Mario Rusca: 4th Dimension

A 86 anni, il pianista torinese – figura centrale della scena jazzistica italiana – torna con un nuovo album: l’occasione giusta per farci raccontare il suo passato, il presente e il futuro

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Nato a Torino nel 1937, Mario Rusca è una figura centrale della scena jazzistica italiana, e in particolare milanese. Pianista di solida formazione classica, dopo gli studi al Conservatorio della sua città si trasferisce a Milano, dove approfondisce armonia e composizione e, soprattutto, comincia a frequentare quell’ambiente in cui il jazz è musica viva, fatta sul palco, nei locali, nelle sale di incisione, negli studi televisivi. Da allora non ha mai smesso di suonare, collaborando con fuoriclasse del calibro di Gerry Mulligan, Stan Getz, Art Farmer, Lee Konitz, Chet Baker, Enrico Rava. La sua carriera attraversa settant’anni di storia del jazz italiano, la sua musica conserva una freschezza e una qualità rare. Oggi, a 86 anni, torna con un nuovo disco, «4th Dimension» (Right Tempo), che è insieme una sintesi della sua storia, un omaggio ai grandi del jazz, e una dichiarazione d’intenti. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare come è nato questo progetto e per ripercorrere con lui alcune tappe fondamentali della sua lunga avventura musicale.

«4th Dimension» è un album importante che riassume la tua storia musicale. Come nasce questo disco? E mi racconti anche di quella leggendaria Coppa del Jazz che avete vinto ormai quarant’anni fa?

«4th Dimension» nasce da una mia idea, dopo aver già registrato per Rocco Pandiani un disco in piano solo – volume 1 e volume 2 – e un disco in trio. Questo, invece, è un lavoro con un quintetto che si allarga a nonetto, con l’aggiunta di percussioni e voci. Dopo i precedenti progetti, sentivo il desiderio di fare ancora buona musica, e devo dire che Rocco è stato fondamentale: non solo è un grande appassionato, ma anche una persona sempre disponibile per la musica. Non finirò mai di ringraziarlo, perché mi ha dato la possibilità di fare diverse cose. Come sai, a volte bisogna insistere se credi davvero in un progetto, e finisce sempre che spendi molto più di quanto avevi previsto, soprattutto quando si parla di jazz. È difficile anche per la questione della comunicazione, puoi registrare cose magnifiche, ma se poi il messaggio è debole o sbagliato, rischi di rovinare tutto. Con Rocco, invece, ho trovato una persona che mi ha seguito come mai era successo prima. È raro avere qualcuno così a disposizione, e questo ha fatto la differenza.

Come si è formato il quintetto da cui è nato il progetto «4th Dimension»?

L’idea nasce da un quintetto che avevo intorno al 1984-1985 con Flavio Boltro e Gabriele Comeglio. All’epoca erano molto giovani. Boltro l’avevo conosciuto quando si era appena diplomato, era un vero enfant prodige. La prima volta che l’ho sentito a Torino mi ha colpito moltissimo, aveva una tecnica incredibile ed era molto musicale. Rimasi davvero sorpreso.

E da lì lo hai voluto a Milano?

Sì, io abitavo già a Milano, ma tornavo spesso a Torino perché avevo ancora i miei genitori e insegnavo al Centro Jazz, quindi ci andavo regolarmente. In quel periodo suonavo al Capolinea, e ho iniziato a inserirlo in un quartetto. Poi dal quartetto è nato il quintetto.

Come è avvenuto il passaggio al quintetto?

Tutto è partito da una telefonata di Adriano Mazzoletti, che all’epoca era responsabile della programmazione jazz a RAI RadioTre e organizzava molti concerti. Mi chiama e mi dice: «Sai, dovrei fare una cosa… potresti venire con un gruppo? Anche in trio». 

In quel periodo, difatti, suonavo molto in trio, con Lucio Terzano e Gianni Cazzola:  eravamo la resident band del Capolinea. Inizialmente, quindi, avevo pensato di andarci con loro due. Poi ho provato una sera con Gabriele Comeglio, c’era anche Flavio, abbiamo suonato tutti assieme e mi sono detto: «Forse è il caso di aggiungerli al trio», perché erano due giovani eccezionali, musicalmente bravissimi. Gabriele, tra l’altro, si era appena diplomato alla Berklee di Boston, quindi aveva una formazione fresca e solida.

