Brandon Woody: For The Love Of It All

Ventisei anni, e già un curriculum strapieno di esperienze ad alto livello: il trombettista di Baltimora esordisce su Blue Note con un brillante album e farà parlare molto di sé

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Creata da David Simon, un ex reporter del Baltimore Sun, The Wire è considerata una delle serie più importanti e realistiche nella storia della televisione. Racconta Baltimora, la più grande città del Maryland, da diversi punti vista (quello della polizia, quello degli spacciatori di droga, della scuola, della politica e anche del giornalismo) ed è speciale perché non è soltanto una serie poliziesca ma un ritratto sociale stratificato della città. La sua colonna sonora – brani dei Blind Boys of Alabama, Neville Brothers, Solomon Burke, Michael Franti, Blaze, Rakim, Labtekown (un rapper piuttosto noto da quelle parti), DoMaJe (un ensemble vocale) – vi da un’idea ben precisa dell’aria musicale che vi si respira e dell’importanza che l’idioma afro-americano ha avuto, e ha tuttora, nella maturazione della sua scena musicale. Proprio così. Perché Baltimora ha una storia musicale particolarmente ricca e interessante soprattutto per quel che riguarda il jazz e più in generale la black music. Ha dato i natali a Eubie Blake, pioniere del jazz e del ragtime, e a Gary Thomas, il sassofonista che ha suonato per un breve periodo di tempo con Miles Davis e più a lungo nella band di Jack DeJohnette, oltre ad aver collaborato con mostri sacri come Herbie Hancock, Wayne Shorter, Wallace Roney, Steve Coleman, Greg Osby solo per citarne alcuni. Carmen McRae, sebbene non fosse nata a Baltimora, vi era assai legata, e si può considerare a tutti gli effetti un’artista che ha fatto parte della sua scena jazz. Nel 2004 i Fertile Ground pubblicarono «Black Is…» un disco fondamentale per chi ama la musica nera, una sorta di ponte che unisce il jazz spirituale al soul afrocentrico e al funk, un incrocio tra Earth, Wind & Fire, Gil Scott-Heron e Roy Ayers, un inno all’identità nera e all’amore. A Baltimora è nata Maysa, ex cantante degli Incognito, dalla voce molto raffinata che nel 2013 con «Blue Velvet Soul» strizzava l’occhio a Minnie Riperton da un lato e a Sade dall’altro. Molti dei musicisti della città si muovono su territori in cui la slam poetry incontra il jazz e l’hip hop. Poi – ciliegina sulla torta – non va dimenticato che Baltimora è la città dove Tupac Shakur è diventato un artista a tutto tondo frequentando la Baltimore School for the Arts dove ha studiato teatro, poesia, jazz, recitazione e danza ben prima che diventasse l’icona del rap che tutti conosciamo. E oggi da Baltimora arriva Brandon Woody con un disco d’esordio, «For The Love Of It All», che parla chiaro, proponendo una musica radicata nella tradizione ma fortemente aperta al presente. Brandon suona la tromba con uno stile personale e intenso ed è cresciuto nella scena locale tra club e sessions improvvisate. Con questo disco d’esordio, pubblicato per la Blue Note, ci invita ad ascoltare la sua voce dimostrando di avere molto da raccontare.

Brandon Woody

Questo è il tuo debutto discografico che si presenta già come un album musicalmente maturo. Mi racconti qualcosa di te?

