Carlo Cattano è un musicista di grande perizia, conoscenza e sensibilità. Ricercatore e sperimentatore, oltre al jazz si interessa di musica etnica e contemporanea. Il suo ultimo disco, realizzato in quintetto, si intitola «Rituals» e sintetizza appieno la sua idea di musica senza confini.
Carlo, ti abbiamo presentato come musicista non solo di jazz ma anche di contemporanea ed etnica, soprattutto di derivazione mediterranea. Cosa ti attrae in particolare di questi generi musicali? Come li fai interagire quando componi e suoni?
Sì, il mio percorso musicale si è sempre mosso tra vari mondi sonori. Diciamo che con il jazz posso avere la libertà di esplorare improvvisando e inserire elementi che mi appartengono come i canti siciliani, i quali mi riportano alle radici, alla terra, alle emozioni primordiali. Mi affascina il jazz per la sua capacità di rompere le regole, di lavorare con il suono in modo sperimentale. Questi generi mi attraggono perché parlano linguaggi diversi ma complementari: la complessità armonica del jazz, la libertà formale della musica contemporanea e la forza ritmica e melodica delle tradizioni popolari. Quando compongo o suono, non penso tanto alle etichette ma cerco un equilibrio naturale tra questi elementi. Lascio che si influenzino a vicenda, che dialoghino, che trovino uno spazio comune. È un processo molto spontaneo, quasi istintivo.
Storicamente, sei uno dei protagonisti della scena avanguardistica siciliana che annovera al suo interno figure di notevole prestigio. C’è ancora spazio espressivo in Sicilia e a livello nazionale per il vostro modo di intendere e sperimentare jazz?
La scena avanguardistica siciliana ha avuto — e continua ad avere — una vitalità sorprendente. È una realtà ricca di talenti, visioni coraggiose e una forte identità culturale. In Sicilia si respira una profondità storica e artistica che inevitabilmente si riflette anche nella musica, specialmente nel jazz che qui ha assunto nel tempo connotazioni molto originali. Credo che, nonostante le difficoltà strutturali e il poco spazio spesso dedicato alla sperimentazione nei circuiti ufficiali, ci sia ancora un margine importante per esprimersi sia a livello locale che nazionale. Il pubblico è sempre più curioso, attento e c’è una nuova generazione di musicisti che porta avanti una ricerca seria, appassionata, che dialoga con le radici ma guarda anche lontano. Certo, serve sostegno, visione culturale e una rete più solida, ma la voglia di innovare e sperimentare, almeno da parte nostra, non è mai mancata e ogni spazio, anche piccolo, può diventare un luogo di resistenza creativa.
La didattica è anche un punto fermo del tuo essere musicista. Immagino che ogni giorno sei alle prese con ragazzi che vogliono diventare jazzisti. Come ti accosti a loro? Ti senti anche un talent scout?
Assolutamente sì, la didattica è una parte fondamentale del mio percorso. Non la vivo come qualcosa di separato dal fare musica; insegnare è anche un modo per continuare a imparare, a mettersi in discussione, a restare in ascolto. Quando lavoro con i ragazzi, cerco prima di tutto di capire chi ho davanti, quali sono le loro esigenze espressive, la loro personalità musicale. Non mi interessa «formare» dei cloni, ma aiutarli a trovarsi. Il jazz, in questo senso, è una scuola di libertà e di ascolto e io cerco di trasmettere proprio questo; rigore, sì, ma anche apertura e curiosità. Quanto al talent scout diciamo che, più che cercare il talento, cerco la passione. Il talento può emergere in modi imprevedibili ma senza dedizione e amore per la musica non basta. Provo a far scattare una scintilla, cerco di alimentarla, di dare strumenti e contesto perché possa crescere. E spesso, sono loro a sorprendere me.
Oltre a suonare diversi strumenti a fiato, sei anche compositore e direttore d’orchestra. Che tipo di approccio hai nel dover creare e scrivere musica per un piccolo gruppo e un’orchestra? Ti ispiri a qualche grande musicista jazz del passato?
