Residente a Bologna ma originario di Carpi, il sassofonista Manuel Caliumi è uno dei più interessanti giovani interpreti italiani del suo strumento. Negli ultimi anni è stato protagonista di progetti diversi, in piccoli ensemble o in contesti più orchestrali e qualche volta anche a sostegno delle voci, portando sempre il suo approccio originale. Il suo stile privilegia l’energia dell’improvvisazione, che di volta in volta adatta ai diversi contesti in cui opera, e la cura del suono, ricco di timbri diversi, con un occhio alla tradizione e uno alla contemporaneità. Con lui abbiamo ripercorso le diverse tappe del suo percorso artistico e lanciato uno sguardo sui progetti futuri.
Benvenuto su Musica Jazz, Manuel! Come sei approdato alla scelta del jazz come professione e alla scelta del tuo strumento? Hai qualche musicista in famiglia?
Io esordisco, se possiamo dire così, da ragazzino come chitarrista «da oratorio», strimpellando i cantautori. I miei genitori, che non sono musicisti, vedendo che la cosa mi appassionava mi hanno proposto di andare al Conservatorio di Carpi, la mia città, a seguire i corsi propedeutici e di avviamento alla musica: educazione all’ear training, al solfeggio, al canto, insomma, alla musicalità in senso generale. Quando è arrivato il giorno della scelta dello strumento principale, ero convintissimo di dedicarmi alla chitarra. Ma appena ho sentito il suono del sax mi si è accesa una lampadina e mi sono innamorato subito della profondità del suono, che è il più vocale, il più umano. Ho sentito una cosa a livello fisico nello stomaco, nelle viscere. Poi in realtà non ho continuato il Conservatorio, ci sono tornato da grande, nel 2014, a 19 anni, iscrivendomi Parma. Ho avuto una serie di fermate e di ripartenze, diciamo così….
Ti ricordi qual è il primo brano jazz che hai ascoltato?
Assolutamente sì, perché mi ha cambiato la vita! Messo da parte temporaneamente il Conservatorio, facevo lezioni private di musica più moderna. Avevo undici anni e mi ricordo che un pomeriggio il docente mi chiese se avessi mai ascoltato Charlie Parker. Ovviamente non sapevo chi fosse. Allora lui tira fuori dalla sua vecchia borsa un cd, lo mette nel lettore dell’aula e fa partire Yardbird Suite. In quel preciso momento la mia testa fece uno switch e da quel giorno in poi non ho fatto altro che ascoltare jazz. Quel brano ha creato una scissione chiarissima tra quello che ascoltavo prima e quello che venne dopo. Passa una settimana e vado nell’unico negozio di dischi di Carpi, in cui c’era una piccola sezione jazz. Con la paghetta dei miei genitori ho comprato «A Love Supreme», anche solo per un fattore estetico: il bianco e nero, quella foto pazzesca… Ho pensato: «Dev’essere mio!» Non facevo altro che ascoltare Coltrane, o Parker, o Cannonball.
È in quel periodo che è sbocciata l’idea di fare il musicista di mestiere?
In realtà prima di tornare al Conservatorio ho conseguito un diploma da informatico e come tale ho lavorato per tre anni in un’azienda di Carpi. Avevo 18-19 anni e facevo una doppia vita: la mattina andavo in ufficio e di notte facevo anche le 3 o le 4 a suonare, alle prove o a studiare. Poi sono arrivato a un punto di rottura, mi sono convinto che volevo dedicarmi alla musica e basta: ne sentivo il bisogno fisico. La mia prima uscita discografica è stata «In Your Thoughts» con il progetto Archipelagos, una formazione con cui ho vinto il Concorso Stefano Cerri a Milano nel 2017 e che comprendeva Francesco Pollon al piano, Simone di Benedetto al contrabbasso e Marco Soldà alla batteria. Quasi in contemporanea è uscito anche il primo lavoro con Blend 3, la formazione di più lunga durata tra quelle cui partecipo, e tutt’ora attiva.
Prima hai citato tre maestri assoluti, tre «classici» del tuo strumento. Invece tra i contemporanei c’è qualcuno che apprezzi in particolare, che magari è un po’ un punto di riferimento per te?
Uno che è fonte di ispirazione costante per me e che ascolto tantissimo è Tim Berne, lui e tutto il giro di musicisti che gli ruotano attorno, da Craig Taborn a Ralph Alessi, da Marc Ducret a Matt Mitchell. Mi piace come sassofonista ma soprattutto come compositore.