Sono un trombettista di Baltimora, Maryland. Ho 26 anni. Suono da quando avevo circa sette/otto anni. In realtà ho iniziato suonando la batteria ma non ero bravo. Ricordo che il mio desiderio era quello di essere coinvolto nella musica e, nonostante i miei insuccessi con la batteria, dopo che ebbi finito le elementari mi chiesero di scegliere quale strumento volessi suonare (a parte la batteria!). Potevo scegliere tra tromba e sassofono. Scelsi la tromba, pensavo che sarebbe stato uno strumento più semplice perché aveva meno tasti. Non sapevo a cosa andassi incontro. Non sono riuscito ad emettere alcun suono per settimane. Quando ci riuscii portai lo strumento a casa e la cosa divenne molto seria. Col passare del tempo mi ci dedicavo sempre di più. Devo dirti che ho mosso i miei primi passi nella musica nel sistema scolastico pubblico di Baltimora ma anche privatamente perché mia madre mi faceva partecipare a diversi corsi estivi. Uno di questi fu lo Ub Blake Jazz Summer dove incontrai il mio mentore, uno straordinario sassofonista e polistrumentista, Craig Austin, che mi fece conoscere moltissimi generi di musica nera. Tramite lui ho imparato un sacco di cose su Michael Jackson, Quincy Jones, Miles Davis, Sonny Rollins. Avevo solo otto anni. Avevamo in comune il fatto di essere nati lo stesso giorno. Ho sempre pensato che ci fosse un legame speciale tra di noi e lo consideravo una specie di angelo custode. Ricordo molto bene che, a quell’epoca, prima di suonare la tromba avevo la sensazione di trovarmi delle farfalle nello stomaco. Non sapevo a cosa addebitarla ma era un buon modo per essere sulle spine e quindi pronto a suonare in un certo modo. Ho seguito molti corsi in tutto il Paese. Ricordo di aver frequentato un programma che preparava i bambini allo studio della musica, al Peabody una specie di Conservatorio di Baltimora dove andavo ogni sabato e imparavo un sacco di cose. Poi ho frequentato una scuola media, la Cross Country che aveva un ottimo programma musicale. Da lì sono andato al liceo e ho frequentato la Baltimore School for the Arts, la stessa che hanno frequentato Tupac e Jada Pinkett Smith, la famosa attrice, e gente come Antonio Hart, Tim Green, Mark Gross, un sacco di musicisti fortissimi. Ricordo anche che la mia prima audizione per far parte di un gruppo jazz non andò bene ed ero piuttosto arrabbiato: stavo studiando tutta quella musica europea, stavo imparando il contrappunto e il solfeggio, cantavo il Requiem di Mozart come membro del coro e non riuscivo a far parte di un gruppo jazz. Quindi decisi insieme ad alcuni miei amici tra cui Troy Long, il mio attuale pianista e che suona anche nel disco, di mettere su una nostra band. Eravamo al primo anno di liceo, non sapevamo molto di armonia, non avevamo una grande tecnica, però eravamo mossi da un sacco di energia. Quella fu un’esperienza importante per me, infatti l’anno successivo oltre che in quel gruppo suonavo anche in una big band. In quel periodo partecipai ad un corso estivo che ebbe un grande impatto su di me perché lì incontrai la maggior parte dei musicisti con cui suono tuttora. Era il Berklee Jazz Workshop a Boston, durava cinque settimane, avevo quattordici o quindici anni e lì ho potuto studiare con Terri Lynn Carrington, Rick DiMuzio, Tiger Okoshi oltre ad aver incontrato tanti musicisti provenienti da tutte le parti del mondo, dall’Italia, dalla Georgia – non sapevo neanche che esistesse un’altra Georgia che non fosse quella americana – da Israele, da Parigi, New York, Boston. Ed erano tutti più bravi di me: questo rappresentava un grosso stimolo che mi spinse a cercare di migliorare la mia tecnica sullo strumento. In seguito mi iscrissi al Brubeck Institute nel nord della California a Stockton, a più di tremila miglia da Baltimora, non credo tu ne abbia mai sentito parlare ma era un college fantastico dove per la prima volta provai una sensazione di indipendenza che contribuì a farmi capire qualcosa in più su me stesso. Avevo solo diciotto anni e ho fatto delle esperienze estremamente formative durante quel periodo. Ambrose Akinmusire suonava mentre ero lì, al college studiavo con Stefon Harris e il mio compagno di stanza era un sassofonista straordinario. Probabilmente ne hai sentito parlare, si chiama Isaiah Collier, facevamo musica insieme durante quel periodo. Era una scuola molto piccola, eravamo una classe di sole cinque persone e in più ogni giorno facevamo delle lezioni private e individuali. Ho scritto in quel periodo un sacco di musica che suono ancora oggi. A un certo punto il mio maestro Stefon Harris divenne il preside della Manhattan School of Music di New York, il direttore del programma di jazz di quella scuola, e mi chiese di seguirlo. Accettai innanzitutto perché tenevo al mio rapporto con Stefon ma anche perché ovviamente New York è molto più vicina a Baltimora di Stockton, quindi