Certo, suono sax baritono, sax soprano e flauti, ma il mio lavoro di compositore e direttore d’orchestra mi permette di esplorare la musica da una prospettiva più ampia e articolata. Quando scrivo per un piccolo gruppo mi concentro molto sull’interazione tra i musicisti; cerco di lasciare spazio all’improvvisazione, di costruire una struttura flessibile che permetta a ciascuno di emergere con la propria personalità. In questi contesti, l’approccio è spesso più intimo, più diretto, quasi cameristico. Con l’orchestra, invece, il discorso cambia, lì penso in termini di masse sonore, di colori, di dinamiche su larga scala. Devo considerare la densità del suono, il bilanciamento tra le sezioni e, soprattutto, come mantenere una narrazione coerente in uno spazio così grande. Mi affascina il modo in cui si può passare da momenti quasi totalmente liberi, pur in un contesto orchestrale, ad altri più strutturati senza perdere identità. Tra le mie fonti di ispirazione ci sono senz’altro i grandi del jazz: Duke Ellington, Gil Evans, Charles Mingus, Maria Schneider, eccetera. Ellington per me è un faro, la sua capacità di scrivere pensando ai singoli musicisti, cucendo la musica su misura, è qualcosa di geniale. Gil Evans ha ridefinito il ruolo dell’arrangiatore nel jazz moderno, mi ha insegnato l’importanza dell’orchestrazione e della forma. Di Charles Mingus mi hanno sempre colpito la libertà espressiva, l’energia e la profondità emotiva delle sue composizioni ed esecuzioni nonché l’attenzione alle radici popolari. In generale, cerco di tenere viva una doppia anima: da un lato la scrittura orchestrale, curata e strutturata, e dall’altro la libertà e l’imprevedibilità tipica del jazz di un certo tipo.

Il tuo strumento principale è il sax baritono. Nel contesto jazz non ha la stessa fama e frequentazione del sax tenore e dell’alto. Cosa ti affascina di questo strumento dal suono graffiante?
Ho suonato per tanti anni il sax contralto, ma poi ho scoperto il sax baritono ed è stato come innamorarsi di nuovo. È vero, nel jazz ha sempre avuto un ruolo un po’ più defilato rispetto al tenore o all’alto, che sono storicamente associati alle grandi voci soliste. Ma proprio questo aspetto mi ha attratto fin dall’inizio, il fatto che fosse uno strumento con una personalità tutta sua da scoprire e valorizzare. Quello che mi affascina di più del sax baritono è la sua ambiguità; da un lato potente, graffiante e corposo, dall’altro sorprendentemente morbido, lirico, profondo. È uno strumento che ti costringe a trovare un equilibrio costante tra controllo e spontaneità e poi ha un ruolo interessante nell’ensemble, può essere sia fondamento ritmico e armonico che voce solista.
Da tempo porti avanti una proficua collaborazione con tuo fratello, il trombonista Tony Cattano. Nel 2005 avete inciso un disco interessante intitolato Cattano Bros. Poi ce ne sono diversi altri dove è presente sempre lui. Ci sono affinità tra di voi dal punto di vista musicale o vi valorizzate nella diversità delle idee?
La collaborazione con mio fratello Tony è qualcosa di molto naturale, ma allo stesso tempo ricca di sfumature. Suonare insieme significa condividere un linguaggio comune che affonda le radici non solo nella musica, ma anche nella nostra storia familiare. Nei riferimenti, nei silenzi, nel modo in cui ci ascoltiamo, la nostra intesa musicale è sempre esistita. Ci siamo confrontati tantissime volte ma sempre trovando ciascuno la propria strada. Credo che proprio questo sia il punto di forza del nostro dialogo musicale. Abbiamo affinità profonde, certo, ma anche approcci e sensibilità diverse che si completano e si mettono in discussione a vicenda. Tony ha un modo molto personale di intendere il trombone e l’improvvisazione, sempre pronto a rompere schemi e a cercare soluzioni non convenzionali. Non ci cerchiamo per confermarci, ma per sorprenderci. Alla fine, suonare insieme è una forma di dialogo continuo, fatto anche di divergenze, ma sempre con una forte base di rispetto e questo rende ogni progetto che condividiamo qualcosa di vivo, in continua evoluzione.
