Jazz à Vienne riparte dall’Africa.

Quarantesima edizione per la rassegna musicale francese

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La quarantesima edizione della rassegna musicale francese Jazz à Vienne avrebbe dovuto celebrarsi l’anno scorso ma per ovvie ragioni l’appuntamento al Teatro Antico di Vienne, in Francia, è stato rimandato a quest’estate. Probabilmente è per questo, per il lungo periodo di pausa, che il pubblico, numerosissimo nonostante il limite di presenze imposto dal governo, sembra più incline all’entusiasmo, alla festa. Perché quella che si celebra nella prima serata del Jazz à Vienne ha il sapore del ritorno alla normalità, nonostante tutto. Nonostante, infatti, per accedere all’anfiteatro romano bisogna esibire un certificato vaccinale o un test PCR negativo, una volta dentro si ha subito la sensazione di una libertà riconquistata.
Per questa edizione, Jazz à Vienne ha scelto di ripartire dall’Africa, portando sul palco a tre artisti per un totale di tre ore e mezza di musica che, dal tramonto del sole, animerà la platea fino a tarda notte. L’apertura dello spettacolo è affidata alla voce di Julia Sarr, cantante senegalese che per anni è stata vocalist, tra gli altri, di Tony Allen, tra i pionieri dell’Afrobeat, Youssou N’Dour e Miriam Makeba. Il repertorio che propone incarna la delicatezza della sua voce e attinge ai lavori del 2005 3 del 2014, fortemente ancorati alla propria terra, nella lingua e nei movimenti armonici. Proiettato verso sonorità più elettriche, invece, è il suono della chitarra di Keziah Jones con cui il baricentro dello spettacolo si sposta non solo dal Senegal alla Nigeria, suo Paese d’origine, ma anche da armonie melodiose a riff più acidi ripescati dal bellissimo Blufunk is a Fact, suo disco d’esordio, fino a Capitain Rugged. Il risultato è una catarsi collettiva che vede nel pubblico una sorta di coprotagonista. Mentre sul palco i riff si susseguono convulsi, sulle gradinate dell’anfiteatro si stenta a star fermi, in molti danzano, esultano, si contorcono dando l’impressione che chiunque decida di calcare il palco dopo Keziah Jones non possa fare di meglio. E, invece, l’artista che prende in carico la terza parte dello show ha le spalle larghe e una lunga storia da raccontare. Salif Keita.
Salif Keita, l’albino di Mabako, capitale del Mali, è un fiume in piena, un tornado inarrestabile. Sul palco si condensa tutta la forza della sua terra, la grandezza delle sue origini a permeare ogni nota, ogni colpo inferto sulle pelli dei tamburi schierati alle sue spalle, ogni arpeggio di kora. Su tutto, però, primeggia la sua voce, acuta, potente, spesso accompagnata dal canto della platea. Accade su Yamore, Africa, One Of a Kind e, ovviamente, su Madan, tra i suoi brani più noti. Quello di Keita è un canto armonioso e teso che descrive un continente complesso e affascinante quanto quello africano. Ma, soprattutto, è un canto necessario che ridona centralità a una cultura millenaria troppo spesso soggiogata dal colonialismo europeo e che adesso, proprio nel cuore dell’ex potenza coloniale, trova riscatto.
Pietro Scaramuzzo

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