potevo tornare a casa con più frequenza, trascorrere più tempo con mio fratello che viveva anche lui a New York, potevo andare in giro per i suoi jazz clubs infatti ho conosciuto Roy Hargrove e un sacco di altri musicisti. Partecipavo alle jam notturne e, come potrai immaginare, anche questa esperienza ha contribuito notevolmente a farmi crescere come musicista. A New York lavoravo e, di conseguenza, guadagnavo molto come freelance. Avevo moltissimi ingaggi e prendevo un sacco di lezioni private, ma soprattutto suonavo, la più grande lezione per un musicista. Ero immerso nella musica e non prendevo lezioni accademiche, né lezioni sulla storia del jazz. Semplicemente suonavo perché volevo imparare da quelli più bravi di me, sentivo che non avevo bisogno di lezioni da insegnanti – con tutto il rispetto – bianchi che non mi trasmettevano altro se non teoria. Quindi, visto che smisi di andare a lezione, sospesero la mia borsa di studio e nel maggio del 2018 me ne tornai a Baltimora, un po’ frustrato dall’accaduto. Nel mio album c’è un brano che ho intitolato Wisdom, Terrace on Saint Paul Street in cui voglio riferirmi al fatto che a volte, nella vita, avvengono delle cose inaspettate, impreviste che ti mettono di fronte a dei cambiamenti che se visti da un’altra prospettiva possono rivelarsi addirittura positivi. Quella è stata una delle più grandi lezioni che mi sono state impartite: in quell’occasione davvero ho toccato il fondo per poi risalire lentamente la china. Mi trasferii in un appartamento a Saint Paul Street a Baltimora, al numero 1127, East Middle e lì ho conosciuto un sacco di gente e ho avuto la possibilità di fare molta pratica sullo strumento. Troy viveva dall’altro lato della strada, ci siamo reincontrati e abbiamo ripreso a suonare insieme. Ogni giorno durante tutta l’estate. Incontrai Theljon Allen uno dei miei trombettisti preferiti di Baltimora, con il quale presi a suonare in duo. Theljon mi ispirò moltissimo. Avevo una gig mensile in una jazz venue molto cool, An Die Musik, di proprietà di un mio amico, Henry Wong, molto conosciuto nell’ambiente jazz di Baltimora, e fu una grande occasione per me perché avevo l’opportunità di creare la mia musica senza condizionamenti con i musicisti con i quali mi trovavo maggiormente a mio agio, Troy Long, Quincy Phillips, Mike Saunders, Charles Wilson che mi ha aiutato a scrivere Never Gonna Run Away, la cantante Imani-Grace. In quel periodo suonavo con un sacco di gente, oltre quelli che ti ho già nominato c’è il batterista Kweku Sumbry, che suonava nel mio gruppo a quei tempi. Lo stesso gruppo che da quel momento in poi prese forma e sviluppò qualcosa di personale. Il titolo del disco, «For the Love of It All», riguarda la mia gratitudine per tutto quello che mi è successo nella vita fino a ora, sia in senso positivo sia negativo. So che il focus di questa intervista è sul mio lavoro d’esordio ma ne approfitto per ricordare due fratelli che purtroppo non ci sono più, Rodney James, uno straordinario sassofonista che ho incontrato all’inizio del mio viaggio nella musica e Micah Smith, un vocalist di Baltimora morto all’età di 41 anni. Che possano riposare in pace. Tutti e due hanno avuto una forte influenza su di me. Sono morti recentemente entrambi ed è una cosa che mi ha toccato molto. Sono molto legato ai musicisti che suonano con me in «For the Love of It All», siamo cresciuti a Baltimora, in un posto così crudo, con una prospettiva che ci accomuna e che ci permette di portare al di fuori di essa la nostra esperienza di musicisti, nel bene e nel male. Siamo molto affiatati, lavoriamo bene insieme e siamo uniti dalla nostra vulnerabilità. Abbiamo persino rischiato di essere arrestati a New York un paio d’anni fa! Con questo disco voglio onorare tutti quelli che finora hanno creduto in me, Quincy, Troy, Mike, Imani, Vittorio, tutti i musicisti che hanno lavorato con me, e poi la Blue Note, la città di Baltimora, la mia famiglia, i miei amici, tutti quelli della mia comunità, musicale e non, Cory Baker, Gary Thomas, Marc Carey, Casey Benjamin (che possa riposare in pace anche lui). Ogni parte dell’album, dall’inizio alla fine, è pensata per restituire tutto quello che la vita ci ha dato. Never Gonna Run Away è un mantra che vuole rimarcare il fatto che non mi tirerò mai indietro rispetto a quelle che sono le mie responsabilità, la sua melodia è molto semplice e ripetitiva. Beyond the Reach of Our Eyes si riferisce alla nostra vulnerabilità e alla presa di coscienza che ognuno di noi deve raggiungere per conoscere sé stesso. Dimenticavo di citare una persona molto importante per me, una mia amica, la poetessa e scrittrice Nia June, per quale io e Troy abbiamo scritto tanta musica, che mi ha aiutato nella stesura dei brani cercando di metterli insieme nella maniera più poetica possibile. E ora fammi riprendere fiato!     