Come convivono in te le due vocazioni di strumentista e compositore? Ti senti più portato in una cosa che nell’altra?
Nei brani che compongo privilegio una scrittura molto serrata, con pochi parametri, per poi lasciare spazi più ampi all’improvvisazione. In questo senso posso dire che mi sento più strumentista e improvvisatore: diciamo che mi viene più spontaneo come approccio. Nella scrittura mi rendo conto che in realtà sono piuttosto lento, butto via tante cose perché fatico a trovare una quadra e per arrivare a un brano che mi soddisfi impiego parecchio tempo. Sono molto critico con quello che faccio e tendo a fare e disfare in continuazione, rimettendo in discussione brani che avevo già chiuso. Ho diverse cose nel cassetto ma fatico ad arrivare a un editing definitivo. Ho bisogno di avere la testa libera, mentre dedicarmi all’improvvisazione mi è più consono e immediato. Però proprio in quest’ultimo periodo mi sto imponendo di scrivere di più, trovando magari una sintesi più efficace tra le diverse influenze che ho.
Torniamo al progetto Blend 3 cui accennavi prima. Ci vuoi raccontare com’è nato e la sua evoluzione?
Con Andrea Grossi e Michele Bonifati ci siamo conosciuti al Conservatorio di Parma. Il trio è nato in quel periodo con composizioni di Andrea, che funzionavano bene con questo tipo di ensemble senza batteria, senza un supporto ritmico. L’excursus del gruppo ha poi conosciuto diverse fasi. Il primo album, «Lubok» (2019), riunisce la cellula originale del progetto, dopodiché il trio si è allargato in varie forme, a partire dalla Blend Orchestra di «Four Winds» (2000). Nel terzo disco, «Songs and Poems» (2022), con Beatrice Arrigoni, compare la voce come strumento aggiunto, mentre invece «Axes», uscito lo scorso anno, ha come illustre ospite Jim Black. Inserire un batterista di forte personalità come Jim, che tutti noi adoriamo per il tipo di estetica musicale, ha chiaramente indirizzato la sonorità in un’altra direzione. Fin da subito l’idea di Andrea è stata quella di concepire una rosa di pezzi anche molto diversi tra loro come scrittura – qualcuno più denso, qualcuno più strutturato, qualcuno più libero… – senza fissare una scaletta durante i live ma avere tutto in testa e decidere sul momento, creando ogni volta qualcosa di unico, con un equilibrio diverso tra composizione e improvvisazione.
Quando ti trovi a suonare con dei colleghi, quali sono le caratteristiche con cui preferisci confrontarti? È importante che ci sia un leader o è meglio che tutti siano sullo stesso piano?
A me piace molto essere un sideman, e ogni volta sono contento di essere chiamato nei progetti di altri compositori perché adoro provare a mettere «il mio» nella musica e nella scrittura di un altro. E anche solo per il fatto di essere coinvolto, penso che chi mi chiama abbia in qualche modo pensato che si potesse mettere insieme il modo in cui suono con la sua musica. Mi piace avere a che fare con «penne» diverse e mi trovo bene con un leader che mi metta davanti un canovaccio, della materia grezza da sviluppare. Amo mettermi in gioco, trovare una quadra per capire come funzionare in un determinato contesto. Mi obbliga a non viaggiare con il pilota automatico.
Nel secondo progetto importante di cui fai parte, il trio HackOut! con Luca Zennaro alla chitarra e Riccardo Cocetti alla batteria, siete tutti compositori…
Esatto, quello è un interessante progetto di co-leadership, un trio collettivo! Con HackOut! siamo arrivati al terzo disco: tutto è nato nel 2019 e durante il Covid ci siamo trovati per concepire la musica del primo disco, «Cedrus Libani», che è uscito poi nel 2021. Il progetto si è evoluto tantissimo: siamo cresciuti come singoli e insieme, cambiando approccio strumentale e compositivo, ma la filosofia è sempre stata quella della co-leadership. Di volta in volta c’è chi porta un linea melodica, chi un riff, chi un’idea armonica o concettuale… Nei dischi abbiamo anche dei brani scritti totalmente insieme, come una vecchia rock band che si trova nel garage a provare partendo da zero e tirando fuori qualcosa di strutturato. Anche in questo ambito comunque, negli ultimi due lavori, abbiamo cercato di andare in una direzione che lasciasse spazio a diversi momenti di improvvisazione libera, con poche indicazioni e pochi parametri: dall’improvvisazione collettiva o singola a quella magari in duo, come se fosse un piccolo organico. I diversi ruoli vengono sempre messi in discussione e ribaltati.
