
Un nuovo gruppo per il vulcanico sassofonista di Chicago Chris Potter, una nuova casa discografica e un imprevisto cambio di direzione assieme a due brillanti partner come James Francies e Eric Harland
Uno dei migliori sassofonisti del panorama contemporaneo, Chris Potter è capace di districarsi, con una professionalità di assoluto livello, all’interno delle situazioni musicali più variegate. Qualcuno lo accusa di un eccessivo tecnicismo e di una caparbia meticolosità. La realtà è che Chris è un musicista assai pignolo e puntuale, spinto ad affiancare al suo temperamento sperimentale e innovativo una capacità di bandleader che oggi gli è riconosciuta sia dalla critica che dal pubblico. Un’abilità che lo ha portato a esprimere sé stesso dirigendo un trio (una situazione pianoless molto aperta, in cui si alternano ritmiche diverse), un quartetto con David Virelles al pianoforte, Joe Martin al contrabbasso e Marcus Gilmore alla batteria, un piccolo gruppo – Chris Potter Underground – con Craig Taborn al piano elettrico, Adam Rogers alla chitarra, Fima Ephron al basso elettrico e Nate Smith alla batteria, un tentet e persino una big band, la Chris Potter Underground Orchestra. Non si pensi di trovarsi di fronte ad un concentrato di fredda abilità tecnica priva di feeling: il sassofonista ha suonato assoli di bellezza intramontabile con il quintetto di Dave Holland e il suo stile è il risultato sonoro di una mente fervida, in continuo movimento con una immaginazione straordinaria, adrenalinica e, a tratti, sfrenata. Uscito dalla band del trombettista Red Rodney, musicista dal vissuto personale burrascoso, Potter mette in mostra una quantità multiforme di influssi, da Lester Young a Miles Davis, da Stravinskij a Mozart, dai Beatles a Joni Mitchell. Il suo ultimo lavoro, il primo per la Edition Records e intitolato «Circuits», è stato definito – per citare noi stessi nella recensione apparsa recentemente su questa rivista – «un lavoro in bilico tra il gusto per la libertà improvvisativa e un’intensità ritmica che paga un forte tributo all’Africa». Una miscela, insomma, di eleganza espressiva e di innovazione.
Sei coinvolto in diversi progetti: un trio, un quartetto, un’orchestra, un tentet. Non ti fermi mai. «Circuits» è la tua prima esperienza con la Edition Records ed è anche la prima volta che James Francies e Linley Marthe suonano con te. Ho trovato questo lavoro molto interessante e innovativo. Me ne parli?
Il progetto è venuto alla luce, se non ricordo male, nell’estate del 2017. Ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare qualcosa che avesse a che fare con il funk nella sua versione più elettrificata. Mi chiedevo chi potesse essere coinvolto: ho pensato immediatamente a Eric Harland che conoscevo da molti anni e col quale ho lavorato in diversi contesti. È stato lui a suggerirmi di coinvolgere James Francies, un musicista che conosce molto bene il mondo del funk. Abbiamo fatto dei concerti che sono andati così bene da farmi venire subito voglia di registrare. All’inizio pensavo a un trio. Solo in seguito, al momento della registrazione, si è inserito Linley Marthe al basso elettrico.

La tendenza nel jazz, oggi, è mischiare qualsiasi cosa. Sintesi. Questa è la parola d’ordine. Tu ti muovi in questa direzione da parecchio tempo, come testimoniano, tra le tante, le tue esperienze con Dave Holland. Parlami delle tue influenze musicali.
Sono stato influenzato da diversi tipi di musica, e questa è una cosa che mi sento di affermare a nome di tutti i musicisti della mia generazione. Prima di essere un musicista sono un appassionato di musica. Mi piace il pop, ho ascoltato un sacco di hip-hop, di musica classica, di musica indiana, di musica africana, ho ascoltato un sacco di musica cubana, di musica brasiliana, il bop ovviamente, i generi musicali più disparati. Credo che questo si senta quando suono. Per me una delle cose più belle del jazz, qualsiasi sia il significato che vogliamo dare a questo termine, è la possibilità attraverso l’improvvisazione di sperimentare in varie direzioni, magari infrangendo le regole e stabilendo le proprie. Insomma, per me il processo musicale deve essere il più aperto possibile.
Visto che lo tiri in ballo, che cos’è il jazz?
È un termine che evoca degli scenari così vasti da rendermi assai complicato risponderti in maniera esauriente. È qualcosa che va da Jelly Roll Morton a Jan Garbarek, dai Return To Forever a John Coltrane. È un mondo così variegato. Naturalmente, come tutti sanno, è una musica che ha trovato terreno fertile negli Stati Uniti ma che si è sviluppata grazie al contributo della comunità afro-americana, di quella francese, di quella spagnola. Il jazz è il prodotto dell’incontro di comunità che si sono trovate fianco a fianco e hanno inventato un linguaggio nuovo, del tutto trasversale. Duke Ellington, Charlie Parker, Lester Young vengono da tutto questo.
Quanti anni hai?
Quarantotto.
Parlaci un po’ di te.
Non so da dove iniziare…
So che il tuo luogo d’origine è Chicago, però sei cresciuto in South Carolina…
Non ho molti ricordi di Chicago perché mi sono trasferito nella Carolina del Sud che ero molto piccolo. Avevo tre o quattro anni. Ho iniziato a suonare il sassofono all’età di dieci anni e da subito mi sono fatto attrarre dal jazz. Ascoltavo gli album dei miei genitori, che avevano una discoteca ben fornita: Miles Davis, Stravinskij, Joni Mitchell, di tutto. Da allora non ho mai smesso di suonare. Avevo tredici anni quando i miei progressi strumentali mi hanno permesso di avicinarmi alla professione del jazzista. Alla fine del liceo mi sono trasferito a New York, dove ho frequentato la Manhattan School Of Music per due anni, anche se sinceramente ero molto più interessato a suonare in giro nei club; ed è proprio in un locale che ho conosciuto Red Rodney, il trombettista di Charlie Parker, che mi ha introdotto nel giro dei musicisti che contano. Ritengo da quel punto di vista di essere stato molto fortunato perché ho avuto l’opportunità di suonare con molti di quelli che erano i miei eroi, gente come Dave Holland, Herbie Hancock, Pat Metheny, McCoy Tyner, Jim Hall, Paul Motian e molti, molti altri.