Parlaci della Carlo Cattano Orchestra di cui sei il direttore e ideatore. È attiva dal 2012, giusto?
Sì, esatto, la Carlo Cattano Orchestra è nata nel 2012 ed è un progetto cui tengo moltissimo. L’idea era quella di creare un ensemble, formato principalmente da giovani musicisti della Sicilia orientale, con cui poter sperimentare e mettere in dialogo composizione e improvvisazione. Nel corso degli anni l’orchestra è cresciuta mantenendo sempre un approccio aperto e innovativo, capace di mescolare influenze jazzistiche, contemporanee e di altri generi musicali. Come direttore e ideatore lavoro molto sul valorizzare le singole personalità, permettendo a ciascun musicista di esprimersi liberamente ma all’interno di un progetto complessivo, ben strutturato. Abbiamo pubblicato due album: «Hiccup» nel 2013 e più recentemente «Overlaps» nel 2023, che rappresentano tappe importanti di questo percorso artistico. L’orchestra si esibisce regolarmente in festival e rassegne, spesso ospitando artisti di rilievo, e rappresenta per me anche un modo di promuovere e sostenere i giovani talenti del territorio, creando una vera e propria comunità musicale.
«Overlaps» è il più recente disco con la tua orchestra, dicevi. Le composizioni sono originali e scritte da te. Anche in questo progetto la presenza dei fiati è preponderante. Quanto contano per te e cosa ci dici della musica suonata, ricca di intrecci e sintesi, riuscite, delle tue diverse influenze musicali?
«Overlaps» è un progetto che racchiude in sé molti anni di ricerca e di crescita artistica della Carlo Cattano Orchestra. Tutte le composizioni, tanto in «Overlaps» quanto in «Hiccup», sono originali, in entrambi i fiati giocano un ruolo centrale; sono come le voci di una conversazione continua, attraverso di loro cerco di esprimere emozioni, dinamiche, contrasti e armonie che possono coinvolgere l’ascoltatore. In «Overlaps» ho voluto mettere a fuoco proprio questa idea di sovrapposizione, di intreccio fra diversi linguaggi e influenze. La musica è una sintesi di tanti elementi: il jazz tradizionale, la musica contemporanea, il rock e persino alcune sonorità elettroniche e mediterranee. Il risultato è un tessuto sonoro complesso, in cui ogni strumento ha uno spazio di espressione e di dialogo. Credo molto nella forza dell’improvvisazione, ma sempre all’interno di una struttura solida che dà senso e direzione al discorso musicale. In questo disco si sente la volontà di far convivere ordine e libertà, composizione e istinto, in modo che la musica sia viva e capace di sorprendermi ogni volta che la ascolto o la suono.
Il tuo disco «Rituals», uscito per la Aut, sin dall’immagine di copertina pone lo sguardo a oriente. Che connessione c’è tra la tua idea di jazz e i suoni e la cultura di un mondo apparentemente lontano come quello asiatico?
Con «Rituals» ho voluto esplorare una dimensione che va oltre i confini del jazz, guardando verso tutti i luoghi vicini alla Sicilia come fonte di ispirazione. L’immagine di copertina è già un invito a immergersi in un’atmosfera di ritualità, meditazione e connessione profonda con sè stessi e con il mondo. La musica di questo cd ha, secondo me, una ricchezza espressiva che trovo affascinante e stimolante. Anche se, a primo ascolto, può sembrare distante dal linguaggio jazzistico, io sento moltissimi punti di contatto: l’interplay, la ricerca di uno spazio-tempo sospeso, l’importanza della ripetizione e della variazione, la centralità del silenzio e della dinamica. Nel mio modo di fare jazz, cerco sempre di integrare queste influenze in modo autentico, senza forzature, creando una sintesi personale che valorizzi sia la libertà espressiva dei singoli, sia l’equilibrio e la profondità spirituale della musica. «Rituals» è quindi un viaggio sonoro che invita ad aprire le orecchie e la mente a nuovi orizzonti, dove la tradizione jazz si arricchisce di suggestioni e significati.
