Sardegna nel cuore. Ascoltare il nuovo album del pianista Alessandro Di Liberto è come aprire un taccuino Moleskine per leggere ricordi ed emozioni di un viaggio molto speciale come quello che conduce alla scoperta di casa. Roots and love. Radici e amore nelle strade di un’isola che non finisce mai di stupire. Anche chi non è turista. Ed ecco così il personale atlante di un jazzista sensibile e di livello come Di Liberto. La Sardegna, tappa per tappa da Castelsardo a Fluminimaggiore. Ogni sosta è una perla naturalistica o un monumento del passato. «Punti di vista», inciso per la GleAm Records, è soprattutto una personale ricognizione del territorio che anche dal vivo ha una forte presa emotiva, come si è potuto verificare al Jazzart di Cagliari, pieno come un uovo per assistere al live del pianista sardo e del suo trio. L’opera è un originale reportage tra il geografico e il musicale compiuto da Di Liberto e da Sebastiano Dessanay al contrabbasso e Roberto Migoni alla batteria, featuring Laura J Marras al sax alto. Ogni luogo è stato ispirazione per un brano. Ogni singolo brano di questo album, pur nella sostanziale unità dell’opera sul piano compositivo, è un pezzo di viaggio a sé. Dall’iniziale Vento di mare, dove la sensazione di veleggiare sulle onde del mare è quasi fisica, all’intimo assolo pianistico di Spiaggia di riso. È quasi immerso in una saudade mediterranea Verde e azzurro. Ritmica e sax in evidenza in L’Orologio del tempo con il suo incedere metronomico. Avvolgente nel dialogo sassofono e pianoforte la centrale Pan di Zucchero. Molto simili per intreccio e dinamica Sulla torre e Riviera di corallo. Quasi concettuale Tra le vie del borgo con un pirotecnico Dessanay sugli scudi. Chiusura scoppiettante con i brani finali di L’isola dei giganti, ricca di accattivanti sonorità, e la melanconica e ispirata Tempio di Antas, quasi una melodia senza tempo.
«Ho sempre considerato la musica come un mezzo in grado di evocare degli stati d’animo molto profondi – spiega Di Liberto – radicati nella parte più nascosta e inaccessibile del mio essere. Ho sempre vissuto la musica in primis da compositore, nella speranza di arrivare attraverso i miei brani a esprimere qualcosa di personale e intimo. Da qui è nata l’idea di far parlare i luoghi della mia terra natia (la Sardegna appunto) che hanno contraddistinto la mia adolescenza fino ad oggi, e che hanno esercitato su di me un fascino irresistibile e dei quali, con questo lavoro, ho voluto raccontare le sensazioni che hanno prodotto nel mio io più profondo. Dunque non è un lavoro meramente descrittivo basato sull’illustrazione di semplici paesaggi, ma un disco che parla di me e come la nostra meravigliosa isola abbia forgiato negli anni il mio mondo interiore e la mia conseguente capacità di entrare in rapporto con la realtà che mi circonda».
L’album è segnato da una musica elegante, a tratti anche molto orecchiabile, che rivela interessanti architetture di ritmo e suono. All’ascolto, anche dal vivo, sembra in effetti rimandare a un libro da sfogliare, composto da differenti immagini fotografiche dietro cui si celano miti e leggende come storie aspre. Un racconto personalissimo di un’isola antichissima e per molti versi ancora sconosciuta agli stessi suoi abitanti. Il disco mostra forza nello sciorinare tempi quadrati e decisi ma infila, nel rosario dei brani, anche sinuose ballads in cui si impone in modo deciso il suono spiccatamente romantico del tuo pianoforte. È un modo di evocare le complessità e i rimandi di un luogo che non è solo geografico?
Esatto, si parte dai paesaggi ma si va molto oltre la semplice descrizione dei luoghi, mettendo in luce le forti sensazioni che questi imprimono nell’animo. Mi piace il fatto che tu metta in luce la parte più romantica del mio stile pianistico, perché tra i compositori che adoro di più ci sono sicuramente grandi musicisti come Schubert e Chopin, i quali hanno colto attraverso le loro opere le sfumature più sottili e impercettibili dell’animo umano. Non vi è mai niente di scontato nella loro musica, si passa dai delicati notturni ai tumultuosi studi per pianoforte mantenendo una ricerca musicale coerente. Cambiano le scansioni ritmiche ma la forza espressiva è sempre presente, il che conferisce alla loro musica un’estrema varietà di colori senza renderla mai monotona. Personalmente, cerco di fare la stessa cosa utilizzando delle sonorità più vicine al jazz.
