Albinea Jazz 2025

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Sono trentotto anni che il festival di Albinea, paese ai piedi delle colline a sud di Reggio Emilia, si svolge nel parco di Villa Arnò, splendido esempio di stile architettonico neoclassico ispirato alla Rotonda del Palladio. Ogni edizione, sotto la direzione artistica di Vilmo Del Rio (che di Albinea è stato anche sindaco), presenta fior fior di musicisti, perlopiù collocati stilisticamente nell’ambito del modern mainstream, spesso nomi altisonanti, basti ricordare Wynton Marsalis che inaugurò la prima edizione del 1988, poi i vari Sonny Rollins, J. J. Johnson, Bill Frisell e Brad Mehldau. In questo 2025 è stata la volta del James Carter Organ Trio e della Mike Stern Band.

James Carter
Foto di Fabrizio Fontanelli

Da una ventina d’anni il sassofonista (tenore e soprano) e flautista James Carter guida un trio con Hammond B-3 e batteria: gli odierni Gerard Gibbs, organista, e Alex White, batterista, sono sodali di vecchia data, e di fatto hanno dimostrato sin dalle prime note del concerto come la loro intesa fosse perfetta, tanto da farli procedere disinvoltamente in modo naturale, dividendosi le parti solistiche pariteticamente (anche White ha preso diversi assoli, con i quali ha avuto modo di evidenziare la sua funambolica tecnica). Il clima è quello del blues e del soul, del r&b e del robusto swing degli honkers, primeggiandovi la maestria del leader che ha suonato sempre con spavalda energia sia il tenore, con un fraseggio hard bop legato al recente passato (quello di Eddie Lockjaw Davis e Gene Ammons, che pure furono a capo di gruppi con organo Hammond, con anche pizzichi d’antan di Louis Jordan), che il soprano, con una sintassi originale, astratta, spesso incanalata verso persistenti note acute.

James Carter
Foto di Fabrizio Fontanelli

Carter, facendo anche uso della respirazione circolare (con conseguente capacità d’un lungo periodare senza pause), di escursioni dissonanti, di slap-tongue mordaci, di sussulti e gemiti, ha presentato assieme ai compagni una musica estroversa, gioiosa e piena di groove.

Pure Mike Stern ha sprizzato energia e gioiosità attraverso una fusion sui generis (senza il piano elettrico, la canonica fusion ha meno possibilità di scivolare in liquide sonorità easy listening), mescolando jazz, rock e anche folk. Quest’ultimo è stato dato dall’uso sporadico d’uno strumento a corde tradizionale del Mali, lo n’goni, da parte di Leni Stern, moglie di Mike, che inoltre ha cantato con afflato pop e compassata e lamentosa espressività in un paio di brani, fra cui quello d’apertura (nel resto del concerto ha suonato la Stratocaster, prendendo anche qualche assolo di discreta, seppur non complicata fattura, comunque ben inseriti nel contesto).

Mike Stern
Foto di Fabrizio Fontanelli

È stupefacente come Stern sia riuscito ad arrivare a suonare come prima del brutto incidente avuto nel 2016, quando cadde inciampando in una massa di materiale edile mal riposto sulla strada, appena fuori dalla sua casa di New York, rompendosi entrambe le braccia e causando un danno permanente ai nervi della mano destra, tanto che, ora non potendo più tenere fra le dita il plettro, ogni volta se lo attacca al polpastrello con una speciale colla per parrucche e nastro adesivo (ma non riesce più comunque a eseguire il fingerpicking e i pizzicati). Con lui sono, oltre alla moglie, Bob Franceschini al sax tenore, Jimmy Haslip al basso elettrico e Dennis Chambers alla batteria, che lo hanno accompagnato parecchie volte nei trascorsi cinquant’anni di carriera e che ad Albinea, presentando il suo ultimo disco, «Echoes And Other Songs», hanno eseguito una musica estremamente varia, sia come mood (irruento o estatico, allegro o riflessivo), che come stile (si è passati dal jazz al funk, al blues, al pop e al rock: il leader ha anche inusualmente cantato con foga eccitante Red House di Jimi Hendrix), sia come tipi di arrangiamento, risultati semplici o complicati, ma quest’ultimi eseguiti con così tanta naturalezza da sembrare semplici, intrecciando poliritmie, introducendo stop, lanci e stacchi e impostando i brani in modo da iniziare in sordina per poi crescere d’intensità e volume. Solamente un esteso brano centrale non ha avuto movimenti di dinamica, con Chambers impassibile e regolare come un metronomo a segnare sul charleston i sedicesimi e con Haslip a muovere asimmetricamente rade figure di basso, dando così modo ai solisti di intervenire con lunghi assoli: Franceschini ha giostrato fluidamente con una pastosa sintassi post-bop che ogni tanto s’è andata a increspare negli acuti, mentre Stern, usando con parsimonia la pedaliera degli effetti (anche per questo aspetto distanziandosi dalla fusion canonica), imbastisce turbinii di note che vanno a costruire fraseggi che risentono nei brani più irruenti dell’influenza di John Coltrane e Wes Montgomery, in quelli più quieti di Jim Hall, in quelli rock di Hendrix, sempre infarcendo ogni passaggio con generose dosi di blues feeling.
Aldo Gianolio

 

 

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