«Rituals» è suonato con una formazione particolare. Manca uno strumento armonico al cui posto hai inserito il violino, che a volte sembra che ne faccia le veci, poi c’è il sax baritono, il trombone, il basso e la batteria. Le tue preferenze vanno verso i suoni grevi, voluminosi e striduli, come quelli che si ascoltano nel disco?
In Rituals» ho voluto sperimentare con una formazione insolita proprio per cercare nuovi equilibri timbrici e dinamiche diverse. La scelta di non avere uno strumento armonico, come il pianoforte o la chitarra, è stata dettata dalla volontà di esplorare un suono più aperto e allo stesso tempo più evocativo. Il violino di Emanuele Parrini a volte assume un ruolo quasi armonico con l’utilizzo del pizzicato e mantiene, nello stesso tempo, una qualità quasi vocale che si sposa bene con il sax baritono e il trombone. I suoni «grevi», voluminosi e a tratti «striduli» che emergono dal disco sono una parte fondamentale della mia ricerca espressiva. Mi piace giocare con contrasti di intensità, tra momenti più densi e altri più sottili e sospesi. Questa tensione sonora crea un’atmosfera intensa, quasi rituale appunto, grazie al contrabbasso di Cristiano Nuovo e alla batteria e percussioni di Antonio Moncada che contribuiscono a costruire un paesaggio sonoro coinvolgente e a tratti ipnotico. In questo senso, la scelta del quintetto e il modo in cui ciascun musicista si muove tra timbri e dinamiche rappresentano un modo di espandere i confini del jazz, alla ricerca di nuovi territori sonori.

I musicisti che fanno parte del tuo quintetto, tranne Emanuele Parrini, sono siciliani. È una scelta progettuale o soltanto affinità culturali?
Si intrecciano entrambe le cose. Sì, è una scelta progettuale, perché cerco di mantenere una coerenza stilistica e di linguaggio all’interno del gruppo; le nostre esperienze musicali e la nostra provenienza culturale possiedono una ricchezza unica che influenza profondamente il modo in cui suoniamo, pertanto l’affinità culturale è un aspetto inevitabile. Condividiamo una lingua musicale che è figlia del nostro vissuto. Il nostro modo di vivere la musica è strettamente legato, alla nostra storia, ai ritmi della terra; non è solo un elemento tecnico, è un’emozione che si trasmette e che ci unisce anche quando improvvisiamo. Emanuele è una presenza fondamentale nel quintetto. La sua sensibilità e il suo approccio al violino sono diversi, ma si adattano perfettamente al nostro modo di pensare la musica.
«Rituals» è un lavoro che si rivela ascolto dopo ascolto. Una sorta di mantra dai suoni concentrici che sinuoso come un serpente avvolge lentamente l’ascoltatore tra le sue spire. È questa la sensazione che si prova ascoltando per esempio i brani Ciuscia e il libertario Rituals.
Sì, hai colto perfettamente l’essenza di Rituals e del brano Ciuscia. La musica che ho voluto creare in questo disco è proprio come un mantra, un flusso sonoro che si sviluppa lentamente e avvolge l’ascoltatore, invitandolo a un ascolto profondo e meditativo. La ripetizione di certe melodie, i timbri che si intrecciano e le dinamiche che crescono e si stemperano seguono una sorta di ciclo, simile a un movimento sinuoso. Questa tensione fluida permette di perdersi nella musica e allo stesso tempo di ritrovarsi in un’esperienza che si rinnova a ogni ascolto. In Ciuscia e in Rituals, come in tutto il cd, c’è la volontà di creare una sonorità che non sia solo da sentire ma anche da vivere, quasi una piccola cerimonia in cui la musica diventa un veicolo per esplorare stati d’animo e sensazioni più profonde.
Nella sua coerente diversità il disco propone diversi cambi di registro. Ntzù per esempio è una sorta di danza orientaleggiante venata di blues e aperta alle improvvisazioni dei fiati.