In «Punti di vista» siamo davanti ad un’opera musicale composta e suonata da musicisti sardi. Provenienti da una terra che continua, da molte generazioni, a essere particolarmente sensibile al jazz e agli stili più differenti. In questo caso si sente un amalgama particolare, un feeling che rinvia a una storia comune e per certi versi abbastanza unica nel panorama jazzistico non soltanto nazionale.
Penso che in Sardegna il jazz sia sempre stato accolto, sia dal pubblico sia da noi musicisti, con una grande apertura mentale e un desiderio di confronto; soprattutto da quando, grazie alle varie rassegne, sono arrivati anche nell’isola alcuni tra i più grandi jazzisti americani. Nei primi anni Novanta, ancora agli inizi della mia carriera, ebbi modo di condividere il palco con il grande trombettista Jon Faddis e il sassofonista Steve Marcus, intuendo quanta preparazione fosse richiesta per tenere testa a così grandi musicisti: una lezione che ne valeva dieci. Grazie a questa preziosa opportunità capii ancora più a fondo la bellezza dell’improvvisazione, un’arte spontanea che costituisce l’altra faccia della medaglia rispetto a quella più rigorosa della musica scritta. In «Punti di vista» questa dicotomia tra parti scritte e parti improvvisate risulta abbastanza chiara ad un ascoltatore attento: nelle prime viene fuori maggiormente la partitura del compositore, mentre nelle parti improvvisate emerge la personalità di ciascuno, quel gusto di suonare liberamente su delle strutture dove ognuno ha trovato col tempo e con lo studio i propri margini espressivi. Che in questo nostro lavoro sia presente un feeling particolare tra noi quattro non sta a me dirlo, ma sono molto contento di sentirlo dire da chi l’ha colto.
Precisiamo meglio. La Sardegna ha tuttora una musica popolare ricca e vivace. Una tradizione di canto unica al mondo, strumenti straordinari come le launeddas, i flauti, i tamburi, con fior di strumentisti eccetera… Eppure nella tua musica la «sardità» è evocata, è soprattutto un riferimento intellettuale. La traduzione in note di un’appartenenza e di un sentimento speciale emerge così in un disco come «Punti di Vista» come parte di un sogno.
È vero, la mia «sardità» all’interno del disco è un riferimento prettamente intellettuale. Non racconto la Sardegna utilizzando i ritmi tipici e gli strumenti tradizionali citati, ma racconto la mia visione di questa terra. Credo che qui ci siano musicisti che hanno dedicato tutta la vita a fare musica imparando e portando avanti una tradizione, dai tenores dei vari paesi ai launeddisti come Luigi Lai o cantanti come Maria Carta. Quando mi è capitato di ascoltarli, ho provato un profondo rispetto per la loro musica e per quello che hanno significato, ma allo stesso tempo mi sono da subito reso conto del fatto che i miei modelli musicali fossero presenti in altri generi. Oltre alla classica e al jazz di ogni epoca (con una maggiore inclinazione verso il jazz dagli anni Sessanta in poi) adoro la musica brasiliana, soprattutto bossa nova, samba e choro. Spero che l’amore e la fusione tra tutti questi generi che ho menzionato sia in qualche modo udibile nello scorrere dell’intero disco.
È un filo melodico a legare assieme questo album, che a tratti ha intriganti aperture cinematografiche da colonna sonora in progress. Era questo il risultato cui puntavi?
In realtà le colonne sonore hanno a mio parere un carattere più descrittivo, in generale sono abbastanza legate alle immagini sulle quali sono state concepite. Se però consideriamo «Punti di vista» come una colonna sonora del mio inconscio di musicista nato e cresciuto in Sardegna, allora l’accostamento suggerito potrebbe acquistare significato. Mi soffermo poi sulla sollecitazione rispetto agli aspetti melodici della mia musica, che per me sono alla base: senza melodia si rischia di scantonare in territori dove l’emozione viene meno e dove sovrabbondano tecnicismi che poco hanno di sensato e comunicativo. Mi piace poi il concetto della «melodia senza tempo», perché la musica per me deve essere sempre attuale a prescindere dal periodo in cui è stata composta. Si tratta sempre di cercare un equilibrio tra conoscenza tecnica e cuore, magari evitando virtuosismi fini a sé stessi.
