Un anno veramente pieno di soddisfazioni, il 2024, per Caterina Caselli: in primavera la nomina a Cavaliere del Lavoro, in autunno il Premio Tenco come operatrice culturale. Lei, che non ancora ventenne esordiva a Sanremo 1966 con Nessuno mi può giudicare, canzone marcatamente «generazionale», in anni già in odore di Sessantotto, per poi infilare un successo dietro l’altro e poi, ancora in bello spolvero fra i nomi di punta della canzone italiana, lasciava la strada intrapresa con così tante soddisfazioni per passare dall’altra parte della barricata, quella di chi le suddette canzoni le cercava, se dotata di fiuto le trovava, anche, le produceva e le promuoveva. Una scelta che all’epoca stupì più d’uno, ma che con gli anni si è rivelata quanto mai felice, regalandoci una figura che, anche proprio per aver conosciuto l’altra faccia della medaglia, quel fiuto, unito a una buona dose di determinazione, l’ha rivelato a piene mani. Questi due riconoscimenti lo testimoniano in maniera eloquente.
Ma com’è stato, all’inizio, il salto della barricata? E come si è fatta largo la volontà di compierlo?
«Le ragioni sono state molteplici», esordisce Caterina. «Intanto mi sono innamorata del capo, come si dice, e per un po’ sono stata contemporaneamente un’artista di punta della CGD e la moglie del proprietario, in realtà del figlio, perché Piero Sugar era appunto figlio del grande capo, Ladislao Sugar. Forse per un po’ mi sono anche adagiata in questo stato di cose, o magari ne ho semplicemente avuto sentore, perché si trattava comunque di una vita nuova, ben presto anche di madre, per cui mi sono occupata di mio figlio, ma quando lui ha cominciato ad avere quattro o cinque anni ho iniziato a domandarmi cosa avrei potuto e dovuto fare del mio futuro. Vivevo una situazione privilegiata, ma al tempo stesso rischiosa. Ricordo come se fosse adesso un giorno in cui mi ero messa a lavorare a maglia, come faceva già mia madre, e proprio lei mi ha detto che dovevo risolvermi a fare quello in cui credevo. Però non era facile entrare in una società con quattrocento dipendenti e venti dirigenti e apparire a tutti come quella che sta lì perché è la moglie del capo. Cosa avevo dimostrato fino a quel momento in un lavoro che non era il mio? Conoscevo quel mondo, certo, ma ora si trattava di un altro lavoro. Bisognava comprendere quali sono le esigenze di un’azienda del genere, che certo deve guardare al fatturato, anche per avere poi dei fondi da investire in qualcosa di meno sicuro, tutto da dimostrare e da affermare. Ero molto inesperta, per cui ho fatto anche degli errori, però ho chiesto alla società-madre di poter gestire una mia etichetta che fosse sotto la mia responsabilità, che ho voluto chiamare Ascolto. Ovviamente non era un nome scelto a caso: volevo mettermi in ascolto degli altri. Ho chiamato a collaborare con me due persone che venivano da Radio Popolare, quindi altrettanto inesperte nel ramo specifico, e abbiamo messo su questa creatura. Abbiamo prodotto Franco Fanigliulo, e gli Area, perché Gianni Sassi, il creatore della Cramps, cominciava ad avere dei problemi di salute e così siamo stati noi a produrre un disco pazzesco come «1978 gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano!», dopo di che Demetrio Stratos andò a fare un tour con John Cage negli Stati Uniti, tornò e si ammalò pure lui. Poi abbiamo prodotto il primo album di Mauro Pagani, fuoruscito dalla PFM, che di fatto è il primo disco di World music, prima ancora di Peter Gabriel. C’erano dentro una giovanissima Teresa De Sio, Demetrio, Pasquale Minieri. Abbiamo prodotto Mixo, che aveva diciotto o diciannove anni, Faust’o. Poi ho voluto produrre Pierangelo Bertoli, sassolese come me, e lì il successo è stato notevole, per cui io, a quel punto, sono entrata con forza in questa grande casa discografica.
Del resto un certo fiuto l’aveva già dimostrato quando faceva solo la cantante, portando per la prima volta in televisione, poco più che ventenne, Guccini e Battiato.
Sì, parliamo del 1967, il programma si chiamava Diamoci del tu, che condividevo con Giorgio Gaber. Io ho portato Francesco, che allora si chiamava così, solo col nome, e Giorgio quell’altro Francesco, appunto Battiato, che da allora, visto che di Francesco ce n’era già uno, è diventato ed è rimasto per tutti e per sempre Franco.
E poco dopo ecco Paolo Conte, all’epoca solo autore, di cui ha interpretato la bellissima Insieme a te non ci sto più, uno dei brani-simbolo degli anni Sessanta, da Nanni Moretti a tutti quelli che l’hanno riproposto nel corso degli anni, a cominciare proprio da Battiato in uno dei suoi «Fleurs», e poi gli Avion Travel e tutti gli altri.