E come ha reagito Mazzoletti?

Fu molto disponibile. Gli spiegai tutto e mi disse: «Sì, sì, mi piace l’idea.» Così iniziai a scrivere dei brani, e con questo quintetto abbiamo avuto subito successo e abbiamo vinto la Coppa del Jazz.

Una vittoria importante. Ricordi chi erano gli altri finalisti?

C’era Rita Marcotulli, con il suo trio svedese con cui faceva musica un po’ d’avanguardia. Poi c’era Roberto Gatto, l’area romana era ben rappresentata. Il concorso si svolgeva in diverse sedi RAI d’Italia. In ogni città c’era una sorta di «scontro» tra gruppi, la commissione era composta da giornalisti e critici che davano i voti. Una volta siamo arrivati secondi per soli due punti, battuti da un gruppo dixieland. Mi ha fatto sorridere, ma anche un po’ arrabbiare. Poi però abbiamo continuato a ottenere voti altissimi, fino alla finale di Venezia contro Rita Marcotulli. E lì abbiamo vinto noi.

Tornando a «4th Dimension», accanto agli standard hai incluso composizioni originali. Come hai scelto il repertorio e quali sono i brani che senti più rappresentativi?

Sicuramente Suspension e 4th Dimension, che sono venuti fuori di getto. Sono i primi due brani del lato B del disco. Poi c’è Blue Dream, ispirato a Coltrane. E Like Dave, dove mi sono ispirato a Dave Brubeck. Ho scritto una melodia su armonie in stile Brubeck, un po’ come facevano Parker o Gillespie ai tempi del bop, quando prendeva noi giri armonici degli standard e ci costruivano sopra nuove linee melodiche, i famosi «contraffatti». È una pratica che mi ha sempre affascinato.

Dal quintetto della Coppa del Jazz sei arrivato a un organico ben più ampio per questo disco, un nonetto.

Sì, strada facendo, scrivendo i brani e lavorando sugli arrangiamenti, ho sentito l’esigenza di una formazione più corposa. Per esempio, per il brano No Me Esqueca di Joe Henderson, che è un pezzo latino, servivano assolutamente le percussioni. Così ho trovato un bravissimo percussionista di Genova, Marco Fadda. 

E le voci? 

Durante i corsi di musica d’insieme alla Civica Scuola di Musica di Milano, dove insegno, mi era capitato di avere a lezione alcune cantanti, Nicoletta Tiberini, Martina Rossi e Alice Macchi, tre ragazze molto simpatiche. Con loro avevo un buon rapporto, e a un certo punto ho pensato: «Quasi quasi provo a metterci delle voci.» Era complicato, perché stavano ancora studiando, ma leggevano bene la musica. Mi piaceva l’idea di avere le voci in tre, quattro, magari cinque pezzi. Sono partito con No Me Esqueca, poi ho pensato che potevano starci anche in 4th Dimension. In Suspension no, non funzionava. Loro sono state molto brave e disponibili, ho anche cambiato le parti vocali in corsa, assegnando nuove linee a ciascuna. In sintesi, non voglio dire di aver fatto un lavoro «originale» in senso assoluto, perché le voci usate in questo modo si sentivano già nelle colonne sonore degli anni Sessanta, ma l’ensemble nel suo complesso è molto originale e il progetto è perfettamente in linea con lo stile delle produzioni di Rocco Pandiani.

Quindi si è creato un rapporto felice tra te e il produttore?

Sì, assolutamente. Rocco si è fidato di me in tutto. Quando gli dicevo, per esempio, che ci voleva un percussionista, rispondeva: «Non c’è problema.» È stato davvero disponibilissimo. E considera che gli è costato anche parecchio, soprattutto per la fase dei missaggi. Il primo missaggio che ci hanno fatto in uno studio non andava bene. Allora siamo dovuti andare altrove, e poi ancora in un altro studio. L’ultimo missaggio, definitivo, è stato fatto da Alberto Gallo al Digital Lake Studio di Verbania che ha capito subito il tipo di sound che cercavamo, aveva l’orecchio giusto per quel suono anni Sessanta che volevamo ricreare.

Come hai scelto gli standard che hai inserito in questo disco? 