Luca Zennaro mi ha detto una cosa interessante di te, e cioè che sei bravissimo a interagire con l’ambiente nel quale ti trovi (la sala, lo studio) lavorandoci sopra…
Luca è un musicista estremamente empatico e ci ha beccato di sicuro! Effettivamente il luogo in cui mi trovo mi influenza molto. A volte mi diverto a cambiare: andavo a studiare nel camper di mio padre di notte in zona industriale e c’era un’acustica, mi spostavo in una chiesa e ce n’era un’altra. Durante il Covid, per ovvie ragioni, mi sono trovato dal cambiare posto in cui suonavo tutti i giorni al rimanere forzatamente in casa con il sax. Ho iniziato a suonare tantissimo da solo, e ho capito che era un pratica che mi interessava tantissimo sviluppare, al punto che poi ci ho scritto la tesi del biennio al Conservatorio di Rovigo. Ma a parte questo, mi sono reso conto di quanto conti il contesto. Quando poi dalla camera mi sono spostato nell’auditorium del Conservatorio, davanti alla commissione, era come se uscisse una roba che non avevo mai provato…
Riflettendo sul tuo stile al sassofono, mi pare di cogliere sia una profonda ricerca sulla sonorità che un costante confronto con certa musica contemporanea europea.
La ricerca del suono, del timbro del sassofono, è fondamentale ed è una cosa su cui ho lavorato molto. La mia sonorità risente magari del retaggio degli ascolti dei vecchi caposcuola, poi però ho cercato di renderla più moderna, più spigolosa, anche perché mi piace molto quel tipo di drammaticità che ne scaturisce. Detto questo ho sempre suonato sia in progetti di taglio più schiettamente afroamericano, sia in contesti che hanno magari una derivazione più europea per scrittura, per contrappunto. Mi è sempre piaciuto ascoltare tanta musica contemporanea: Berio, Nono, Ligeti, Messiaen, tutti questi compositori che sviluppano una forte ricerca timbrica dell’organico che hanno davanti. E lavorano per sinestesia, partendo da un’immagine prima e trasponendola poi su carta.
Una domanda un po’ diversa. Proviamo a fare una sorta di controcampo rispetto a quanto detto finora. Quando sei su un palco, come cambia il pubblico che hai davanti?
Più vado avanti più mi rendo conto che la situazione è parecchio eterogenea. Il pubblico più curioso che ho visto nell’ultimo periodo è quello asiatico: tu arrivi lì con una roba che tutto sommato per loro è ancora molto inaspettata, che viene da Occidente, molto contaminata e ibrida, che magari non sanno catalogare; però sono curiosi e stanno lì, dall’inizio alla fine, anche solo con il punto di domanda in testa! La chiave vera è la curiosità e la disponibilità a cambiare gli ascolti, che a volte manca. Questo a prescindere dall’eta di chi viene ad ascoltarti, che varia a seconda dei contesti: magari c’è un festival che ha un pubblico più giovane di partenza, e un altro di musica più improvvisata, più radicale, che di solito richiama appassionati più «anziani». L’importante è che partecipare a un festival non diventi, anche inconsciamente, un esercizio di stile. La cartina al tornasole che le cose le stai facendo bene è quando cambi forma mentis nel corso del tempo perché hai assorbito cose diverse.
Che cosa c’è scritto nella tua agenda del 2025? Dobbiamo aspettarci delle altre uscite?
Da poco è disponibile «Heartbeat», il nuovo disco del trio di Alessandro Rossi: siamo io, Alessandro e Michele Bonifati. È curioso perché è un trio che ha la stessa composizione di HackOut! ma suona in modo diametralmente opposto! Tra le altre cose che usciranno a breve c’è il quartetto di Marco Centasso, Hum/Welt, con Riccardo Sellan, Sarra Douik e il sottoscritto. Poi tra i progetti cui tengo moltissimo vorrei segnalare il quartetto di Max Trabucco, con Federico Pierantoni e Federica Michisanti, e la Lydian New Call di Riccardo Brazzale, un’evoluzione della storica Lydian Sound Orchestra con una nuova line-up: registreremo tra la primavera e l’estate.
di Pietro Cozzi