciò sicuramente ricade sulla loro sensibilità, e di certo la trasversalità è la cifra del loro essere.

In questa nuova situazione può avere un peso la diversa e più completa formazione dei musicisti più giovani, diversa da quella di generazioni che si sono formate nell’idea (se non nell’ideale) dell’autodidattismo, come la tua?
Riallacciandomi alla mia risposta precedente direi che oggi effettivamente tante istituzioni stanno mettendo a disposizione percorsi di studio innovativi che ai miei tempi proprio non esistevano. Se penso che oggi in alcuni conservatori gli studenti possono avvicinarsi alle nuove tecnologie elettroacustiche, alle pratiche improvvisative non idiomatiche, alla musica elettronica, all’improvvisazione elettroacustica, mi sembra un sogno. Se i docenti più che lavorare su piani di studio ben definiti, e talvolta anche un po’ rigidi, operassero in un contesto di maggiore interazione, di favorevole feedback con i propri studenti, allora formazione e autodidattismo potrebbero quasi convivere assieme senza escludersi a vicenda. La presenza di un maestro può essere molto utile per velocizzare alcuni specifici apprendimenti, produrre degli stimoli o dei dubbi sul lavoro che uno studente sta sviluppando, ma è necessario che lo studente segua anche una propria strada, i propri desideri e che faccia i propri errori.

Accedi, nel tuo processo creativo, a fonti di ispirazione extra-musicale e quali, in caso positivo?
Direi costantemente, anche se si tratta raramente di qualcosa di metodico. Un qualsiasi aspetto della realtà naturale o di un prodotto culturale, in maniera assolutamente casuale, può accendere in me l’immaginazione musicale. Basta un piccolo dettaglio che sembra immediatamente richiamare analogie sonore. Ad esempio, in questo disco, il libro di poesia Del venire avanti nel giorno di Alessandra Greco ha prodotto continue suggestioni che risuonavano profondamente col mio stato d’animo legato al lutto, col mio rimemorare il tempo passato, le mie passioni, desideri, sogni e al tempo stesso quel testo sembrava anche contenere e smuovere in me quel sentimento connesso ad un movimento in avanti, ineluttabile, inesorabile e al tempo stesso desiderante, anelante (un sentire già presente nel mero titolo del libro). Tutto questo è accaduto in maniera casuale, non preventivato, è accaduto in maniera del tutto naturale. Mentre, viceversa, sempre come esempio, per quanto riguarda la ricerca metodica della suggestione da ottenere attraverso altre forme extra-musicali, posso citare il lavoro con Nazim Comunale e Peter Bartlett. Sia quello già uscito l’anno scorso dal titolo Esercizi per esistere e ancor più quello che uscirà in primavera dal titolo Notizie dal diluvio sono caratterizzati dal mettere in dialogo forme espressive diverse: Nazim Comunale lavora con la scrittura, Peter Bartlett con il visivo e io col sonoro. Il risultato finale è fisicamente quello di un libro che contiene un disco. Però ovviamente il nostro obiettivo era quello di far sì che ognuna di queste pratiche creative fosse intimamente stimolata dalle altre. Ovviamente per ottenere ciò abbiamo attivato strategie precise che crediamo di aver ulteriormente perfezionato nell’ultimo dei due lavori.

Quali sono i tuoi progetti in corso e quelli nuovi?
Ho iniziato proprio in questi giorni una collaborazione a distanza nella prospettiva di una produzione discografica con Luca Giuoco, Antonio Tonietti e Stefano De Ponti. A fine ottobre con Ossatura faremo delle sedute di registrazione a Napoli utili per quello che sarà il nostro quarto disco. Entro il 2024 uscirà il primo album di Ka’e, il nuovo gruppo che ho assieme a Stefano Giampietro, Giorgio Bosso, Andrea Laudante e Paolo Montella. Il titolo è «Sounds Fall From The Sky» ed esce per la Folderol. In primavera uscirà per Dissipatio Notizie dal diluvio, il secondo disco con Nazim Comunale e Peter Bartlett. Anche con Figures of Absence (Barbara De Dominicis, Cristian Maddalena e io) faremo, in data da definire, una residenza a Marsiglia nel centro di ricerca GMEM per delle sedute di registrazione per quello che sarà il nostro primo album, anche se in realtà forse uscirà prima il disco di un nostro live per la Folderol. Sempre per il 2025 faremo un concerto con l’Orchestra Elettroacustica Officine Arti Soniche (OEOAS) con l’obiettivo di registrarlo in vista di quello che sarà il nostro secondo album. Ovviamente poi ci sono tante altre idee che mi frullano in mente e che vorrei continuare a sviluppare in solo, in ambito più propriamente compositivo. Ad esempio, ho un desiderio enorme di produrre qualcosa che abbia a che fare con il vuoto, qualcosa che possa indurre ad un profondo stato di contemplazione, meditazione, calma, e di lavorare proprio su quelle strategie, precedentemente esposte, relative alle potenzialità dell’acusmatica: una sua assoluta messa a fuoco sul piano emotivo.

Quale musica ascolti di più, oggi?
Mi ritengo particolarmente fortunato, perché grazie ai miei studenti in conservatorio ricevo quotidianamente una quantità di stimoli veramente impressionante. Chiaramente, e forse inevitabilmente, in relazione al contesto in cui avviene questo scambio, e cioè l’aula di Musica Elettronica, si tende a privilegiare tutte quelle musiche che principalmente hanno a che fare con le tecnologie elettro-elettroniche, anche se meno male non sempre solo quelle. Il problema di questa sterminata quantità di stimoli, che a me sembra infinita, è che non riesco ad approfondire l’intera produzione di molti di questi artisti e quindi non sono certo di una loro qualità complessiva: Daniel Blumberg, Oneohtrix Point Never, Thomas Ankersmit, Holly Herndon, Plaid, Anthony Pateras, Eric La Casa, Nadah El Shazly, Jofridur Akadottir, Brandon Labelle, Grischa Lichtenberg, Arca, Low, Maarja Nuut, Werner Dafeldecker, Noel Akchoté, Dave Phillips, Christina Kubisch, Taku Unami, etc.

 

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