C’erano degli standard che mi piacevano da sempre. I Should Care, per esempio, è uno dei miei brani preferiti. E poi You Stepped Out Of a Dream, che avevo arrangiato già tempo fa, quando ero più giovane. Poi c’è The Way You Look Tonight, bellissimo pezzo. Già il brano in sé è fantastico, io ci ho messo le voci, ho fatto un arrangiamento che – più che bello – funziona. E questo per me è fondamentale.

E In a Sentimental Mood?

Lì c’è un episodio speciale: io e Flavio Boltro da soli, senza ritmica. C’è un’atmosfera irripetibile. Quelle cose che nascono in un momento unico: c’è tensione, rilassatezza, creatività condivisa. Una magia. Per me è davvero irripetibile. C’è poi ‘Round Midnight, dove suona Gabriele Comeglio. Abbiamo usato l’introduzione originale di Monk, senza ritocchi, anche il finale è abbastanza articolato. Gabriele ha suonato benissimo. Non avrei potuto fare un disco così senza quei musicisti. Gabriele suona sax alto, soprano, flauto… tutto. Mi sono lasciato andare sapendo di avere al mio fianco persone così. Riccardo Fioravanti è un grande bassista, grande musicista. Max Furian lo conoscevo di nome, ma suonare jazz con lui è stata una scoperta, è stato un piacere conoscerlo meglio proprio con questo disco. In ogni caso, con gli standard devi sempre cercare un taglio diverso, perché sono stati già suonati e risuonati mille volte. Renderli attuali è difficile, ma credo che, in parte, ci siamo riusciti.

C’è stata anche una ripresa dietro le quinte, mi pare.

Sì, ci tengo molto. Durante le registrazioni abbiamo realizzato un video con riprese sugli strumenti, sui musicisti, su tutto il processo. Ci sono tanti momenti, mentre provavamo o registravamo. Eravamo in stanze diverse: io al pianoforte a coda, bellissimo, Flavio da un’altra parte per registrare bene, Max in isolamento, un lavoro curato. Voglio ancora ringraziare tutti i musicisti che hanno partecipato e un grande grazie a Rocco Pandiani che mi ha permesso di realizzare tutto questo. È stato un progetto intenso e molto sentito.

È vero che sei un calciatore mancato? 

Mah, certe cose succedono per caso… o meglio, non proprio per caso, ma a volte la vita ti fa cambiare direzione. Da ragazzo ero molto appassionato di musica e avevo già iniziato a fare le prime cose, ma il calcio era una parte importante della mia vita.

Vieni da una famiglia di musicisti?

No, per niente, anche se la mia era una famiglia di amatori della buona musica. Mio padre strimpellava il violino, ma lo faceva per gioco. Era molto intelligente e simpatico, e quando si metteva a suonare era una scena incredibile. Mio padre era veneto, mia madre napoletana: due poli opposti che si sono incontrati.

La fantasia napoletana ha avuto la meglio?

Sì, come mi disse anche Alberto Lievore, il manager del Torino: «Ah, sei napoletano? Ecco da dove viene quella fantasia.» Giocavo con astuzia e velocità, non avevo una statura imponente, ma «fregavo» quelli alti perché non mi vedevano proprio. Sono arrivato fino alla Primavera del Torino, ero considerato una promessa. Mi trattavano bene.

Poi cos’è successo?

Mio padre era un uomo pratico. Per lui contava il lavoro, il guadagno. Continuava a spingermi verso la musica. Così, durante una pausa estiva, ho accettato un lavoro come musicista a Monaco di Baviera con un quartetto con cui già lavoravo ogni tanto, poi siamo andati anche ad Amsterdam. Non ho detto nulla al Torino: loro facevano tornei estivi molto importanti, e io, proprio in quella stagione, sono sparito. E ho sbagliato. Loro mi cercavano, sono andati persino a casa dei miei. Mio padre, che in quel momento era dalla parte della musica, ha quasi preso le mie difese. Sono rimasto fuori casa a fare il musicista un mese in più rispetto al previsto, fino a metà settembre. E quando sono tornato a Torino mi sono trovato la cartolina per il servizio militare e sono dovuto partire. Il Torino non riuscì a ottenere nulla per tenermi in città, com’era possibile in altri casi. I primi quattro mesi sono stati un incubo, ero a Casale Monferrato, in mezzo a cinquemila reclute. Le camerate avevano i vetri rotti, era novembre, mi sono ammalato. Io, abituato a vivere in modo dignitoso, mi sono trovato improvvisamente nel baratro. 