I grandi del jazz, coloro che hanno fatto la storia di questa musica nel secolo scorso, sono scomparsi da tempo e c’è chi ritiene che il jazz sia morto con loro. Poi molti grandi fenomeni collettivi sono ormai storicizzati (il bop, il free jazz, l’hip-hop) e sembra che nel mondo della musica non accada niente di davvero nuovo. Sei d’accordo?
Non credo sia davvero così. E comunque non mi preoccuperei. Dobbiamo però riflettere su come il pubblico percepisce le cose e cercare di andargli incontro. Non credo sia importante se qualcosa è nuovo oppure no: anche se, è chiaro, tutto sta cambiando velocemente e noi dobbiamo essere pronti ad adeguarci a questi cambiamenti. E questo è un aspetto che non riguarda soltanto la musica. La gente è confusa, è bombardata da un sacco di informazioni che non sa come metabolizzare. Il jazz non è immune da tutto questo. Personalmente faccio quello che posso aprendomi a tutto ciò che mi circonda, alle influenze più diverse. Ma senza trascurare ciò che i maestri cui accennavi ci hanno insegnato, traendo spunto dai loro insegnamenti e proiettandoli nel mondo in cui viviamo.
Mi piacerebbe sapere il tuo punto di vista sul ruolo che oggi svolgono le scuole nell’insegnamento del jazz. Risponde al vero l’affermazione secondo cui questa musica si può imparare senza andare a scuola?
È importante studiare, e molto. Lo si può fare andando a scuola oppure da soli, ma non va mai dimenticato che oggi le scuole sono diventate dei luoghi d’incontro tra musicisti. Non credo che oggi si possa diventare un grande jazzista senza frequentare una scuola, proprio per il ruolo di comunità che ormai le scuole hanno assunto. Il jazz si basa moltissimo sull’improvvisazione e sul confronto con gli altri. Non siamo più negli anni Cinquanta, quando soltanto sulla Cinquantaduesima strada c’erano quindici o sedici jazz club. Oggi questi posti sono stati sostituiti dalle scuole. Non voglio dire che non esistano piccoli problemi, per esempio l’eccesso di accademismo che può nuocere all’impatto che il musicista deve necessariamente avere con il palco, con il pubblico. Ma bisogna fare di necessità virtù e accontentarsi di ciò che passa il convento. Le scuole hanno dei pro e dei contro. Posso dirti, parlando della mia esperienza, che la maggior parte delle cose che ho imparato non le ho apprese a scuola ma da musicisti più esperti, osservando le loro reazioni, il loro comportamento.
Ma chi è stato il musicista che ti ha influenzato più di tutti in assoluto?
È quasi impossibile dirlo. Sono stati moltissimi, quelli che mi hanno influenzato. Ma se devo fare dei nomi non posso immaginare la mia vita senza Sonny Rollins, Charlie Parker, John Coltrane. E se proprio devo fare un solo nome, allora in cima a tutti metterei Charlie Parker. Bird ha raggiunto un tale livello di perfezione stilistica e artistica che, oggi, i suoi insegnamenti si ritrovano in ogni contesto.

Tecnica, idee, virtuosismo. Quale di queste tre caratteristiche riveste maggiore importanza per te? Oppure le metti tutte e tre sullo stesso piano?
Decisamente le idee. La tecnica e il virtuosismo non sono altro che modi attraverso i quali esprimiamo le nostre idee.
Quali sono tra i giovani musicisti coloro che oggi stanno esprimendo qualcosa di innovativo nel jazz?
Ecco, questo è un punto interessante. Anche perché la maggior parte dei musicisti che interpello per i miei progetti sono più giovani di me almeno di una generazione. Cerco sempre, senza sosta, di lasciarmi ispirare da loro. Sicuramente, quindi, direi James Francies, Marcus Gilmore e David Virelles. Sono tutti musicisti con i quali ho lavorato e continuo a farlo. Credo che oggi siano moltissimi a fare cose innovative. Questa è un’epoca molto vivace e interessante.
E quali sono tra i giovani sassofonisti quelli da tenere d’occhio oggi secondo te?
Mi vergogno un po’ perché lavoro molto e non ho il tempo di capire quali siano i nuovi colleghi da ascoltare con attenzione. Comunque Troy Roberts è uno di loro. Poi, tra i giovani, c’è Immanuel Wilkins da tenere d’occhio con attenzione, c’è Godwin Louis. Questi sono i primi nomi che mi vengono in mente. Ma sono sicuro che ne sto dimenticando molti altri.
Il tuo prossimo progetto…
Ah, buona domanda… Mi sto attrezzando! Probabilmente farò una registrazione live del progetto Circuits in trio con James e Linley. Ho in mente di organizzare un ensemble più allargato con qualche cantante, probabilmente delle voci femminili. Tutte cose che mi terranno impegnato per il prossimo paio d’anni.
Nicola Gaeta