Nelle note che la Blue Note ci ha trasmesso c’è scritto che la frase «never gonna run away», che poi è anche il titolo della prima traccia dell’album, è diventata un mantra per te. Che significa?

Quel che ti ho detto prima. Non scapperò mai davanti alle mie responsabilità.

Brandon Woody

Parlami delle tue influenze musicali. Come trombettista e come compositore…

Come ti ho detto Theljon Allen, anche lui di Baltimora, una delle mie più grandi influenze musicali, Craig Austin, Tim Green, Gary Thomas. Adoro Christian Scott, sono un grande fan di Roy Hargrove. Quincy Phillips, il mio attuale batterista, ha suonato con Roy nell’ultimo periodo della sua vita prima che venisse a mancare. Ambrose Akinmusire con il quale ho studiato durante il periodo del college, Cecil Bridgewater, ho studiato anche con lui, Stefon Harris. Sono anche un fan di molti miei amici, Indie Buzz, un fantastico songwriter, Kweku Sumbry, uno straordinario batterista, Troy Long che suona con me; e la lista potrebbe continuare per molto. Keyon Harrold, Jeremy Pelt, e poi musicisti che purtroppo non ci sono più come Freddie Hubbard e Booker Little, che ci hanno lasciato una grossa eredità e che hanno molto ispirato il mio suono. Louis Armstrong. Con un mio amico, Luther Allison, mi sono immerso nella musica di New Orleans e a tal proposito Ashlin Parker è un trombettista di New Orleans che apprezzo molto.

Come compositori? 

Tutti i musicisti che ti ho nominato sono anche compositori. Terence Blanchard è un compositore fantastico, ovviamente Herbie Hancock.

Ascoltando la tua musica percepisco un certo tipo di consapevolezza che oggi sta tornando ad essere presente nell’universo afroamericano…

Se ti riferisci a ciò che accade nel resto del mondo devo esserne consapevole. A volte sembra che il mondo stia andando a fuoco, che stia cadendo a pezzi. Troppa negatività con tutte le guerre che ci sono e specialmente negli Stati Uniti questa negatività si percepisce moltissimo. Solo violenza. La mia musica vorrebbe essere un antidoto a tutto questo, spero che arrivi in Sud Africa, in Italia, nel Regno Unito, in Giamaica, ovunque con il suo messaggio di pace.

«For the Love of It All». Perché quindi questo titolo?

Non vorrai mica farmi ricominciare da capo…

Mi piacerebbe che mi raccontassi qualcosa sul tuo legame con la tradizione…

È scolpita dentro di me. Sono afro-americano, nero e cresciuto a Baltimora, una delle città più black di tutti gli Stati Uniti. Ogni giorno vivo e respiro nella tradizione della mia gente. Il blues è dentro di me naturalmente, non devo impararlo, è nel mio codice genetico, nel sangue.

Brandon Woody
Brandon Woody con la sua band: Troy Long, Quincy Phillips, Michael Saunders

Che tipo di musica ascolti di solito?

Tutti i tipi di musica. Ma soprattutto amo ascoltare quella che suonano i miei amici. Mi piace anche molto il rap di Baltimora.

Quali tra i musicisti delle nuove generazioni sono quelli che secondo te stanno suonando qualcosa di interessante?

Milena Casado, una bravissima trombettista. Chi altri? Morgan Guerin, un pianista. Cisco Swank, un polistrumentista che fa hip hop, Savannah Harris e Brian Richburg, batteristi, Luther Allison, il mio amico pianista, Markus Howell, sassofonista, Kasan Belgrave, alto sax, Christie Dashiell, vocalist. La nostra da questo punto di vista è una generazione fortunata: ci metto anche i musicisti con cui suono, Troy Long, Michael Saunders, Quincy Phillips, anche se lui è un po’ più grande di noi. Immanuel Wilkins, naturalmente. Charlie Powell, chitarrista, vive a Baltimora ma è di Chicago come Cyrus Mckey, un altro bravo chitarrista. Isaiah Collier, il mio compagno di stanza sassofonista: la sua voce sullo strumento ti stende, Adam O’Farrill, trombettista, Joe Giordano, trombonista, Alfredo Colón, sassofonista, Joel Ross. E non posso trascurare Nazir Ebo, mio grande amico di Filadelfia e gran bel batterista. Ma ce ne sono tanti altri.

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