E quindi sei uscito dalla traiettoria calcistica.

Sì, però alla fine ho conosciuto un tenente, gli ho raccontato chi ero, che avevo giocato nel Torino, e ha iniziato a trattarmi con i guanti. Così sono entrato nella banda: prima suonavo i piatti, poi la grancassa. Una volta abbiamo persino sfilato allo stadio della Juventus, e qualcuno mi ha riconosciuto. Io cercavo di nascondermi sotto il berretto… da ridere, se ci ripenso ora. Poi ho continuato un po’ a giocare ma ormai il treno era passato, avevo perso l’occasione.

Tornando alla musica, come hai imparato a suonare e come hai incontrato il jazz?

Da piccolino, arrivavo appena alla tastiera del pianoforte. Un amico aveva comprato un pianoforte a coda e mi disse: «Vieni, ti faccio vedere.» Sono andato a casa sua e, con un ditino, ho iniziato a suonare un motivo. Dopo due o tre tentativi, avevo già capito gli intervalli dei tasti. Avrò avuto quattro o cinque anni. Quelle prime quattro note mi avevano colpito tantissimo. Poi ho visto un film sulla vita di Chopin, L’Eterna Armonia, e da lì è scoppiata la passione. Ero impazzito per il pianoforte: la musica di Chopin, e anche l’attore che lo interpretava, Cornel Wilde, mi avevano completamente conquistato.

E i tuoi studi più formali? So che hai studiato composizione con Armando Gentilucci.

Sì, ci sono arrivato attraverso un amico che prendeva lezioni da lui privatamente, perché Gentilucci non insegnava più in Conservatorio. Era un personaggio un po’ scorbutico, ma straordinario. All’inizio mi dava lezione lui, poi sono passato anche da suo figlio, molto bravo. Gentilucci era severo: se vedeva che non scrivevi bene, se ne accorgeva subito. Una volta mi disse: «Non raccontare balle, si vede che non l’hai scritto al pianoforte!» Ed era vero! Però da lui ho imparato tantissimo.

E come è arrivato il jazz nella tua vita?

Avevo quattordici anni, mio fratello Giuseppe, che suonava la batteria ed era appassionato, portò a casa un primo disco di jazz. Non avevamo nemmeno il giradischi, solo uno a puntine d’acciaio e quel disco lo consumai, letteralmente, la puntina d’acciaio bucò quasi il vinile! Mi sono detto «questo è il mio mondo» e da lì sono partito. Poi ci fu Franco Giove, chitarrista dilettante, che mi regalò i primi dischi di Parker & Gillespie (che non capivo). Capendo che non avevo capito, lui mi portò un disco di un pianista in trio, e ricordo di aver copiato da lì due assolo, avevo 15, 16 anni. E poi ci fu un mio caro amico batterista, Franco Mondini che mi faceva ascoltare dischi di pianisti importanti, con lui ed Enrico Rava abbiamo fatto un concerto al Teatro Alfieri di Torino, fu una delle prime cose serie della mia carriera. Mondini poi fece poi parte del quartetto di Chet Baker.

E poi hai iniziato a suonare nei locali? 

Si, all’epoca c’erano i jazz club, alcuni suonavano dixieland, altri erano per noi «modernisti». A Milano c’erano prima il Santa Tecla, poi il Capolinea. Qui Giorgio Vanni, il proprietario, ogni tanto invitava anche Lino Patruno con la sua band, loro rappresentavano la musica «tradizionale», noi eravamo i modernisti. Patruno mi diceva sempre: «Noi siamo la musica, voi i modernisti!», alla fine ho suonato con lui in alcuni contesti un po’ più moderni. Avevamo fatto amicizia e mi chiamava quando serviva qualcosa che funzionasse.

Quando sei arrivato a Milano?

