Roma, Casa del Jazz
12 luglio 2023
Il trittico chitarristico di Summer Time (in programmazione i concerti di tre giganti come Lage, Ribot e Frisell) è proseguito con l’attesissimo concerto dei Ceramic Dog (questa dizione ci sembra preferibile a quella «Marc Ribot’s Ceramic Dog», nel rispetto del grande senso di gruppo che i tre sanno dimostrare), il trio composto da Marc Ribot, Shahzad Ismaily e Ches Smith. L’attesa era doppiamente motivata, considerando anche che i tre presentavano il nuovo disco, uscito il 14 luglio, «Connection» (Ribot ha saputo scherzare sul punto, dicendo che soltanto dei ragazzi davvero speciali concluderebbero il proprio tour prima dell’uscita del disco), il quinto in carriera, dal 2008 ad oggi. L’occasione è stata preziosa anche per presentare l’edizione italiana della sua (quasi) autobiografia Nelle mie corde. Storie e sproloqui di un chitarrista noise, edita da Sur (naturalmente nella collana BigSur, dedicata alla cultura di lingua inglese).
Il set ha visto i tre schierarsi con il chitarrista al solito seduto, Ismaily in posizione centrale, contorniato dalla pletora di strumenti utilizzati (basso, chitarra, moog, un piccolo set di batteria, vari pedali) e Smith con una batteria installata in modo da poterne contenere (a stento, per la verità) la furia, con piatti altissimi, e qualche diavoleria elettronica. Ribot nel presentarsi ha ironicamente detto: «Ci sono io, naturalmente, poi c’è Ches alla batteria e Ismaily che pensa a suonare tutto il resto».
La scaletta ha previsto soprattutto pezzi dal nuovo album, che si presenta come il migliore del gruppo e opera di livello assoluto (secondo chi scrive una delle migliori uscite dell’anno) e l’esibizione ha confermato pienamente questa sensazione, offrendo l’idea (e forse qualcosa di più) di un trio all’apice delle proprie possibilità espressive, in piena maturità, capace di mettere totalmente a fuoco, come forse non mai, tutti gli elementi di una proposta contrassegnata da un onnivoro sincretismo, sciogliendo alcune delle ambiguità stilistiche del passato, senza ammiccamenti di sorta.

Così, in una atmosfera infuocata (qualcuno su Facebook, con piena ragione, ha parlato di «mazzate di fuoco»), talora contrassegnata da una furia espressiva ai limiti della violenza, è andata in onda la visione post-tutto che rende Ribot un artista assolutamente unico, fatta di scomposizione e assimilazione di qualsiasi materiale e di distorsioni e de-costruzioni abrasive e dissacranti, destinate poi a ricomporsi in coerenza e in sconsolate oasi melodiche e di canto, secondo quella «blasfema continuità di sensazioni» osservata da qualcuno, che ci sembra offra ancora una insuperata definizione in sintesi della sua arte.
Nella scaletta sono stati presentati molti brani del nuovo disco (quasi tutti, in verità), come già si diceva: Connection, Subsidiary, Soldiers In The Army Of Love, Ecstasy, That’s Entertainment, Order Of Protection. Non sono mancati alcuni recuperi dai dischi del passato, come una pulsante Digital Handshake (da «Party Intellectuals», 2008), Lies My Body Told Me, Your Turn e Masters Of Internet (da «Your Turn», 2012), Pennsylvania 6 6666 (da «YRU Still Here?», 2018) e B-Flat Ontology (da «Hope», 2021). Il nuovo brano Crumbia, è stato offerto come bis: «giusto per farvi ballare un po’».
Come si diceva, la musica è parsa perfettamente a fuoco, come se il gruppo avesse finalmente completato un processo di sintesi, che nasce dall’approccio sinora posto in atto, e la pars destruens potesse dirsi finalmente conclusa: viene spontaneo pensare alla famosa frase di Peter Brötzmann, secondo il quale «una società crudele ha bisogno di un po’ di musica crudele», che ci sembra particolarmente attinente alla musica di Ribot e di Ceramic Dog e a questi tempi, di distruzione e rottura di equilibri, in attesa (forse) di una nuova sintesi.

Non sembra esagerato dire che il concerto è stato tra quelli che ognuno dei presenti (moltissimi, come da aspettative) potrà ricordare per anni.
Sandro Cerini