Il quartetto è ben oliato e composto da musicisti in bella comunione. Il contrabbasso di Dessanay è un punto esclamativo corposo, luogo nevralgico dell’architettura musicale. Solido e ineccepibile il drumming di Migoni. Entrambi esprimono una sapienza di musicisti del nostro tempo, aperti e disponibili al confronto. E poi c’è quasi inatteso il lirismo al sax di Laura J Marras, una rivelazione, spumeggiante e ricca di risorse con una voce lirica che evoca in certi passaggi un maestro come Wayne Shorter. Una formazione che grazie a un preciso interplay dialoga in modo organico con il tuo progetto musicale. Come è stata costruita e maturata questa sintesi?
Una buona sintesi a mio parere si ottiene quando, da leader di un progetto, si dà la priorità a due fattori: Il primo è legato alla scelta dei musicisti, prediligendo quelli il cui suono naturale sia in linea con il tipo di composizioni proposte. Ad esempio, credo sia inutile mettere dentro un progetto di songs moderne un batterista rinomato per una sonorità hard bop, o magari un bassista che di base ama suonare il dixieland. Conoscevo molto bene le caratteristiche di ciascuno prima di coinvolgerlo nel progetto «Punti di vista» e ho puntato su quelle. Il secondo fattore è legato alla capacità che dovresti sviluppare in quanto leader nel far arrivare la tua idea musicale ai musicisti che hai scelto, nel senso che devi dare poche direttive ma essere chiaro nel delineare il recinto entro il quale vuoi che la musica si muova. In genere, già prima di partire con le prove fornisco, oltre a parti molto dettagliate, tracce audio di ciascun brano in cui suono io tutti gli strumenti con l’aiuto di tastiera e computer, per poter dare un’idea del tipo di interplay che ho in mente. Questo sistema mi fa risparmiare tempo: quando arriva il momento di entrare in sala prove, in genere dopo aver ascoltato la mia idea i musicisti hanno già capito come riuscire a rendere la mia musica. Sono influenzati dalle mie tracce audio, ma le interpretano a modo loro mantenendo la propria individualità e i guizzi creativi.
Disco di jazzisti sardi registrato in Sardegna. Ma con un’americana al banco di missaggio come l’americana Marti Jane Robertson, un’artista a tutto tondo ormai cittadina naturalizzata dell’isola. Come è stato lavorare con lei? Cosa ha aggiunto di suo all’opera discografica?
Con Marti Jane ho avuto a che fare molto spesso, per lavori sia miei che commissionati da altri. Lavorare con lei è un grande privilegio, per diversi motivi: innanzitutto è una grande professionista e conosce il suo lavoro come le proprie tasche. Non ci sono mai state incomprensioni tra me e lei, credo che entrambi sappiamo essere abbastanza rilassati nel lavoro e nel contempo diretti se qualcosa a qualcuno dei due pare non funzionare. Il risultato finale conferisce alla musica quella resa auspicabile in cui le caratteristiche di ciascuno strumento vengono esaltate ad altissimi livelli. Nel lavorare su «Punti di vista» c’è stata un’attenzione particolare, siamo tornati diverse volte su vari dettagli, non era semplice anche per via della presenza nel disco dei synth pads che rischiavano di sottrarre un po’ di frequenze agli strumenti acustici, ma alla fine è andata benissimo. Grazie Marti!
Quali sono gli appuntamenti nel prossimo futuro di Alessandro Di Liberto? C’è la tentazione nel futuro di un nuovo album in Olanda, tua seconda patria musicale?
Ho passato in Olanda (a L’Aja) quasi dieci anni della mia vita, si può dire che come musicista mi sono formato da quelle parti. Lì ho registrato due album, di cui uno fatto ad Amsterdam e interamente a mio nome, con Hein van de Geyn al contrabbasso e Eric Vloeimans alla tromba. Chissà, magari in futuro ci tornerò per registrare di nuovo. Intanto stiamo proseguendo con la promozione di «Punti di vista»: abbiamo già fatto alcune date, portando in giro il lavoro, e devo dire che siamo molto soddisfatti dei riscontri ottenuti finora. Suonare un disco dal vivo è sempre un’esperienza nuova perché le logiche dello studio sono abbastanza diverse da quelle del live: un disco è per sempre, è come una bomboniera ben confezionata; di un live si coglie ancora di più l’esperienza del momento e l’energia che da musicista sul palco riesci a sprigionare.
So dell’imminente uscita di una registrazione del 2018 di tue composizioni con la presenza di diverse star (alla batteria Peter Erskine, al sassofono Eric Marienthal)…
Per adesso con loro c’è stato solo un concerto, tenuto a Mogoro nel 2018. Brani arrangiati da me per quintetto e orchestra d’archi: purtroppo non abbiamo ancora avuto modo di giungere a un risultato in studio di registrazione, anche per via dei costi e della complessità del progetto. Ma non dispero, prima o poi realizzerò anche questo sogno.