Nel 1964. Continuavo comunque a girare, ma poi nel 1965 è nato mio figlio. Mia moglie, Mirella, era di Milano, quindi mi sono trasferito definitivamente. All’epoca si andava in Galleria del Corso, in centro, al bar Tre Gazzelle, lì ci si trovava tutti: musicisti, attori, tecnici. Se ti mancava un bassista, andavi lì. Non c’era internet. Si faceva così: «Conosci un batterista? Un contrabbassista?» Bastava che uno ti parlasse, e subito si avvicinavano in tre o quattro cercando di capire se c’era un lavoro. Una mattino in Galleria ho incontrato Celentano. Aveva una chitarra, abbiamo fatto amicizia, mi ha portato a casa sua, abbiamo pranzato assieme. Poi, con il tempo, lui ha fatto successo, ma all’epoca era ancora gli inizi.

Come sei diventato il pianista ufficiale del Capolinea?

Sempre in Galleria ho conosciuto Paolo Tomelleri. Io ero molto introverso, torinese, lui mi guardava da lontano, sembravo stargli antipatico, ma poi abbiamo parlato e gli ho lasciato il mio numero di telefono. Tempo dopo ci siamo incontrati di nuovo, mi propose di fare qualche serata in un posto un po’ così, trovato da Nando De Luca.

Il Capolinea?

Esatto. È stato Nando De Luca ad avere l’idea del locale, in quel periodo lavorava molto con Celentano, ma anche con le colonne sonore. Un giorno passa di lì con Pino Sacchetti e Tomelleri, si fermano per un caffè, vedono questo chalet di legno con una stufa spenta in mezzo alla sala. Chiedono di chi è, contattano il proprietario e dopo qualche giorno lo affittano e coinvolgono Giorgio Vanni per la gestione. C’era un vecchio pianoforte di un hotel, un Estonia a coda, per farlo suonare serviva il martello! Comunque, all’inizio al Capolinea non andava nessuno. La stufa era spenta, qualche volta trovavamo pezzi di legna nel giardino davanti per scaldarci. Il forno per la pizza era spento, tutto era spento. Ma da lì, piano piano, è nato qualcosa di importante. Ci ho suonato come pianista fisso per otto anni, due anni in piano solo e sei anni con il trio. 

Il Capolinea fu, per molti anni, la casa dei jazzisti a Milano, per alcuni in senso letterale. Tony Scott se non sbaglio, con cui tu hai collaborato per tantissimi anni, ha vissuto lì per un periodo, è così?

Si, ma Tony viveva dappertutto! Veniva a casa mia, lasciava cassette, borse, strumenti… una volta mi disse: «Guarda sotto il letto, se c’è il minestrone!» Una volta mi diceva: «Domani vado a Praga.» Il giorno dopo lo chiamavo: «Sei arrivato?» Risposta: «Sono a Roma.» «Ma non dovevi andare a Praga?» «Si, ma il primo treno partiva per Roma…»

Altri incontri importanti? 

Moltissimi. Ci fu Joe Venuti, che venne al Capolinea e poi ci rimase per due anni, andava avanti e indietro dagli Stati Uniti e suonava con noi tutte le sere, oltre alla bravura era uno spasso! Gerry Mulligan, con cui ho suonato poi per molto tempo. Larry Nocella, che avrebbe dovuto far parte del mio quintetto e che purtroppo era bravissimo ma inaffidabile. Chet Baker, anche se non l’ho incontrato per la prima volta al Capolinea. E poi Lee Konitz, e tanti altri ancora. 

Vorrei chiudere questa intervista parlando della tua lunga esperienza didattica, che hai sempre portato avanti in parallelo alla tua attività di musicista. Come vedi oggi la situazione del jazz in Italia? Ci sono giovani musicisti che, secondo te, meriterebbero una nuova Coppa del Jazz?

Sarebbe molto interessante, certo. Ma il problema è che oggi manca la figura, la persona, il riferimento che possa dare davvero un impulso a queste iniziative. E mi dispiace dirlo, perché altrimenti che ci stiamo a fare qui, a insegnare? Insegniamo una materia che, non voglio dire che non abbia futuro, ma è dura. Perché o sei bravissimo fin dall’inizio, oppure no, ma se vuoi farcela comunque devi avere una determinazione fuori dal comune. Non basta più solo il talento, c’è il rischio che emergano sempre gli stessi nomi, è un circolo che si auto-alimenta e rende tutto più difficile per i nuovi.

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