Abbiamo voluto giocare con diversi cambi di registro. Ntzù, ad esempio, è una sorta di danza. La struttura è volutamente aperta per permettere ai fiati di improvvisare e portare ogni esecuzione in una direzione diversa, lasciando tanto spazio all’improvvisazione, soprattutto nei fiati. È uno di quei brani dove ci siamo lasciati trasportare.
In Marzamemi affiorano con prepotenza i suoni, popolari, della Sicilia edulcorati con un calipso dalle cromie esotiche.
In Marzamemi vengono fuori in modo molto forte i suoni della Sicilia, infatti questo brano è un omaggio ad un borgo di pescatori che si trova in provincia di Siracusa. Li abbiamo voluti trattare con leggerezza, quasi addolcirli, improvvisando su un calipso e mescolandoli a dei colori esotici. È un brano che profuma di mare e di Sud. È un viaggio che parte dalle radici, ma non si ferma lì.
Mentre in Riff 3 l’assolo di flauto spinge il pezzo a oriente trasformandolo in un qualcosa di orchestrale, melodico e poi free.
In Riff 3 succede una cosa interessante, l’assolo del flauto porta il brano verso sonorità orientali. Da lì il pezzo cambia pelle, prende una forma più orchestrale, poi melodica e infine si apre completamente all’esplorazione con un bellissimo solo di contrabbasso e batteria, poi di violino. È come se si evolvesse da solo, seguendo il respiro degli strumenti.
Tra le nove composizioni di «Rituals», tutte scritte di tuo pugno, mi sembra riuscita l’intuizione di costruire il pezzo valorizzando il suono del violino, che Parrini usa in diverso modo, come fosse una chitarra, pizzicandolo o accarezzandolo con l’archetto.
Tenevo a che ogni brano avesse una voce distinta ma, allo stesso tempo, facesse parte di un linguaggio comune; costruire un percorso in cui i cambi di registro risultassero naturali come in una conversazione ricca di sfumature, dove i toni possono variare ma il filo conduttore resta chiaro. In certe composizioni l’utilizzo del violino, con il pizzicato, mi riporta a delle sonorità più arcaiche, africane, come se fosse un oud. È un modo per dare una voce diversa alle composizioni. Più che imporre una direzione, «Rituals» lascia spazio all’ascolto reciproco tra chi crea e chi riceve. In quello spazio sospeso accade sempre qualcosa.
Il disco lo chiudi in piena libertà espressiva con l’afro-americaneggiante Blacksmith che precede una esplicita e conclusiva dedica al sassofonista John Tchicai. Cosa ti lega al sassofonista danese dagli illustri trascorsi?
John Tchicai è stato per me una figura importante, insieme abbiamo suonato in due concerti e abbiamo realizzato un cd. Di John Tchicai ho sempre ammirato il suo modo di muoversi nella musica libera; mai gridato, mai eccessivo, sempre profondo, coerente, lirico anche nell’improvvisazione più radicale. È stato uno di quei musicisti che sapevano stare nel suono, ascoltare gli altri e, allo stesso tempo, avere una voce propria. Quella dedica finale è un gesto affettuoso e riconoscente. Blacksmith rappresenta proprio quella libertà espressiva che ho sempre visto in lui; la possibilità di fondere identità, provenienze, gesti musicali diversi senza mai perdere l’anima.
Il quintetto che suona in «Rituals» è la tua nuova formazione, quindi? Quella dei prossimi dischi e concerti?
«Rituals» è stato realizzato con una formazione che sento molto vicina alle mie intenzioni musicali attuali e affine anche dal punto di vista umano. Abbiamo costruito un modo di suonare e comunicare che mi emoziona. Ci siamo trovati subito e questo ha dato grande freschezza e complicità al progetto. Sicuramente è il gruppo con cui sto pensando di andare avanti, sia per i prossimi dischi sia per i concerti. Tuttavia, credo fermamente nel concetto di formazione aperta: per cui, a seconda del progetto, mi piace lasciar spazio a nuove collaborazioni senza preclusioni.