Be’, quel pezzo – che avevo ascoltato e che, per quanto i miei discografici non fossero granché d’accordo, ho voluto cantare a tutti i costi – mi è arrivato chiaro e forte, malgrado avessi ventidue anni e malgrado una certa sua complessità. Paolo ha una scrittura tutta sua, in cui mette dentro tantissime cose: il jazz, il suo Piemonte che diventa del tutto naturalmente Francia, immagini sorprendenti, a volte persino spiazzanti… Del resto stiamo parlando di un autore estremamente colto.
Ho appena citato gli Avion Travel, e poi Elisa, Bocelli… Sono parecchi gli artisti in cui ha creduto e ai quali ha dato la possibilità di arrivare al successo. Non è certo un merito di poco conto.
Non sta a me dirlo. Per quanto mi riguarda, sono veramente grata a chi mi ha dato la possibilità di lavorare dentro alla musica e per la musica, perché ho avuto veramente tanto da questo mestiere e mi sono anche divertita davvero parecchio, fra l’altro avendo la fortuna di cominciare ad occuparmi di musica quando era ancora possibile sbagliare, e quindi rischiare, perché c’era la possibilità di trovare qualcosa che non c’era senza doversi per forza di cose aspettare che un dato investimento tornasse in tempi brevi, perché come si sa spesso l’artista è timido, gli ci vuole un po’ a portare allo scoperto tutto quello che ha dentro, ha bisogno di mettersi alla prova, è necessario dedicare il giusto tempo a parlargli, lavorare fianco a fianco, nella convinzione che poi i risultati comunque arrivano. Procedendo in questo modo, ci sono veramente delle possibilità straordinarie di ottenere da un artista quello che credevi che ti potesse dare. Questa è una soddisfazione impagabile, che poi non si prova neppure da soli, perché alla base c’è sempre un lavoro d’équipe. Vorrei aggiungere comunque che anche al di là delle grandi carriere che alcuni degli artisti con cui ho lavorato hanno fatto, io ho molto affetto anche per quelli in cui ho creduto, e continuerei a credere ancora, ma per i quali non è arrivato il successo che ci aspettavamo, perché le ragioni sono tante e ovviamente non è detto che la qualità possa sempre essere premiata. Però gli operatori che lavorano in questo settore devono comunque provarci, anzi arrivo a dire che hanno l’obbligo di provarci.
Il paradigma di questo tipo di artista mi pare che sia Lucio Quarantotto, che certamente lei ha amato molto, e su cui ha investito molto, perché credeva assolutamente nel suo talento, nella sua genialità, e a cui non a caso il Tenco, che l’ha premiato fin dal 1984, ha dedicato un omaggio nella sua ultima edizione, attraverso un intero album in cui Wayne Scott interpreta alcune delle sue canzoni tradotte in inglese, compresa Con te partirò, di cui Lucio è autore del testo, un brano che ha fatto il giro del mondo, evidentemente dandogli l’agiatezza, in termini di diritti d’autore, ma non riuscendo a togliergli tutto il dolore che aveva dentro, visto che a un certo punto ha deciso di farsi da parte.
Eh be’, Lucio, certo. Sapevo di questo omaggio, quando sono andata al Tenco, e ho chiamato anche Regina, sua figlia, pensando che ci fosse anche lei. Invece no, però era molto contenta. Mi piace mantenere i rapporti con le persone legate agli artisti con cui ho lavorato, interagire con loro. Sono sempre partita dal presupposto, quando sono passata dall’altra parte, di fare con gli altri ciò che avrei voluto che fosse fatto con me. Ho sempre mantenuto la ferma convinzione del rispetto che bisogna avere nei confronti degli artisti, quando ero da quella parte della barricata e quando sono passata al di qua. Ci sono artisti convinti di poter spaccare il mondo, e in quelli si devono insinuare dei dubbi, e altri invece, come dicevo, molto più timidi. Bisogna riuscire a rapportarsi alle varie tipologie, capire qual è la via migliore, il grimaldello, per entrare il più correttamente possibile dentro al loro mondo in modo da tirar fuori il massimo che possono dare. Gli artisti sono gelosi di quello che fanno e quindi bisogna essere capaci di entrare col piede felpato nel loro universo.
E alla carriera di cantante, non ha più pensato? Abbiamo citato Conte e Guccini, e io ricordo un album incentrato su brani di Paolo, intorno al 1990, e molti anni più tardi un grande concerto per l’Emilia in Piazza Maggiore a Bologna dove ha cantato con Francesco Per fare un uomo. Mi era parsa un po’ a disagio, come un pesce fuor d’acqua, o sbaglio?
No, non sbaglia. Quel mio ultimo album, «Amada mia», è effettivamente del 1990, che è anche l’anno della mia ultima partecipazione al festival di Sanremo, dove ho avuto per tre ore il mal di stomaco, per cui ho capito che non era più il caso di insistere.